Sta per arrivare una grossa novità nelle criptovalute

La seconda più diffusa, Ethereum, rivoluzionerà il suo funzionamento in un modo che potrebbe ridurre drasticamente le emissioni

di Pietro Minto

Un computer per il mining di Ethereum. (Lauren DeCicca/Getty Images)
Un computer per il mining di Ethereum. (Lauren DeCicca/Getty Images)
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Una delle critiche che vengono rivolte più spesso al settore delle criptovalute riguarda il loro impatto ambientale. Secondo una stima del Cambridge Centre for Alternative Finance, Bitcoin, la criptovaluta più diffusa al mondo, all’inizio del 2022 consumava 138 terawattora all’anno, più dell’intera Norvegia. Un’altra analisi ha calcolato che le emissioni annue di anidride carbonica della valuta sarebbero pari a 114 milioni di tonnellate, simili a quelle del Belgio.

L’impatto totale del settore è in realtà significativamente maggiore, se si tiene conto che ad oggi esistono migliaia di criptovalute e almeno mille blockchain attive, i sistemi su cui si basano. A rendere questa infrastruttura così inquinante è il cosiddetto mining, il sistema con cui viene generata nuova valuta. In realtà, questo processo ha come fine principale quello di confermare le transazioni che avvengono nel network. Ogni operazione che avviene nella blockchain, infatti, determina l’aggiunta di un tassello (un blocco) a una lunga catena immutabile.

L’anonimo creatore di Bitcoin, Satoshi Nakamoto, immaginò un sistema decentralizzato, senza banche centrali né governi a comandarlo. Per evitare manipolazioni del network, Nakamoto creò un algoritmo in grado di verificare e confermare ciascuna transazione. Per farlo, alcuni nodi della rete dovevano risolvere complessi problemi matematici la cui soluzione richiedeva capacità di calcolo in continua crescita. In tal modo, chi partecipa a questo processo (i cosiddetti miner) compete nella soluzione di questi enigmi e il primo utente a riuscirci ha il diritto di inserire il nuovo blocco nella blockchain, ottenendo una ricompensa in Bitcoin.

Questo complesso procedimento è detto «Proof-of-Work» (PoW) ed è da tempo al centro della questione energetica (e quindi ambientale) del settore crypto, perché la soluzione di questi problemi viene affidata a sistemi di potenti schede video per computer, che vengono utilizzate per fare i calcoli necessari. Il successo di Bitcoin e delle altre criptovalute ha determinato la diffusione delle cosiddette mining farm, solitamente capannoni pieni di computer che hanno bisogno di enormi quantità di energia elettrica. Nel solo Texas, uno stato diventato un punto di riferimento per i miner di tutto il mondo, questo settore consuma energia elettrica sufficiente a servire «l’intero stato di New York», secondo le stime di Bloomberg.

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Per queste ragioni, da tempo Ethereum, la seconda blockchain più diffusa al mondo, si sta preparando a un evento di portata storica per il settore, chiamato «The Merge» (la fusione o l’accorpamento), con cui smetterà di usare il PoW in favore di un’alternativa considerata più efficiente e meno inquinante, chiamata «Proof-of-Stake». La differenza tra i due approcci è ben sintetizzata dai loro stessi nomi: nel caso del Proof-of-Work, il meccanismo di consenso del sistema si basa su una «prova», che consiste nello sforzo computazionale necessario a risolvere il problema matematico; nel secondo caso, a fare da garante è l’«interesse in gioco» (stake) dell’utente nella blockchain stessa.

Proof-of-Stake e Proof-of-Work
Nel PoS, infatti, il mining e la risoluzione di problemi matematici complessi sono sostituiti da un sistema in cui alcuni nodi della rete (detti validators) garantiscono la validità delle transazioni e operazioni effettuate “impegnando” una quota delle proprie criptovalute. In pratica, normalmente i miners competono per validare nuove transazioni – e ottenere così la ricompensa – impiegando i propri imponenti sistemi di computer per risolvere per primi un problema matematico. Con il nuovo sistema, i miners di Ethereum competeranno per ottenere la possibilità di validare le transazioni offrendo in pegno una parte del proprio capitale.

Il sistema sceglie un validatore sulla base di quanto ha offerto, evitando che lo stesso problema sia risolto da molti miners contemporaneamente. La potenza di calcolo richiesta per validare le transazioni con questo sistema, poi, è generalmente molto inferiore rispetto al PoW.

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Se il PoW si basa sul principio che per garantire l’autenticità delle transazioni sia distribuito il compito di verificarle tra chi ha più potere computazionale, cioè più computer impiegati nel mining, nel PoS questo ruolo è distribuito tra chi ha più valuta. Il principio è che chi mette in pegno una parte consistente del proprio capitale ha interesse al corretto funzionamento della blockchain. Anche perché se convalida una transazione fraudolenta può perdere parte o tutto il capitale messo in pegno.

La lunga storia del Merge
Il Proof-of-Stake fu proposto per la prima volta nel 2012 dai pionieri delle criptovalute Sunny King e Scott Nadal e fu usato per la prima volta nella criptovaluta Peercoin. Da ormai un decennio, quindi, PoS viene presentato come la soluzione ai problemi energetici di un intero settore. Secondo alcuni sostenitori di questo metodo, infatti, optare per il Proof-of-Stake taglierebbe il 99,95% delle emissioni di Ethereum e della sua valuta Ether, cancellando di fatto uno dei principali punti critici del settore delle criptovalute.

Nonostante queste premesse, la storia del Merge è stata finora molto travagliata. Il creatore di Ethereum, Vitalik Buterin, programmatore ventottenne russo naturalizzato canadese, parla dell’importanza del PoS almeno dal 2013, due anni prima della nascita di Ethereum, quando dirigeva la rivista specializzata Bitcoin Magazine. Come raccontato dal sito Gizmodo, «il fondatore voleva che Ethereum usasse questo sistema sin dall’inizio ma si rese conto che il processo era troppo complicato». Ethereum nacque così seguendo il meccanismo di consenso tradizionale ma Buterin e i suoi non smisero mai di cercare un modo di convertirla alla Proof-of-Stake.

Già nel 2017, gli sviluppatori della blockchain stavano lavorando a un’alternativa di questo tipo, detta Gasper (ma anche Casper). Nel maggio del 2021, poi, l’evento sembrava fosse «questione di mesi», per poi essere ripromesso anche all’inizio del 2022. Infine, dopo qualche test primaverile, la data ufficiale del Merge è stata segnata per il 19 settembre prossimo. È un’operazione complicatissima: parlando col Wall Street Journal Cory Klippsten, fondatore di una società di servizi finanziari per Bitcoin, l’ha paragonata alla riparazione di un aeroplano in volo.

Scetticismi e resistenze
È anche questa serie di trascorsi a seminare scetticismo tra alcuni appassionati e investitori di Ethereum. Come scrive il giornalista del Guardian Alex Hern, però, la conversione a PoS è ormai inevitabile: potrebbe slittare ancora, ma prima o poi sarà realtà. E non tutti sono felici.

Nel corso dell’ultimo decennio, infatti, attorno al settore del mining, lo stesso che verrebbe di fatto reso obsoleto da PoS, sono nati enormi interessi finanziari, che vanno ben oltre la natura informatica della blockchain o le preoccupazioni degli ambientalisti. Questi miner, continua Hern, hanno «asset reali, fisici, investiti nella continuazione della criptovaluta basata sulla Proof-of-Work, dalle costose schede grafiche agli allacciamenti elettrici, e non è facile riconvertire il tutto a qualcos’altro».

Il rischio è che chi ha questi interessi non si arrenda alla fine del proprio business e faccia il possibile per mantenere il sistema precedente e più inquinante: una delle misure a cui potrebbero ricorrere è la cosiddetta “divisione fork”. Essendo decentralizzate e open source, le criptovalute possono essere di fatto modificate dagli sviluppatori, anche prendendo una blockchain esistente, cambiandone alcuni dettagli e clonandole (conservando tutta la sua storia precedente di archivi e scambi). Questi eventi, chiamati “fork”, non sono così rari: dalla sola Bitcoin sono nate molte divisioni, come Bitcoin Cash e Bitcoin Classic. Il rischio è che qualcuno con forti interessi nel mining decida di creare una fork di Ethereum in grado di continuare con il sistema Proof-of-Work, col rischio di duplicare le blockchain generando grande confusione e possibili perdite.

Le critiche al Merge non sono solo economiche. Alcuni sostenitori del PoW sono ostili all’avvento del Proof-of-Stake perché temono che la sua diffusione possa creare un fenomeno che chiamano DINO, ovvero «Decentralization In Name Only» (decentralizzazione soltanto a parole).

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Il Proof-of-Stake, infatti, si basa sull’assunto che chi possiede criptovalute abbia interessi a certificare correttamente le transazioni della blockchain, poiché una pessima organizzazione della blockchain finirebbe per ledere i suoi investimenti. È un argomento logico che finisce per consegnare sempre più potere decisionale nelle mani di una minoranza di utenti, perlopiù i più ricchi. Nel nome della decentralizzazione, si avrebbe l’accentramento di potere nelle mani di pochi. Peggio ancora, conclude sempre Hern: questo sistema «darebbe ulteriore potere a coloro i quali gestiscono il denaro altrui, ovvero centri di scambio centralizzati come Coinbase o Binance, e istituti come Celsius e Voyager».

In vista del prossimo 19 settembre, Ethereum si sta preparando a possibili fork e divisioni interne. Da un lato, il Merge è un evento atteso da molti utenti che non vedono l’ora di risolvere il problema ambientale delle blockchain, dall’altro rischia di suscitare le reazioni di un settore, quello del mining, che solo lo scorso luglio ha generato 555 milioni di dollari, nonostante il momento negativo per il settore delle criptovalute.