La grande divisione nel settore delle criptovalute

È tra i fedeli al Bitcoin, noti come “massimalisti”, e i nuovi arrivati di Ethereum, la cui tecnologia è sempre più usata per altre applicazioni

(Anthony Kwan/Getty Images)
(Anthony Kwan/Getty Images)
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Agli inizi di aprile si è tenuta a Miami “Bitcoin 2022”, la conferenza annuale dedicata alla criptovaluta più diffusa al mondo, tenuta dopo un anno di forte crescita per le attività legate alla blockchain, la tecnologia su cui si basano le criptovalute. Come ha notato il giornalista Ryan Broderick, però, «a essere responsabile del boom del settore crypto nel 2021 non è stata Bitcoin, ma Ethereum».

Ethereum è il nome di una blockchain di nuova generazione rispetto a Bitcoin, che funziona anche come piattaforma per la creazione e la pubblicazione dei cosiddetti “smart contract”, o contratti intelligenti, accordi in cui il rispetto dei termini e delle clausole è controllato da un software eliminando l’esigenza di un intermediario. Ethereum ha anche una criptovaluta nativa, Ether, ma è nota soprattutto per alcune sue applicazioni che negli ultimi mesi hanno attirato molta attenzione mediatica, oltre che investimenti massicci. Tra queste ci sono gli NFT (Non-Fungible Token), i certificati digitali che attestano la proprietà e l’autenticità di un prodotto sulla blockchain, e le DAO (Decentralized Autonomous Organization), organizzazioni e collettivi che si gestiscono attraverso la blockchain.

Sono soprattutto gli NFT ad aver attirato attenzioni e ad aver smosso interessi mediatici ed economici nell’ultimo anno, anche grazie a celebrità, cantanti e attori che hanno pubblicizzato sui social network il loro coinvolgimento in questo settore. Il successo di questi prodotti non ha fatto che aumentare il divario tra gli investitori che sono rimasti fedeli a Bitcoin e gli utenti nuovi arrivati.

Questa divisione era stata descritta nel 2014 dal programmatore Vitalik Buterin, il fondatore di Ethereum. Già all’epoca alcuni dei più accaniti appassionati di Bitcoin vedevano di cattivo occhio la concorrenza, criticando l’esistenza stessa di blockchain alternative: in gergo, questo tipo di investitori vengono detti “Bitcoin Maximalist” (o “Maxi”). Secondo Buterin, dietro al massimalismo si nascondeva «l’idea che un ambiente composto da diverse criptovalute in concorrenza non sia desiderabile, che sia sbagliato lanciare “l’ennesima valuta” e che sia giusto e inevitabile che Bitcoin raggiunga una posizione di monopolio nella scena delle criptovalute».

Oggi la valuta Bitcoin è ancora la più usata e quella con la capitalizzazione di mercato maggiore (800 miliardi di dollari contro i 379 miliardi di Ethereum), ma è innegabile che il mercato sia cambiato drasticamente, aprendosi a centinaia di proposte diverse. Non solo, per milioni di persone la parola «crypto» richiama sempre più prodotti che con Bitcoin non hanno molto a che fare, come le Bored Ape Yacht Club o i CryptoPunks, le due serie di NFT più conosciute.

Uno dei “maxi” più noti nel settore è Jack Dorsey, co-fondatore di Twitter, social network di cui è stato amministratore delegato fino allo scorso novembre, quando aveva deciso di occuparsi a tempo pieno del sistema di pagamenti Square, subito ribattezzato Block (in onore della blockchain). In quanto massimalista, Dorsey investe solo su Bitcoin, rifiutando pubblicamente la possibilità di aprirsi a Ethereum. Per massimalisti come lui, tutte le criptovalute che non sono Bitcoin (gentilmente chiamate “shitcoin”, da shit, merda) semplicemente non valgono: «Non le prendo nemmeno in considerazione», ha detto lo scorso anno, definendo Bitcoin «la valuta nativa di Internet».

Tra le ragioni per cui i massimalisti ambiscono al predominio dei Bitcoin c’è anche la sua origine, ritenuta più “pura” e trasparente rispetto a quella della concorrenza. La valuta, infatti non ha banche centrali né ha ricevuto investimenti iniziali capaci di intaccarne l’autonomia, cosa che invece molte altre criptovalute hanno fatto. Ether, ad esempio, si è autofinanziata nel 2014 con un metodo di raccolta fondi noto come ICO (initial coin offering, o offerta di moneta iniziale), in cui gli investitori acquistano una somma iniziale di criptovalute sperando che nel tempo acquisti maggiore valore, e per poter accedere ai servizi offerti dalla startup in questione. È un meccanismo sempre più diffuso, che però i massimalisti giudicano male in quanto opposto a quello tradizionale adottato dalle startup, che attraggono gli utenti e gli investitori in un secondo momento con il proprio prodotto. «Bitcoin invece ha avuto un lancio imparziale», ha spiegato a Motherboard Jimmy Song, uno dei massimalisti più attivi nel settore.

Tra le accuse rivolte dai massimalisti del Bitcoin al mondo crypto c’è essenzialmente l’aver abbandonato il focus sulla decentralizzazione e – soprattutto – l’indipendenza da qualsiasi forma di potere centrale. Il settore, oggi, sarebbe più interessato a inseguire la valuta o l’NFT del momento che a costruire un nuovo modello finanziario ed economico.

A spingere i massimalisti a rinnegare ogni potenziale evoluzione del settore è anche la speranza in un fenomeno futuro che chiamano hyperbitcoinization. Il termine fu coniato nel 2014 da Daniel Krawisz, ricercatore del Satoshi Nakamoto Institute, che lo usò per indicare «una transizione volontaria da una valuta inferiore a una superiore», la cui adozione sarebbe causata da «una serie di scelte individuali imprenditoriali più che da un singolo monopolista che gioca con il sistema».

Molti analisti e investitori hanno spesso definito Bitcoin e la cultura legata al crypto come una setta, ovvero un ambiente chiuso, regolato da leader carismatici forti, dal quale può risultare difficile uscire. Se Bitcoin è una setta, quindi, la hyperbitcoinization è la sua grande promessa, il sogno di un futuro migliore e lo scenario a cui i membri devono tendere. In quanto tale, non è dato sapere quando avverrà, ma i massimalisti più convinti pensano sarà il momento in cui il mondo abbandonerà del tutto la moneta legale (come euro o dollaro) adottando universalmente la criptovaluta. Solo una.

Come si legge nel sito di Phemex, un servizio per lo scambio di criptovalute, per hyperbitcoinization si intende il momento in cui il mondo abbandonerà la vecchia idea di denaro (un processo chiamato demonetizzazione) per adottare in massa e univocamente Bitcoin, che fungerà da «bene rifugio, mezzo di scambio e unità di conto».

È uno scenario oggi poco probabile, vista la crescente influenza di Ethereum nel settore, anche perché è difficile immaginare un momento in cui le criptovalute verranno effettivamente utilizzate come valute, nel vero senso della parola. Hanno infatti un andamento troppo oscillante e imprevedibile per essere usate nel pagamento di beni quotidiani: il rischio è di sborsare una certa quantità di Bitcoin oggi e pentirsene in futuro, quando il valore della valuta sarà cambiato drasticamente.

Per dare un’idea del fenomeno, solo lo scorso marzo un Bitcoin era arrivato a valere circa 42mila euro; oggi è attorno ai 36mila. Questa imprevedibilità rende l’utilizzo di Bitcoin come moneta di scambio troppo rischioso, rendendolo di fatto un asset finanziario speculativo («crypto-asset» lo definisce la Banca centrale europea). Non a caso la hyperbitcoinization dipinge un futuro in cui anche questo problema sarà risolto e Bitcoin sarà l’unica valuta in uso in tutto il mondo.

Al di là dei bizzarri toni messianici di questa retorica, la frangia massimalista, per quanto minoritaria, dimostra la persistenza delle divisioni culturali all’interno del mondo crypto. Come ha scritto Broderick, «gli evangelisti di Ethereum vogliono rifare internet», mentre quelli di Bitcoin «vogliono decostruire il mondo intero». Dato che il settore del crypto sembra sempre più indirizzato verso un’ampia proposta di valute e prodotti, la posizione massimalista potrebbe danneggiare la diffusione di Bitcoin, proprio a vantaggio della concorrenza. Soprattutto di Ethereum.