Perché l’arte degli NFT è così dozzinale

Secondo gli standard della critica tradizionale, la “criptoarte” è spesso derivativa, banale e dilettantesca: eppure viene venduta a cifre esorbitanti

Beeple
Un particolare dell'opera "Everydays: the First 5000 Days" dell'artista Beeple (ANSA/UFFICIO STAMPA CHRISTIE'S)
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Il fiorente mercato degli NFT – certificati di autenticità digitale usati per garantire la proprietà di determinati oggetti e renderli unici – è da tempo considerato da molti artisti una risposta al bisogno condiviso di conferire maggiore valore economico alla cosiddetta arte digitale, quella prodotta e distribuita attraverso tecnologie digitali che consentono teoricamente di replicarla all’infinito e rendono difficile per un potenziale acquirente dimostrarne eventualmente la proprietà. Il rapido afflusso di grandi interessi finanziari, attestato dalle spese smisurate che gli acquirenti sono disposti a sostenere in criptovalute per avere gli NFT, ha tuttavia alimentato il sospetto che a determinare le cifre della “criptoarte” siano attualmente fattori diversi e sostanzialmente slegati dal valore artistico delle opere.

Parallelamente alle discussioni sulle prospettive degli NFT e sul notevole impatto ambientale della tecnologia (la blockchain) da cui dipendono, da qualche tempo si è sviluppato quindi un dibattito critico sul valore estetico dei contenuti comunemente definiti “opere d’arte digitali”, e su quanta parte del loro valore commerciale derivi da quel valore estetico o da altro. In particolare, una discussione nata tra esperti e critici d’arte riguarda le ragioni per cui, in molti casi, il valore artistico degli NFT è basso se non inesistente, nonostante le cifre esorbitanti a cui vengono venduti.

Come esempio di queste dinamiche, viene citato il recente interesse suscitato da particolari file “da collezione” a lungo privi del valore commerciale raggiunto negli ultimi mesi. È il caso di CryptoPunk, un progetto di NFT avviato anni fa e formato da 10 mila immagini in formato avatar, molto simili ai file di grafica ampiamente diffusi su Internet e sui pc degli anni Duemila. Queste immagini – che non sono esattamente opere d’arte digitali – hanno cominciato ad attirare attenzioni significative anche da parte di case d’asta come Christie’s – già precedentemente coinvolte in transazioni simili ma per NFT associati a opere d’arte digitali – dopo che estese comunità di investitori si sono dimostrate disposte a pagare collezioni di CryptoPunk decine o centinaia di migliaia di euro in criptovaluta.

In breve e semplificando i termini della questione, gli NFT (“Non-Fungible Token”) sono “beni” digitali di un qualche genere unico, che possono essere acquistati e venduti come qualsiasi proprietà in specifici mercati ma che non hanno una forma tangibile. Sono generalmente descritti come certificati di proprietà di determinati oggetti digitali a cui sono associati, oggetti digitali che vengono resi file unici e non replicabili attraverso la blockchain, un sistema di controllo mantenuto da migliaia di terminali informatici e che sta alla base, tra le altre cose, del funzionamento delle criptovalute.

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Gli NFT possono essere associati a qualsiasi risorsa – video, canzoni, tweet, meme e altro – ma hanno trovato una delle principali e oggi più conosciute applicazioni nel commercio di “opere d’arte digitali”. Una parte della discussione si è quindi concentrata su un punto noto del dibattito sull’arte in generale: quanto artistiche o pseudo-artistiche possano essere considerate le opere a cui gli NFT sono associati.

Da un lato, valgono per gli NFT molti degli argomenti tradizionalmente utilizzati anche in passato e in differenti contesti per legittimare la natura artistica di una serie di opere da molti giudicate dozzinali, brutte o, banalmente, non arte. Del resto rientra in parte in un fenomeno ricorrente e normale, che nuove opere artistiche suscitino perplessità all’interno di più consolidati e istituzionali ordini di idee e percezioni. E da questo punto di vista le opere d’arte digitali non farebbero eccezione.

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Dall’altro lato, è abbastanza diffusa l’impressione che a definire il valore estetico delle opere, nel caso degli NFT, siano convenzioni unicamente legate ai fenomeni di collezionismo che queste opere riescono a generare a prescindere dal loro concreto valore artistico. Il fatto che il riconoscimento della loro autenticità avvenga sulla base di una certificazione tramite blockchain potenzialmente disponibile per qualsiasi altro bene, per giunta, rende ancora più sfumate e meno chiare le distinzioni tra queste opere e altri contenuti che utilizzino la stessa tecnologia di certificazione ma che molte meno persone sarebbero inclini a considerare arte, come per esempio i video di azioni di sport o i tweet.

Rimanendo sul piano artistico, l’applicazione di criteri tradizionali nella valutazione estetica delle opere d’arte digitali ha prodotto nella maggior parte dei casi una serie di commenti critici che si concentrano sulla bruttezza e sulla banalità di queste opere. Come esempio significativo di questa relazione apparentemente molto debole tra valore commerciale e valore estetico è spesso presa in considerazione la costosissima produzione del più noto artista digitale al mondo, Beeple, pseudonimo del quarantenne americano Mike Winkelmann.

La sua opera Everydays: The First 5,000 Days – associata a un NFT venduto all’asta a marzo 2021 da Christie’s per l’equivalente in criptovaluta Ether di 69,3 milioni di dollari – è considerata una tra le più costose opere d’arte di sempre di un artista vivente. È un collage ottenuto mettendo insieme 5 mila disegni prodotti da Beeple per un suo progetto quotidiano personale avviato il 1° maggio 2007, anni prima che le criptovalute o gli NFT esistessero, e successivamente messo in vendita sotto forma di NFT a lavoro terminato. L’opera è stata acquistata da un programmatore di Singapore, Vignesh Sundaresan, noto con lo pseudonimo Metakovan e proprietario di Metapurse, ritenuto il più grande fondo di NFT al mondo.

L’esempio di Beeple è considerato significativo anche in relazione alla sua sostanziale distanza dal mondo dell’arte tradizionale e dagli studi di storia dell’arte. Dopo una laurea in informatica e un primo lavoro come web designer, Beeple ha sfruttato le sue competenze con programmi di grafica e animazione per produrre disegni in cui prevalgono temi di satira politica e protesta sociale, spesso ambientati in scenari distopici e postapocalittici. Niente di singolare né apprezzabile oltre una certa misura, secondo i critici d’arte che si sono occupati di lui e che ritengono anzi trascurabile il valore estetico delle sue opere, e in alcuni casi di cattivo gusto sia la scelta dei soggetti che i messaggi veicolati, perlopiù stereotipi, banalità e cliché.

Sebbene alcuni critici d’arte si siano occupati di Beeple – più che altro in ragione del suo grandissimo successo – l’impressione condivisa da diversi osservatori in merito alla contemplazione delle opere d’arte digitali associate a NFT di grande valore è che non ci sia spazio per una critica seria. O perlomeno che in quelle opere non ci sia spazio per la critica d’arte più di quanto non ce ne sia nella valutazione estetica di qualsiasi altro bene associato a un NFT: una gif, per esempio.

Secondo molti commentatori, la ricerca e la selezione dei beni i cui diritti possano essere convertiti in un token digitale registrato su una blockchain (“tokenizzazione”) sono probabilmente guidate da criteri non basati sulla verifica dell’eventuale presenza di una dimensione artistica significativa, bensì sulla verifica di una commerciabilità di quei beni in senso esteso.

In questo senso gli NFT avrebbero molto più a che fare con il marketing che con l’arte. «Non esiste una regola universale applicabile, quando si tratta di determinare il valore dell’arte, ed è trascorso molto tempo da quando qualcuno pensava che dipendesse esclusivamente dall’abilità o dalla difficoltà di esecuzione. Ma la vendita di Beeple indica fino a che punto il marketing sia precipitato nel vuoto creato dalla frantumazione delle vecchie regole del merito artistico», scrisse a marzo sul Washington Post il critico d’arte australiano Sebastian Smee, dopo l’asta di Everydays: The First 5,000 Days da Christie’s.

Questa distanza tra l’arte e gli NFT spiegherebbe anche perché nel caso di Beeple o di altri artisti digitali come Bugmeyer, pseudonimo di Peter Mohrbacher, precedentemente noto come autore di illustrazioni di carte da collezione del gioco “Magic: l’Adunanza”, sia sostanzialmente assente tutto l’apparato critico che si è storicamente sviluppato intorno all’arte, e a molti appaia inappropriato e fuori luogo qualsiasi tentativo di collocare le opere all’interno di una tradizione culturale.

E se anche esistesse quel livello, sostengono alcuni commentatori, la critica potrebbe forse provare a distinguere un’opera da un’altra ma, in generale, constaterebbe un’improvvisa riconsiderazione collettiva del kitsch e uno sfrenato dilettantismo, come unico tratto comune in gran parte di quelle opere.

Dietro l’arte degli NFT, ha scritto il Washington Post, esiste tuttavia «un ecosistema globale di artisti crittografici» che si era avvicinato a questa tecnologia con passione e curiosità, nella speranza di poter ottenere maggiori gratificazioni, molto prima che diventasse un argomento di interesse pubblico. Attraverso gli NFT, «molti si guadagnano da vivere in modo dignitoso, abbandonano lavori secondari, sostengono le famiglie, pagano l’università e acquistano case».

Rimanere per lungo tempo fuori dal mainstream, secondo il Washington Post, ha inoltre permesso a quelle comunità di sviluppare un sistema di valori autonomo, talvolta in opposizione al mondo dell’arte. «La blockchain, che registra pubblicamente ogni transazione, è fondata su una trasparenza estranea alla cultura delle gallerie silenziose. Il decentramento significa che gli artisti non hanno bisogno di affollarsi nelle città che sono centri artistici. E l’eliminazione degli intermediari incoraggia gli artisti a sostenersi l’un l’altro piuttosto che a intrattenersi con gli addetti ai lavori ai cocktail party».

Nel mondo dell’arte diffusa nelle forme e attraverso i canali tradizionali, alcuni ritengono il sistema decentralizzato di cui si avvalgono gli NFT una potenziale, importante risorsa per l’arte digitale. Considerata la tecnologia di certificazione di cui si avvale, la criptoarte potrebbe alimentare un mercato teoricamente più libero e trasparente, e meno esposto alle deformazioni prodotte da intermediari sfruttatori, ha scritto il sito ArtThou, una piattaforma britannica che promuove artisti contemporanei attraverso mostre, articoli e recensioni.

Ma di fatto già adesso non è così, secondo ArtThou, perché a controllare quel mercato ci sono intermediari tecnologici molto influenti (piattaforme come SuperRare, OpenSea, Nifty Gateway e Rarible) in cui si concentra la maggior parte delle vendite di NFT. E perché, soprattutto, il mercato è dominato da artisti che lasciano poco spazio ad altri, e che si trovano in posizioni di vantaggio semplicemente per il fatto di aver cominciato con gli NFT prima degli altri e forti di una relativa popolarità già acquisita in precedenza. Secondo il sito d’arte Dada.art, gli attuali mercati della criptoarte sono sistemi strutturati e ordinati sulla base di un singolo attributo – cosa si vende di più – misurato tra molti partecipanti.

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«Quelli che compaiono in cima alla lista hanno la maggior visibilità e beneficiano della social proof: le persone sono cioè più inclini a comprare quell’arte perché altre persone lo stanno già facendo». È un ciclo di feedback che tende quindi a premiare i già famosi, scrive Dada.art, escludendo altri artisti ugualmente meritevoli ma la cui popolarità non è di fatto incentivata dal funzionamento del mercato.

Secondo ArtThou, a determinare l’interesse per gli NFT – a cominciare da quello di grandi società come Christie’s – è stata più la volontà di «saltare sul carro delle criptovalute» che non un’appropriata valutazione artistica delle opere digitali da utilizzare per compiere quel salto. E l’obiettivo è principalmente quello di soddisfare investitori a cui non importa cosa stiano comprando ma soltanto che sia “di moda” farlo, e che quelle operazioni attirino capitale sociale e reale. Tutto questo ha inevitabilmente ampliato lo scarto tra valore artistico e valore di mercato delle opere. «Cosa potrebbe esserci di più brutto dell’opera “Uncle Bernie’s Trilion Dollar Superteat”?».

Il rapido e sconcertante successo di Beeple come artista di opere digitali – un suo video acquistato l’anno scorso per 66 mila dollari è stato rivenduto a febbraio per 6,6 milioni di dollari – ha favorito e incentivato, in una tendenza generale comunque già avviata, l’affermazione di altri professionisti precedentemente conosciuti soltanto nel loro settore, molto spesso freelance che lavorano nell’intrattenimento. Cosa che peraltro spiegherebbe, nell’attuale mercato degli NFT, una cospicua presenza di disegni tratti da un immaginario molto influenzato dal cinema di fantascienza.

Ma a motivare l’interesse di queste persone per gli NFT sarebbe, secondo molti, non tanto un’aspirazione a ottenere un’approvazione culturale o una certificazione “artistica” del proprio lavoro creativo, quanto la prospettiva di ottenere maggiori guadagni in un contesto in cui l’arte digitale, per quanto onnipresente (dal cinema all’industria videoludica), non è percepita dagli autori come un’attività adeguatamente valorizzata.

A marzo scorso, il concept artist Ben Mauro – che in precedenza aveva lavorato alla realizzazione di modelli e illustrazioni utilizzate per film come Elysium e Lo Hobbit e per videogiochi della serie Halo e Call of Dutyha guadagnato oltre 2 milioni di dollari in criptovaluta vendendo una serie di sue illustrazioni come carte da collezione su una piattaforma di compravendita di NFT.

Secondo Luke Plunkett, game designer e redattore del sito di recensioni di videogiochi Kotaku, il caso di Mauro è considerato nel giro di chi si occupa di progettazione grafica di videogiochi un «esempio di alto profilo» di professionisti che hanno visto nella «corsa all’oro della blockchain» prima di tutto un’opportunità economica.

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Riferendosi ai professionisti che provengono dal suo ambiente, Plunkett afferma che un fattore determinante per comprendere la crescita e il successo degli NFT in quel giro sia il fatto che molti artisti digitali siano lavoratori del settore dei videogiochi e del cinema generalmente impiegati a contratto o stipendiati. Il più delle volte molti tra loro vedono frustrate le loro speranze di «ottenere un qualche tipo di vero “valore” per il loro lavoro», che sia commisurato al successo che poi a volte ottengono i prodotti nati dallo sviluppo di quelle idee e di quelle immagini. Questa condizione rende quei lavoratori più facilmente inclini a cercare di ottenere credito in altre forme, come gli NFT, la cui flessibilità, per esempio, permette agli autori delle opere di guadagnare una certa percentuale su ogni futura vendita di uno specifico certificato.

Solo che così facendo rafforzano – spesso in modo inconsapevole – un sistema «selvaggiamente sbilenco, pericoloso e deregolamentato», esposto ad altri fenomeni di sfruttamento e al rischio di truffe, operazioni di riciclaggio di denaro e speculazioni finanziarie. Secondo Plunkett, l’intero sistema si regge sulla premessa che un gruppetto di artisti già affermati – tra cui Beeple, che anche prima di Everydays: The First 5,000 Days aveva 1,8 milioni di follower su Instagram e creava immagini per Justin Beiber, Childish Gambino, SpaceX e Apple – sia riuscito a monetizzare opere esistenti vendendo i relativi NFT su piattaforme che dipendono interamente da un giro di investitori a cui interessa poco il valore artistico ma soltanto quello commerciale. Investitori che «continuano a convincersi a vicenda che qualsiasi valore risieda in token che sono completamente estranei alle opere d’arte stesse».

A prescindere dalle convinzioni di ciascun autore di arte digitale sulle potenzialità e sulle prospettive degli NFT, allo stato attuale la criptoarte rimane un fenomeno fortemente condizionato da investimenti e dinamiche poco legate ai discorsi sull’arte. Molti artisti la considerano una fonte di rischi più che di opportunità, afferma Plunkett, e temono che il mercato degli NFT – anziché contribuire a migliorare le condizioni degli autori di lavori non adeguatamente valorizzati – possa finire per replicare e ingigantire il tipo di disparità e sproporzioni già esistenti nell’industria dell’arte, favorendo soltanto gli interessi di gruppi ristretti.