Il prezzo del petrolio sta scendendo

E non è una buona notizia: c’entrano il petrolio iraniano e il rallentamento dell’economia cinese, ma soprattutto la prospettiva di una recessione globale

di Mariasole Lisciandro

(AP Photo/Rajanish Kakade)
(AP Photo/Rajanish Kakade)
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Il prezzo del petrolio è in calo da settimane, dopo essere stato in costante crescita dall’inizio della pandemia. Potrebbe sembrare una buona notizia, visto che i rincari della benzina e dell’energia generale sono tra le cause principali dell’inflazione che sta mettendo in difficoltà tantissime famiglie. Ma sta scendendo per motivi preoccupanti, ossia la sensazione diffusa che l’economia globale si stia avviando verso un rallentamento o, addirittura, una recessione.

Va ricordato che il prezzo del petrolio è molto sensibile a cambiamenti della domanda o dell’offerta. Le restrizioni introdotte all’inizio della pandemia avevano ridotto la mobilità e quindi la domanda di petrolio: i prezzi del greggio erano andati talmente al ribasso che il 20 aprile 2020 la quotazione del West Texas Intermediate (WTI), il prezzo di riferimento statunitense, divenne negativa.

In questi giorni, il suo valore rimane sotto i 100 dollari al barile: il WTI ha perso il 25 per cento da inizio giugno, mentre il Brent il 21, fino a tornare ai livelli precedenti alla guerra in Ucraina.

È vero che il suo prezzo resta comunque molto alto, a dei livelli che non vedevamo da anni. Dopo la pandemia, l’offerta dei paesi produttori non è aumentata tanto quanto la domanda, rendendo di fatto il petrolio un bene scarso (nel senso di non diffuso) e quindi “prezioso”. È una cosa importante, di natura strutturale, che potrebbe rimanere così per ancora molto tempo.

I paesi produttori sembrano non avere intenzione di aumentare di molto la produzione di petrolio, cosa che garantirebbe un calo del suo prezzo perché di fatto ce ne sarebbe di più. Non lo fanno per due motivi: sia perché prezzi così alti garantiscono loro ampi margini di guadagno, sia perché non hanno le risorse per farlo. Per anni il petrolio aveva mantenuto infatti un prezzo molto più basso, e i produttori avevano ridotto parecchio gli investimenti per aumentare la capacità di estrazione, in vista anche di uno spostamento graduale dei paesi verso fonti di energia più pulite e sostenibili.

A inizio agosto l’OPEC+ (che include i 13 membri dell’OPEC, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, tra cui Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, più altri paesi come la Russia) ha stabilito un aumento della produzione quasi insignificante, che riesce a soddisfare appena lo 0,1 per cento della domanda globale.

Oltre a questi fattori strutturali, poi, bisogna considerare quelli esterni, come la guerra in Ucraina e il fatto che l’Occidente stia tagliando le forniture di petrolio russo.

Inoltre, c’è un fattore puramente tecnico. Il petrolio viene acquistato in dollari, che i paesi europei devono ottenere in cambio di euro per poterlo pagare. Più il dollaro è forte, più euro serviranno per comprare un barile di petrolio. Ed è proprio quello che è successo: a metà luglio, l’euro ha toccato la parità col dollaro per la prima volta dopo tanto tempo, ossia ci voleva un euro per acquistare un dollaro. A inizio anno un euro valeva circa 1,15 dollari e addirittura 1,6 nel 2008. Allora era molto più conveniente comprare petrolio, rispetto a ora.

Si pensi che quando nel 2008 il prezzo del barile era arrivato a 144 dollari, con il cambio favorevole all’euro il prezzo finale in Europa era di soli 97 euro. Oggi gli aumenti non sono più attutiti da un euro forte e incidono alla pari.

– Leggi anche: Perché euro e dollaro hanno raggiunto la parità

Perché il prezzo sta diminuendo proprio ora
Da inizio giugno le quotazioni si sono ridotte parecchio e per vari motivi. Uno di questi riguarda la possibilità che l’Iran torni a vendere all’Occidente e ai suoi alleati la sua produzione di petrolio, ma solo se il governo iraniano riuscisse a rinegoziare l’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti e diversi paesi europei, e a farsi rimuovere così le sanzioni occidentali (potrebbe fornire oltre un milione di barili al giorno). Si parla dello storico accordo del 2015 che riduceva la capacità dell’Iran di sviluppare la tecnologia per la creazione di un’arma nucleare in cambio della rimozione di alcune sanzioni internazionali imposte sull’economia iraniana.

L’accordo era stato cancellato dall’allora presidente americano Donald Trump, ma l’Iran aveva comunque mantenuto alcuni suoi elementi, nella speranza di poterlo riattivare una volta che Trump avesse lasciato la presidenza. I negoziati in corso si sono rivelati più difficili del previsto, e si è andati molto vicini al fallimento. Ma in questi giorni sembra che le cose si stiano mettendo meglio.

Alcuni commentatori hanno ipotizzato che le probabilità di successo di questa intesa siano aumentate notevolmente perché l’Occidente ha bisogno di gas e petrolio per rimpiazzare quello che proveniva dalla Russia. E l’Iran possiede il 16 per cento delle riserve mondiali di gas (secondo solo alla Russia) e il 9 per cento del petrolio (ed è il quarto paese al mondo).

L’argomento più convincente sulla riduzione del prezzo del petrolio, però, riguarda le sempre maggiori preoccupazioni per una recessione globale. Il Fondo Monetario Internazionale ha ridotto le stime di crescita per il 2022: nelle previsioni di aprile il PIL mondiale era visto in crescita del 3,2 per cento, ora solo del 2,9. Ciò riflette lo stallo della crescita nelle tre maggiori economie mondiali – Stati Uniti, Cina e area dell’euro – con importanti conseguenze per le prospettive globali.

Le preoccupazioni sono parecchie e tutte fondate. Al primo posto c’è la possibilità che la guerra in Ucraina vada avanti ancora per molto tempo e che porti a un improvviso blocco dei flussi di gas dalla Russia all’Europa. I paesi dell’Unione Europea si sono impegnati a ridurre i consumi di gas naturale del 15 per cento, ma non c’è ancora un accordo comune su come fare e sembra che ogni paese farà per sé.

Non se ne parla apertamente, e i piani sono ancora piuttosto vaghi, ma le imprese temono molto un eventuale blocco forzato dei loro impianti. Tant’è che Confindustria ha fatto avere al governo un piano dettagliato di possibili razionamenti tra le industrie nel caso in cui non arrivi più gas dalla Russia. E questo genera un clima di notevole incertezza per i prossimi mesi.

Ci sono poi i timori sull’inflazione, che potrebbe restare alta ancora a lungo. Le imprese e le famiglie devono fare i conti con rincari molto elevati su tutto e i governi di molti paesi stanno cercando di dare aiuti anche per calmierare i prezzi di alcuni beni, come il cibo o la benzina.

Le banche centrali stanno poi aumentando gradualmente i tassi di interesse, dopo anni. È una risposta tradizionale all’inflazione, anche se la Federal Reserve americana e la Banca Centrale Europea si sono mosse in modo piuttosto diverso. L’obiettivo di questa misura è far sì che i prezzi scendano, ma facendo rallentare l’economia in modo dichiarato.

E poi c’è ancora il coronavirus a essere una minaccia, soprattutto per i lockdown in Cina, che stanno facendo molto male alla sua economia. Il PIL cinese, rispetto ai ritmi molto intensi con cui cresceva negli anni scorsi, sta rallentando: manca la spinta del settore immobiliare, a luglio la produzione industriale è diminuita dello 0,1 per cento rispetto al mese precedente, e le vendite al dettaglio sono diminuite dello 0,4 da giugno e dello 0,7 rispetto all’anno precedente. La Cina è il più importante importatore di petrolio al mondo. Solo pensare che possa ridurre la sua domanda di energia fa scendere le quotazioni.

Cosa succede alla pompa di benzina
Un prezzo più basso del petrolio si vede anche dal benzinaio. In Italia, secondo l’ultima rilevazione del ministero dello Sviluppo economico realizzata nella settimana di Ferragosto, il prezzo medio della benzina verde è arrivato a 1,77 euro al litro, 6 centesimi in meno della settimana precedente. La variazione è simile per il gasolio, che costa 1,756 euro al litro. Dalla fine di giugno il costo della benzina è sceso di oltre 24 centesimi al litro, con un ribasso di quasi il 12 per cento, pari a oltre 12 euro per un pieno da 50 litri. Il gasolio è invece diminuito di oltre 22 centesimi al litro, con una riduzione dell’11 per cento, che vale oltre 11 euro a rifornimento.

Non è l’effetto della riduzione delle accise e dell’Iva sui carburanti pari a 30,5 centesimi voluta dal governo. Questo taglio è in vigore già da marzo, quindi i prezzi erano già ribassati, e al momento è previsto fino al 20 settembre.

I prezzi però rimangono ancora alti: nonostante il taglio delle accise e dell’Iva, rispetto a gennaio di quest’anno la benzina costa il 6,5 per cento in più, cioè 5 euro e 55 centesimi in più per un pieno di 50 litri. Il gasolio è più caro del 14,3 per cento e servono 11 euro e 30 centesimi in più a rifornimento.