Da dove viene l’accusa di “avvelenare i pozzi”

Oltre che un’espressione comune e un’antica pratica di guerra, è un’azione alla base di teorie del complotto medievali diffuse ai danni di gruppi e minoranze

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Un pozzo antico nella contea di Congjiang, in Cina, il 19 novembre 2016 (SIPA Asia via ZUMA Wire)
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«Avvelenare i pozzi» è un modo di dire ampiamente diffuso nel dibattito pubblico e in particolare nella politica. Generalmente è utilizzato per accusare qualcuno di intorbidire il dibattito attraverso argomenti ingannevoli con lo scopo di trarne un vantaggio. Ed è anche il nome di una fallacia argomentativa con cui si cerca di delegittimare pubblicamente un interlocutore per screditare qualunque cosa dica (è un tipo di argomento ad hominem, quelli con cui si attacca la persona che propone una certa tesi anziché la tesi).

Prima ancora che un’espressione di uso comune, l’avvelenamento dei pozzi è una pratica attestata fin da tempi molto antichi nella storia dell’umanità e diffusa ancora oggi in alcuni contesti di guerra, benché vietata nel diritto internazionale umanitario. L’obiettivo è procurare un danno a gruppi nemici, limitando o impedendo l’accesso a una risorsa essenziale per la sopravvivenza.

Ma a differenza di altre azioni ed espressioni dello stesso tipo (come «fare terra bruciata»), strettamente legate alla guerra, la storia dell’avvelenamento dei pozzi si intreccia anche con storie di accuse infondate contro minoranze e gruppi osteggiati all’interno delle comunità. Nell’Europa del Tardo Medioevo, in particolare, l’avvelenamento dei pozzi diventò una delle più gravi accuse antisemite e portò a persecuzioni su vasta scala, dopo essere stata in precedenza rivolta a persone malate di lebbra o di peste nera.

La pratica di gettare nei pozzi i cadaveri in decomposizione di esseri umani morti a causa di malattie trasmissibili, con l’obiettivo esplicito di contaminare l’acqua, è descritta come una delle prime forme di guerra combattuta con armi biologiche.

Secondo alcune fonti storiche, l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico Barbarossa scaricò cadaveri umani nei pozzi durante l’assedio di Tortona, in Italia, nel 1155. E altre azioni intraprese con l’obiettivo di impedire agli eserciti nemici l’accesso all’acqua dei pozzi sono attribuite dagli storici ad altri sovrani e condottieri celebri come il sultano Saladino contro i crociati nella battaglia di Hattin, nel regno di Gerusalemme.

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Durante il Tardo Medioevo, e in particolare intorno alla metà del Quattordicesimo secolo, l’Europa fu colpita da un’epidemia di peste nera devastante, soprattutto nelle aree più densamente popolate. La comprensione di come le malattie potessero diffondersi era all’epoca piuttosto vaga, essendo sconosciuta l’esistenza di virus e batteri. E spesso i problemi improvvisi di salute venivano associati ad avvelenamenti o contaminazioni delle acque potabili, specialmente se quei problemi interessavano parti molto ampie della popolazione.

Questo pensiero circolò anche tra le persone sopravvissute alla peste ed emotivamente sconvolte che, assecondando istinti presenti ancora oggi, cominciarono a formulare ipotesi in assenza di prove per cercare di spiegare la malattia.

Lo storico israeliano Tzafrir Barzilay, esperto di storia sociale, culturale e religiosa dell’Europa tra il Dodicesimo e il Quindicesimo secolo, si occupa da tempo dell’origine delle accuse emerse in quell’epoca contro le minoranze. Ne ha scritto dettagliatamente in un recente articolo pubblicato sulla rivista di storia Lapham’s Quarterly e tratto dal suo libro Poisoned Wells: Accusations, Persecution, and Minorities in Medieval Europe, 1321–1422.

In molti casi, in paesi come Francia e Belgio, le attenzioni si concentrarono inizialmente sui malati stessi, sospettati all’inizio del Quattordicesimo secolo di avvelenare sorgenti e ruscelli. Esistono fonti attendibili, citate da Barzilay, sul fatto che questo sospetto portò alla sistematica persecuzione dei lebbrosi soprattutto nel sud-ovest della Francia e nel nord-est della Spagna, in Aragona. Di solito, venivano arrestati, processati e condannati a morte da funzionari locali, e le loro proprietà confiscate.

Un registro di atti giudiziari del 1321 a Tours, nella Valle della Loira, riferisce che i lebbrosi avevano «messo del veleno nelle fontane e nei pozzi, in modo che i cristiani che bevono o consumano l’acqua in altro modo muoiano di morte precoce». Secondo un altro registro tenuto a Parigi, la contaminazione volontaria da parte dei lebbrosi riguardava anche «vini, grano e altre risorse necessarie al sostentamento di uomini e donne».

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L’idea che i lebbrosi avvelenassero i pozzi allo scopo di infettare le persone non malate era, in generale, piuttosto comune. Secondo l’inquisitore di Tolosa Bernardo Gui, uno dei più noti inquisitori e scrittori del Medioevo, l’avvelenamento avveniva tramite «sostanze, veleni e tossine trasformate in polvere» e sparse dai lebbrosi nelle acque della città, in modo che aumentasse il numero di persone malate.

Un altro documento risultò probabilmente ancora più influente sull’opinione pubblica: una relazione scritta da un autore anonimo nell’antica provincia francese di Poitou. Riportava infatti informazioni sulle modalità di avvelenamento dei pozzi tramite sacchettini contenenti pozioni fatte di «sangue e urina di esseri umani», «tre erbe» e «un’ostia consacrata».

Documenti di questo tipo avevano una certa presa sul pubblico medievale perché fornivano dettagli ottenuti dalle presunte confessioni di persone malate e accusate. Ma questo avveniva in un’epoca in cui, ricorda Barzilay, in alcuni casi le confessioni erano rese sotto tortura o potevano anche essere «inventate da un cronista che affermava di avere accesso a prove che incriminavano i lebbrosi».

Ciononostante, tre cronisti francesi all’inizio del Quattordicesimo secolo trovarono affidabile la relazione anonima redatta nella provincia di Poitou e la utilizzarono come fonte principale riguardo agli eventi del 1321. E, di conseguenza, altri scrittori in epoca contemporanea accolsero poi come vera la narrazione secondo cui i lebbrosi avvelenassero i pozzi.

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Le accuse riguardo all’avvelenamento dei pozzi, fino a quel momento rivolte alle persone malate di lebbra, interessarono in quello stesso anno gli ebrei nella contea di Angiò. Quelle accuse, racconta Barzilay, si innestarono su altre accuse contro gli ebrei diffuse in Aragona e nella Francia centrale già nei decenni precedenti. E determinarono nuove persecuzioni decise da funzionari e governanti che giustificarono retrospettivamente azioni già intraprese in precedenza, tra cui rigide limitazioni della vita sociale, economica e religiosa degli ebrei.

L’allora conte d’Angiò Filippo di Valois – non ancora re di Francia con il nome di Filippo VI – scrisse in una lettera inviata a papa Giovanni XXII di una eclissi solare avvenuta il 26 giugno 1321, confermata da altre fonti e dati astronomici. Descrisse quella giornata come un giorno «infausto» nell’Angiò e nella Turenna, dove il sole era diventato «rosso come il sangue». E scrisse che «gli abitanti del paese credevano che la fine del mondo fosse appena giunta», aggiungendo dettagli su una pioggia di fuoco caduta dal cielo e un drago volante che aveva ucciso molte persone.

Tra gli abitanti, presi dal panico, si sparse il sospetto che la comunità ebraica della contea avesse a che fare con quei segni infausti. Filippo scrisse che il 27 giugno, il giorno dopo l’eclissi, «il nostro popolo iniziò ad attaccare gli ebrei, per la stregoneria da essi compiuta contro il cristianesimo». E Barzilay ipotizza che questi sospetti siano legati alle accuse di avvelenamento dei pozzi che già circolavano nella vicina Turenna, prima della lettera inviata da Filippo al papa.

La lettera riportava la versione tradotta in latino di una presunta lettera scritta in ebraico e indirizzata ad alcuni presunti sultani musulmani. Era stata ritrovata in casa di un ebreo, secondo quanto riferito da Filippo, dopo una serie di perlustrazioni nelle case in cerca di segni di stregoneria.

La lettera, palesemente apocrifa ma descritta da Filippo come autentica, conteneva anche l’immagine di un uomo – un ebreo o un musulmano – con le natiche rivolte verso un crocifisso. E parlava di una miracolosa conversione dei Saraceni all’ebraismo e della loro promessa di donare agli ebrei la Terra Santa se questi avessero consegnato loro la Francia in cambio.

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A quel punto, secondo la lettera apocrifa, gli ebrei avevano coinvolto le persone malate di lebbra nel complotto dell’avvelenamento contro i cristiani sostenuto economicamente dai sultani musulmani (i cui nomi citati nella lettera sono basati su descrizioni bibliche di re cananei). Ma il complotto aveva avuto successo soltanto parzialmente, perché il veleno non era abbastanza potente e perché i lebbrosi erano stati catturati e avevano confessato di essere stati corrotti dagli ebrei.

Secondo gli studi di Barzilay, le prove del coinvolgimento degli ebrei nell’avvelenamento dei pozzi in Francia furono prodotte soltanto per legittimare le persecuzioni nel Quattordicesimo secolo. E la fabbricazione di quelle prove si svolse attraverso processi formali che coinvolsero funzionari, investigatori e traduttori, contribuendo a trasformare «voci improbabili in fatti apparentemente solidi», con il sostegno di governanti e leader politici e religiosi. Soltanto verso la metà del Quindicesimo secolo le voci sull’avvelenamento dei pozzi da parte degli ebrei, dopo essere circolate in altre parti d’Europa, cominciarono a diminuire.