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  • Martedì 7 giugno 2022

Quando la Disney si buttò nello sport

Negli anni Novanta fondò una squadra di hockey e ne comprò una di baseball, ci fece due film e le fece vincere, ma non durò a lungo

Wild Wings, la mascotte disegnata dalla Disney per i Mighty Ducks di Anaheim (Getty Images)
Wild Wings, la mascotte disegnata dalla Disney per i Mighty Ducks di Anaheim (Getty Images)
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Anaheim, negli Stati Uniti, è una porzione della sconfinata area metropolitana di Los Angeles. È famosa perlopiù perché nel 1955 la Walt Disney ci aprì il suo primo parco di divertimenti tematico, che è ancora lì ed è il secondo più frequentato al mondo. Ad Anaheim hanno sede anche due squadre professionistiche di baseball e hockey non particolarmente fortunate, gli Anaheim Ducks e i Los Angeles Angels, che negli anni Novanta furono al centro del primo e ultimo esperimento sportivo della Disney.

La multinazionale dell’intrattenimento le acquistò a distanza di pochi anni l’una dall’altra, le fece diventare parte del suo vasto parco di proprietà e dedicò loro i trattamenti tipici dell’azienda. I reparti creativi usarono paperi, angeli e riferimenti ai cartoni animati per ridisegnarne le identità; il settore cinematografico ci fece due film che ebbero un discreto successo anche qui in Italia, mentre i suoi dirigenti riuscirono a portarle con qualche fatica fino alla vittoria, ma tutto questo durò poco.

La storia dell’esperimento della Disney nello sport professionistico iniziò con The Mighty Ducks, film per ragazzi distribuito nel 1992 in cui un avvocato condannato ai servizi sociali portava alla vittoria una sgangherata squadra di hockey formata da ragazzini, i Ducks appunto. Il film — in cui recitavano tra gli altri Emilio Estevez e Joshua Jackson — ebbe un buon successo, tanto da diventare una trilogia, e arrivò in Italia con il titolo Stoffa da campioni.

La conferenza stampa di presentazione del primo allenatore dei Ducks, Ron Wilson (Jed Jacobson/ALLSPORT)

The Mighty Ducks uscì in un periodo in cui i legami tra i grandi gruppi dell’intrattenimento americani e le squadre professionistiche erano diffusi e considerati di beneficio per entrambe le parti, anche se difficilmente fonti di grandi ricavi. Negli anni Novanta, per esempio, le squadre di Atlanta erano di proprietà della Warner Bros — allora Time Warner — mentre a Chicago i Cubs erano controllati da Tribune Media, conglomerato che riunisce le proprietà di alcuni dei giornali più venduti in America, dal Chicago Tribune al Los Angeles Times. A queste si aggiunsero anche i più famosi Los Angeles Dodgers, comprati dal network televisivo Fox a fine anni Novanta.

In quello stesso periodo, Disney stava preparando l’acquisto del network sportivo ESPN e colse l’opportunità per avere una sua squadra in uno dei maggiori campionati nazionali, anche come veicolo promozionale. Dopo aver pagato 25 milioni di dollari alla National Hockey League (NHL) e un’altra ventina di milioni alla squadra già esistente di Los Angeles, i Kings, come compensazione per la suddivisione del mercato locale, nel 1993 ottenne l’ingresso nel campionato NHL con una squadra che fondò appositamente per l’occasione, i Mighty Ducks di Anaheim, nome ripreso dal film e voluto espressamente dall’allora amministratore delegato Michael Eisner. Alla sua prima partita, in una cerimonia d’inaugurazione sfarzosa nello stile della Disney, la squadra venne presentata come «l’inizio di una nuova era per l’intrattenimento sportivo».

I Mighty Ducks di Anaheim divennero a tutti gli effetti una parte del pacchetto d’intrattenimento offerto dalla Disney. I primi giocatori ingaggiati furono presentati al pubblico con delle parate a Disneyland. Vennero create combinazioni di biglietti e abbonamenti stagionali che permettevano sia l’ingresso alle partite — nel palazzetto di Anaheim rinominato “The Pond”, lo stagno — sia ai suoi parchi di divertimento negli Stati Uniti. Il merchandise della squadra arrivò in tutti i parchi gestiti dal gruppo, da Orlando, in Florida, fino a Parigi. I costumisti della Disney crearono come mascotte un papero con una maschera integrale da portiere, e durante le partite spettacoli e intervalli venivano presentati dai personaggi animati di proprietà del gruppo.

Sfruttando l’enorme piattaforma commerciale a disposizione, l’operazione di marketing fu senza precedenti: non solo funzionò, ma portò a vendere più merchandise di tutte le altre squadre del campionato, tanto che lo stemma con la maschera del papero — non più in uso dal 2006 — è rimasto uno dei più riconoscibili e viene commercializzato tuttora. Le cose andarono bene anche altrove: la squadra giocò in un palazzetto completamente esaurito in 90 delle prime 93 partite ospitate, e chiuse in attivo le prime quattro stagioni.

Sul campo la squadra si difese, almeno inizialmente, e col tempo riuscì ad arrivare sempre più avanti, fino ai primi playoff disputati nel 1997. I limiti del progetto, tuttavia, iniziarono a manifestarsi rapidamente. I Mighty Ducks erano stati creati più come veicolo promozionale che per perseguire specifici obiettivi sportivi a lungo termine, e i metodi di gestione di una multinazionale quotata in borsa con entrate annuali per 25 miliardi di dollari ancora non si addicevano a un mondo più approssimativo e umorale come era allora lo sport professionistico.

Samuel Påhlsson e Dan Bylsma con i Ducks nel 2001 (Robert Laberge /Allsport)

Vennero fuori così i primi malumori. La scarsa inclinazione del consiglio d’amministrazione della Disney a spendere più di quello ritenuto necessario, peraltro per un investimento secondario, creò problemi e dispute contrattuali con allenatori e giocatori, che a loro volta arrivarono al pubblico e causarono prima contestazioni contro gli investimenti della proprietà, giudicati scarsi e non orientati alla vittoria, e poi un progressivo calo di presenze alle partite.

Una volta esaurita anche la grossa spinta data dal merchandise, e dopo alcuni investimenti su giocatori sbagliati, Disney iniziò a defilarsi. Diminuì i fondi, tagliò le attività laterali, come gli spettacoli durante le partite, e cambiò il nome della società proprietaria da Disney Sports ad Anaheim Sports. Nel 2004 provò a vendere la squadra chiedendo tra i 50 e i 70 milioni di dollari, meno di quello che aveva speso per costituirla. La vendita fu conclusa l’anno dopo con Henry Samueli, imprenditore nel settore delle telecomunicazioni, che dopo aver cambiato il nome in Anaheim Ducks riuscì a vincere la Stanley Cup — cioè il campionato — al primo anno.

Nonostante l’esito dell’investimento nell’hockey, le prime promettenti stagioni a metà anni Novanta avevano spinto la Disney a replicare l’esperimento, questa volta nel baseball. Dal 1966 ad Anaheim aveva sede una squadra di Major League, i California Angels, talmente perdente da essere associata a una delle tante fantasiose “maledizioni” diffuse nella tradizione sportiva americana, in questo caso quella del “cowboy cantante”. Gli Angels, infatti, erano stati fondati da Gene Autry, noto attore di film western divenuto famoso come cantante a cavallo e talvolta pistolero: con lui gli Angels non si avvicinarono mai alla vittoria di un campionato.

Nel 1996, con Autry ormai novantenne, la Disney comprò la squadra sfruttando i buoni rapporti che c’erano tra le parti. L’anno precedente, come era successo con i Mighty Ducks, l’azienda aveva infatti prodotto un film incentrato sulla squadra e in particolare sul suo nome. In Angels in the Outfield la sfortunata squadra di Anaheim veniva portata alla vittoria da angeli che scendevano dal cielo ad aiutare i giocatori, e che potevano essere visti soltanto da due bambini orfani, uno dei quali interpretato da Joseph Gordon-Levitt.

Uno dei dirigenti che avevano seguito l’istituzione dei Mighty Ducks, Tony Tavares, rivelò in seguito al Washington Post di aver fortemente sconsigliato l’acquisto di una squadra di baseball. Spiegò: «Pensavamo fosse semplicemente un cattivo affare». Il baseball veniva infatti da un disastroso sciopero che aveva fatto saltare una stagione intera e i cui effetti avevano penalizzato soprattutto le squadre minori, allontanando il pubblico: ad Anaheim, dove gli spettatori erano pochi anche prima, la desolante situazione venuta a crearsi convinse la famiglia Autry a vendere.

Con gli Angels la Disney replicò i metodi usati nell’hockey. Investì inizialmente 140 milioni di dollari per rifondare la squadra, cambiarle nome in Anaheim Angels e ripensarne l’immagine aumentando i riferimenti agli angeli, utilizzando sempre la sua iconografia da cartone animato. Oltre ad Angels in the Outfield, la squadra fu coinvolta in altri film di produzione Disney, come Air Bud 4 e Deuce Bigalow.

Nel caso degli Angels, fu però necessario un grosso investimento per il rinnovamento dello stadio, che fu affidato agli stessi scenografi di Disneyland. Inizialmente questi pensarono di dividere l’impianto in due parti, una a tema “fantasia” e l’altra a tema “avventura”, ma poi optarono per un rifacimento meno appariscente, dove comunque riuscirono a inserire una gigantesca fontana tra le rocce proprio a ridosso del campo, tuttora funzionante e anche parecchio ingombrante.

Gli investimenti vennero in parte ripagati nella prima stagione, in cui gli spettatori furono circa 700mila in più dell’anno precedente. Ma l’entusiasmo si esaurì presto, affossato dalle prestazioni poco entusiasmanti della squadra, con le presenze che calarono del venti per cento nelle tre stagioni successive. In un ambiente piuttosto conservatore come quello del baseball, inoltre, gli interventi della Disney non furono apprezzati come nell’hockey e anzi, in gran parte rigettati.

Scott Schoeneweis degli Anaheim Angels nel 2001 (Getty Images)

Anche lì ci furono proteste dei tifosi per gli scarsi investimenti sulla squadra, a cui la proprietà rispose con una serie di grossi ingaggi che nel 2002 portarono a una sorprendente e improbabile vittoria delle World Series — le finali del campionato — alla prima presenza in 41 anni di storia.

Nonostante la vittoria delle World Series, nel giro di due stagioni le perdite arrivarono a 100 milioni di dollari e i benefici laterali che l’investimento aveva portato al gruppo continuavano a essere di poco conto. Nel 2003 la Disney ci mise poche settimane a vendere la squadra ad Arte Moreno, imprenditore nel settore pubblicitario, che per 182 milioni di dollari divenne il primo proprietario di origini messicane in uno dei maggiori campionati sportivi d’America.

A una ventina d’anni di distanza, gli Anaheim Ducks e i Los Angeles Angels sono lontani dai livelli raggiunti, seppur brevemente, con la Disney. Gli Angels in particolare stanno provando a tornare alla vittoria, ma nonostante i grandi investimenti fatti per portare in squadra alcuni tra i migliori giocatori al mondo, come Mike Trout e Shohei Ohtani, le loro ultime stagioni vincenti rimangono a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. Da allora le due squadre sono finite in quel limbo di metà classifica che nello sport americano non porta nessun beneficio, e soprattutto non vengono considerate generalmente alla pari di altre squadre con tradizioni più radicate, a causa del loro coinvolgimento nell’esperimento della Disney.

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