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  • Sabato 21 maggio 2022

In mandarino tutto è relativo

Giada Messetti racconta nel suo libro "La Cina è già qui" com'è difficile tradurre dal cinese, dove non esiste il verbo essere né il sì o il no

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La Cina è già qui è il nuovo libro di Giada Messetti, sinologa e giornalista esperta di Cina, a cui ha dedicato anche un podcast, Risciò, insieme al collega Simone Pieranni. Messetti prosegue il lavoro iniziato con il saggio divulgativo Nella testa del Dragone, pubblicato nel 2020 sempre con Mondadori: raccontare la Cina, dove ha vissuto per sei anni, e le grandi differenze con l’Occidente, per aiutare a conoscerla e a capirla meglio in vista di un futuro in cui sarà sempre più vicina.

In particolare questo nuovo libro, come spiega l’introduzione, prova a «generare un po’ di disordine virtuoso, sparigliare sul tavolo le convinzioni più radicate, tentare di restituire qualche piccolo frammento della complessità che la Cina incarna e ci pone davanti. Non invita a rinunciare alla nostra identità né ai nostri valori, ma a sospendere per un attimo l’abitudine istintiva di giudicare con categorie occidentali comportamenti e modi di sentire che viaggiano su altri binari». Racconta, tra le altre cose, la lingua e la scrittura, il modo di intendere il potere e come si riflette nella politica estera, la cucina estremamente creativa e piena di piatti (che non è fatta di solo riso: nella regione settentrionale dello Shanxi esistono più di 280 tipi di pasta), la leggenda di Mulan e il suo significato originale fino alla passione per copie e imitazioni, che non sono stigmatizzate come in Occidente.

Di seguito, il capitolo Traduzione e tradimento, che racconta la difficoltà nel tradurre il mandarino nelle lingue occidentali perché riflette un modo completamente diverso di pensare.

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La lingua cinese, come abbiamo visto, è quindi la quintessenza della Cina. Qualcosa di profondamente identitario che riflette le trasformazioni e l’evoluzione di una cultura millenaria. I cinesi sono molto consapevoli della sua forza, derivata anche dal fatto che è la seconda al mondo per diffusione dopo l’inglese e la prima lingua madre più parlata.
Studiare il mandarino, quindi, non significa semplicemente imparare un nuovo idioma, ma immergersi in un mondo che procede attraverso immagini, spesso legate tra loro da logiche lontanissime da quelle a cui siamo abituati. Non è un caso che a chi si avvicina al cinese venga suggerito di approfondire con cura, oltre agli aspetti linguistici, anche quelli culturali.

Nei suoi scritti il sinologo francese François Jullien si è spesso soffermato sul tema della traducibilità del mandarino, sottolineando come chi provenga dalla lingua cinese si trovi spesso spiazzato incontrando gli esiti del suo pensiero riversati in un idioma occidentale. Anche quando sono realizzate con cura, le nuove versioni finiscono per generare insoddisfazione. I caratteri veicolano spesso messaggi più ricchi e articolati, che non possono essere immediatamente resi in altre lingue se non aggiungendo un numero elevato di chiose e precisazioni.

Se tradurre significa inevitabilmente tradire, il tradimento compiuto passando dal cinese a un’altra lingua, e viceversa, è oggettivamente più grande. Jullien è netto: sebbene esistano differenze culturali notevoli, nessun pensato è per sua natura intraducibile, ma è evidente che, tra il cinese e una lingua europea, per creare l’incontro serve uno «stiramento di entrambe le culture» l’una verso l’altra, in modo da costruire un’interpretazione il più possibile fedele.
Lungi dal voler sposare un rigido determinismo linguistico, per cui gli idiomi predeterminerebbero il pensiero dei loro fruitori, il sinologo francese ritiene tuttavia che le lingue possano almeno esercitare un’influenza sulla categorizzazione del reale degli umani, sul loro sistema cognitivo.
Nel tentativo di argomentare questo suo affascinante assunto, Jullien cala il suo asso, con un esempio decisamente efficace: manca del tutto, nel cinese classico, il verbo «essere» nell’accezione di «esistere». Una cosa può essere bella o brutta, grande o piccola, ma non può «essere e basta». In conseguenza di questo vuoto nella lingua, non c’è spazio nella filosofia cinese per nulla che somigli all’Essere di Parmenide o degli altri grandi del pensiero greco, nulla che possa venire accostato al «cogito ergo sum» cartesiano e nemmeno all’«essere o non essere?» dell’Amleto di Shakespeare, che infatti in mandarino diventa, letteralmente, «esistere o annientarsi?» (生存还是毁灭, shēngcún háishi huǐmiè).

Anche la grammatica della lingua cinese, estremamente scarna rispetto a quella delle lingue europee, conferma quanto, dinanzi al mandarino, la parola d’ordine, più che «traduzione», rimanga «interpretazione». È frequente trovarsi di fronte a scelte drastiche come quella di trasformare un aggettivo in avverbio, un verbo in sostantivo e via dicendo. I sostantivi, gli aggettivi e, a volte, addirittura i verbi in cinese non sono, infatti, distinguibili tra loro e una parola può essere classificata tanto al singolare quanto al plurale, tanto al femminile quanto al maschile. 爱 (ài) può essere un sostantivo, «amore», ma anche un verbo, «amare», e in tal caso può essere utilizzato per il presente, il passato, il futuro, per l’attivo e per il passivo; 书 (shū) può significare sia «libro» sia «libri».

Tutto ciò che negli idiomi alfabetici è affidato ai cambiamenti morfologici delle parole (coniugazioni, desinenze e così via) nel cinese è legato alla loro posizione all’interno della frase, e quindi al loro rapporto. La lingua è infatti il primo dei luoghi in cui, occupandosi di Cina, ci si imbatte nei due concetti cardine – strettamente intrecciati tra loro, ricorreranno spesso in questo libro – di relazione e contesto. Il luogo dove trovano sostanza le idee e il pensiero del Dragone.

Per esempio, in mandarino non esistono le risposte «sì» e «no» universali. Sono sempre calate nell’esperienza che si sta vivendo: le affermazioni negative o affermative non si ottengono con una sola parola, ma ripetendo il verbo contenuto nella domanda. Nelle situazioni di lavoro tra occidentali e cinesi questo aspetto crea spesso delle incomprensioni, perché il «sì» pronunciato da un interlocutore asiatico in una lingua che non è la sua non ha una valenza definitiva, è spesso soltanto una presa d’atto della domanda, in attesa di elaborare una risposta e non correre il rischio di sembrare sgarbati.

È evidente come, già solo per comunicare, l’esercizio imprescindibile da compiere sia quello di abbandonare le proprie certezze.
Il cinese è asciutto e ricco di impliciti. Sviluppa la capacità di fare deduzioni, tessere relazioni logiche, guardare ai contesti nella loro interezza, sviscerando al loro interno trame e connessioni apparentemente nascoste. Allena alla visione olistica, alle prospettive larghe e complesse. Le affermazioni dirette, spesso ritenute scortesi, lasciano spazio al non detto. La comprensione di una frase dipende dalla memoria di quelle che l’hanno preceduta, dalle circostanze in cui è inserita e dall’ambiente in cui la comunicazione avviene. E tutto questo si riflette anche nella cultura e nella società del Celeste Impero.

Già un paio di secoli fa, Goethe, riferendosi a un suo dialogo in italiano con alcuni pittori milanesi, disse che «la lingua porta con sé una specie di atmosfera del Paese». Ciò è più che mai vero quando si ha a che fare con la Cina e con il cinese.

(© Mondadori 2022)

 

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