Il “delirio di gelosia” può essere motivo di assoluzione per un femminicidio?

Per alcuni tribunali italiani sì, si tratterebbe di una patologia; ma molte e molti non sono d’accordo e parlano di stereotipi e pregiudizi

di Giulia Siviero

Flashmob di Non una di Meno in piazza Castello a Torino, 8 marzo 2021 (ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
Flashmob di Non una di Meno in piazza Castello a Torino, 8 marzo 2021 (ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
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A fine marzo, la sentenza di assoluzione di primo grado di Antonio Gozzini, un ottantenne che due anni prima aveva confessato di aver ucciso la moglie, è stata confermata in appello. A Gozzini è stato attribuito un «disturbo delirante, tipo gelosia» e l’uomo è stato dunque giudicato incapace di intendere e di volere.

Le sentenze di assoluzione sono state molto criticate, da avvocate, movimenti femministi e giornaliste perché, come disse il pubblico ministero che per Gozzini in primo grado aveva chiesto l’ergastolo, «il rischio è che passi il messaggio che qualsiasi uomo geloso può essere giustificato». C’è chi ha messo in dubbio e criticato il nesso diretto stabilito dalla sentenza tra gelosia e patologia, chi ha parlato di “medicalizzazione” del processo e di “delitto d’onore”, c’è chi ha criticato non tanto la conclusione della sentenza ma come è stata scritta e chi, a partire da quella sentenza, ha fatto considerazioni più generali sulla minimizzazione della violenza contro le donne e la mancata conoscenza delle sue dinamiche anche dentro le aule di tribunale.

Il femminicidio e i processi, fin qui
Ricostruire il femminicidio di Cristina Maioli, insegnante in pensione di 79 anni, non è stato complicato. C’è la confessione molto dettagliata del marito, Antonio Gozzini, riportata nelle motivazioni della sentenza di assoluzione di primo grado.

Verso le 14.30 del 4 ottobre del 2019, Gozzini aveva chiamato la collaboratrice domestica dicendo di aver ucciso la moglie. Poco dopo, nella loro casa di Brescia era arrivata una pattuglia e aveva trovato il corpo di Cristina Maioli per terra accanto al letto e coperto da un lenzuolo. In serata Gozzini era stato arrestato e interrogato.

Lui stesso aveva detto di aver ucciso la moglie due giorni prima nella loro camera da letto prima colpendola nel sonno con un mattarello alla testa, alle braccia e alle gambe, e poi ferendola con un coltello da cucina alla giugulare, al torace, al braccio e nella zona inguinale. Dopodiché, Gozzini aveva raccontato di aver provato a suicidarsi, di non esserci riuscito, di aver proseguito la giornata normalmente e infine, ore dopo il femminicidio, di aver chiamato la collaboratrice domestica, la quale aveva a sua volta avvertito il 112.

Sull’imputato erano state fatte delle perizie psichiatriche in cui si parlava di «rielaborazioni deliranti con specifico riferimento alle tematiche afferenti alla gelosia»: l’uomo aveva dichiarato di essere convinto, senza comunque alcun riscontro nella realtà, che la moglie lo tradisse e che per questo, lui, non aveva potuto far altro che ucciderla.

Il pubblico ministero, in primo grado, aveva chiesto la condanna all’ergastolo, mentre la difesa aveva chiesto l’assoluzione per incapacità di intendere e di volere. Al termine del processo, nel dicembre 2020, il tribunale aveva assolto Gozzini perché al momento del fatto lo aveva giudicato «non imputabile per vizio totale di mente».

A distanza di un anno e mezzo era cominciato il processo di appello. Il procuratore generale di Brescia, Guido Rispoli, aveva di nuovo chiesto la condanna di Gozzini, stavolta a 21 anni di carcere, ma anche in secondo grado Gozzini era stato assolto e trasferito, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza, nella residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, cioè in una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi.

La sentenza di primo grado
Nella sentenza di primo grado, già depositata, l’incapacità di intendere e di volere di Gozzini, che già in passato aveva sofferto di depressione, era stata attribuita esplicitamente al “delirio di gelosia”. Gozzini non era stato ritenuto un uomo geloso, ma un uomo affetto da una patologia, il cui contenuto era la gelosia, che ne aveva compromesso completamente la capacità di intendere e di volere.

Per comprendere la sentenza e le sue critiche, è necessario leggerne alcuni passaggi e partire dalla definizione di femminicidio.

La parola femminicidio non indica una fattispecie di reato e non serve a distinguere le vittime per gravità: dice che è morta una donna, ma indica anche il motivo per cui è stata uccisa, e che è riassumibile in una frase: perché si rifiutava di agire secondo determinate aspettative e stereotipi. In questo contesto il termine non definisce dunque solo la morte, l’atto finale, ma anche la mortificazione delle donne, cioè tutte quelle forme di violenza che la sostengono e la precedono.

Fino al momento del femminicidio, si legge nella sentenza, «Gozzini poteva considerarsi una persona apparentemente nella norma» e priva di «un’indole violenta». Si dice che le persone vicine alla coppia non avevano «fatto alcun cenno a pregresse manifestazioni di gelosia» da parte sua, e che «non vi erano segni premonitori di ciò che stava per accadere». Gozzini era già stato in cura per una depressione che, nei mesi precedenti al femminicidio, si era riacutizzata.

L’impulso omicida, si spiega più avanti nella sentenza, «si è infiltrato nella mente dell’imputato in modo silente, ma con insistenza ossessiva, fino a deflagrare il mattino del fatto in una spinta irrefrenabile, ricalcando lo schema tipico della sindrome delirante». L’imputato aveva «maturato la convinzione dell’infedeltà della moglie in modo del tutto disconnesso dalla realtà». Si legge nella sentenza:

«Prostrato dalla delusione per le “tante aspettative” che aveva riposto nel matrimonio (“Avevo buttato all’aria sacrifici”), per liberarsi di una sofferenza insostenibile (“È brutto dirlo ma l’obiettivo era quello”) non gli era rimasta altra alternativa se non quella di sopprimere la moglie».

Per questo, dopo il delitto, l’uomo aveva provato «un effetto catartico»: era infatti «venuta meno la persona che provocava l’afflizione» e il suo delirio, a quel punto, aveva perso forza.

«In quel momento cessa l’assedio ideativo, non c’è più Otello, non c’è più Iago ad incalzarlo, si dissolve “il mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”. Il dramma che ha provocato la sofferenza e l’umiliazione svanisce di colpo e Gozzini torna ad essere una persona qualunque.

Non è un omicida professionale, è un ottantenne che compie una serie di azioni disorganizzate e, per certi versi, bizzarre. È un uomo perso che, all’improvviso, non ha più accanto a sé l’unico vero punto di riferimento della sua vita, si ritrova troppo piccolo rispetto a un grande dramma che si è consumato».

La conclusione è che Gozzini «era certamente addolorato per il destino che la sorte gli aveva riservato, ma per lui non c’erano altre soluzioni, non poteva che andare così».

Gelosia e delirio di gelosia 
La sentenza di assoluzione di Gozzini si basa sostanzialmente sui risultati di tre perizie psichiatriche. In quella disposta dal pubblico ministero e in quella della difesa si stabilisce una netta differenza tra gelosia delirante e gelosia come stato d’animo passionale. E si dice che nel primo caso, diventando la gelosia il sintomo di una patologia psichiatrica, non ci sarebbe capacità d’intendere e di volere, mentre nel secondo caso ci sarebbe.

Uno dei periti ha spiegato che la gelosia «può contenere in sé il seme del delirio tanto da rendere sfumato il confine tra l’aspetto patologico e l’essere molto gelosi» e che nel caso all’esame ci sarebbe stato «uno sconfinamento di tale portata da incidere in modo radicale sulla capacità di intendere e volere» dell’imputato.

Tale distinzione, tra gelosia quale stato emotivo e delirio di gelosia, ha assunto una rilevanza determinante dal punto di vista giuridico.

L’articolo 90 del codice penale dice che «gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità». Il concetto di “imputabilità” è a sua volta spiegato all’articolo 85: «È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere»: imputabilità e capacità di intendere (cioè di capire cosa si sta facendo) e di volere (cioè di volere gli effetti della propria azione) sono dunque sinonimi.

La disposizione dell’articolo 90 si riferisce agli stati emotivi e passionali che sono verificabili in una persona sana e che, in quanto sana, è in grado di controllarli. E si dice che questi stati emotivi e passionali, come la gelosia, non possono incidere sull’imputabilità.

Ma questi stessi stati possono assumere rilevanza come cause di esclusione o di attenuazione dell’imputabilità se dipendono da una vera e propria infermità di mente. L’articolo 88 del codice penale dice infatti che «non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere».

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Elvira Reale, psicologa, responsabile del Centro di prima assistenza psicologica per le donne vittime di violenza presso l’Ospedale Cardarelli di Napoli e consulente della Commissione femminicidio al Senato, spiega che nell’ultima versione del DSM – il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, l’elenco ufficiale dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association che dagli anni Cinquanta del secolo scorso è considerato una specie di bibbia della psichiatria – i deliri sono inseriti nel capitolo dei disturbi dello spettro della schizofrenia e di altri disturbi psicotici.

Nel DSM c’è scritto che i deliri «sono convinzioni fortemente sostenute che non sono passibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti». Nei deliri, semplifica Reale, «si manifesta una percezione alterata e distorta nel rapporto con la realtà: si presume cioè che la realtà sia diversa rispetto a quella che vedono e vivono tutte le altre persone».

Il contenuto dei deliri può comprendere una varietà di temi: possono per esempio esserci deliri di persecuzione (quando si ha la convinzione di essere oggetto di aggressioni o molestie) o deliri di grandezza (quando l’individuo crede di avere eccezionali capacità o fama). Il «disturbo delirante, tipo di gelosia» è a sua volta un sottotipo che si applica quando il tema centrale del delirio è la convinzione che il partner o la partner sia infedele. «Questa convinzione a cui l’individuo arriva senza un motivo accertato è fondata» dice il DSM5 «su deduzioni non corrette supportate da piccoli indizi interpretati come evidenza», come ad esempio la presenza di abiti in disordine nella camera da letto.

La sentenza che ha portato all’assoluzione di Gozzini ha stabilito che l’uomo fosse affetto da «disturbo delirante, tipo di gelosia» tale da escludere la sua imputabilità per vizio di mente.

Il “vizio di mente”, tra le condizioni che escludono l’imputabilità, è uno dei più complicati da stabilire e anche uno dei più discussi in dottrina giuridica: questa nozione si interseca infatti con quella delle scienze psicologiche che però, tanto per cominciare, non usano quella stessa espressione, ma ne usano altre (disturbo di personalità o patologia). Le scienze psicologiche sono poi molte e diverse e, come si dice qui, per alcuni indirizzi psicologici il semplice fatto di commettere un delitto è indizio di disturbo di personalità: questo implica l’impossibilità di far coincidere diagnosi psichiatrica con imputabilità penale altrimenti «si dovrebbero assolvere anche i capi-mafia del rango di Totò Riina, affetto certamente da un disturbo di personalità di tipo narcisistico».

In ballo c’è dunque il fatto che, nello stabilire il confine dell’imputabilità, il diritto rischia di perdere la propria autonomia e di sovrapporsi alle scienze psicologiche: “medicalizzando” il processo e delegando di fatto la decisione finale a terzi, cioè a consulenti e periti. Ma in ballo ci sono anche l’uso e l’abuso della gelosia, delirante o meno, «come dispositivo psico-giuridico che, nei casi di violenza di genere, serve troppe volte a risolvere la situazione a favore degli imputati», dice Reale.

Competenze e funghi
Fabio Roia è un magistrato esperto nel contrasto alla violenza di genere ed è presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Milano. Precisando di non voler commentare nello specifico la sentenza sul femminicidio commesso da Gozzini e anche che rispetto ai casi di violenza di genere, soprattutto negli ultimi anni, c’è una magistratura che «ha saputo rispondere molto bene», dice che a partire da quella singola sentenza è comunque possibile fare alcune considerazioni.

«In linea generale» dice Roia «bisogna evitare la medicalizzazione del processo penale». Nel campo della psichiatria c’è un testo di riferimento, il DSM, ma aggiunge anche che quello dei disturbi della personalità «è un campo scivoloso»: «Si entra cioè in un settore che viene delegato alla valutazione del singolo esperto, il quale a seconda degli studi, della scuola di provenienza o della letteratura di riferimento, può valutare oppure no che determinate patologie del comportamento abbiano rilevanza sulla capacità di intendere e volere, che è quello che poi serve al giudice per attenuare o meno la pena».

Per questo, prosegue, «il giudice, che ha il diritto e il dovere di decidere, dovrebbe sviluppare delle competenze: non pari a quelle dei periti che nomina, ma che lo mettano quanto meno nella condizione di controllare le loro valutazioni». Anche se involontariamente, «si corre infatti il rischio di delegare la decisione a terzi, cioè a persone che non sono giudici ma che sono esperti del settore».

Quando non c’è una pregressa patologia psichiatrica e quando non ci sono elementi evidenti per ritenere che il gesto violento sia stato compiuto a causa di quella patologia, prosegue Roia, «il ricorso alle indagini sull’imputabilità dovrebbe diventare un’eccezione, non essere la norma». Il ricorrere «sempre o quasi sempre» a una perizia di natura psichiatrica «è sia un mezzo difensivo che viene troppe volte abusato, sia una tendenza culturale: l’azione brutale, che non riusciamo a comprendere, a interpretare o a spiegare la releghiamo al campo della follia», con la conseguenza che «il movente culturale che sta alla base della violenza di genere e del femminicidio viene trasformato in una patologia».

Elvira Reale spiega che «sia nell’uomo sano che nell’uomo malato il crimine per gelosia ha un’eziologia solo culturale: se agisco violenza contro l’altra non la agisco in nome della mia malattia, ma in nome del mio retaggio culturale».

Reale dice anche che il disturbo delirante con sottotipo di gelosia esiste ed è codificato dalla psichiatria, ma anche che «questo disturbo, ovviamente, non prevede in alcun modo come sintomo l’azione omicidiaria. E infatti la sindrome può essere anche riscontrata nelle donne, ma con esiti diversi. La soluzione omicidiaria del delirio è dunque solo un fatto culturale». Inoltre, prosegue, «va tenuto conto del fatto che riconoscere sul piano giuridico il delirio di gelosia come attenuante ci riporta immediatamente al delitto d’onore, all’accettazione del principio che giustifica, in nome della difesa del proprio buon nome, l’uccisione di una donna perché tradisce o perché si suppone che abbia tradito».

La patologia, conclude, deve poi essere «provata sul piano sanitario con una valida anamnesi e una storia di contatti con le strutture deputate alla diagnosi e alla cura della malattia. Non è possibile che così spesso, quando si tratta di violenza di genere, la malattia esca come un fungo in relazione a una singola azione».

Abusi
Roia è stato consulente della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere. Nella relazione intitolata “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia” ha contribuito ad analizzare 211 casi femminicidio commessi tra il 2017 e il 2018.

Dalla relazione emerge innanzitutto come sia piuttosto comune portare avanti la strategia difensiva dell’infermità mentale: nel 59 per cento dei casi di femminicidio (70 sui 118 arrivati a sentenza definitiva) è stata infatti messa in dubbio la capacità di intendere e di volere dell’autore. «Solo in 7 casi su 100, gli autori di femminicidio avevano pregressi disturbi psichiatrici» dice Roia: «Ma sono state esperite perizie o consulenze psichiatriche sulla capacità di intendere e di volere in un numero molto maggiore. E dopo queste è nel 24 per cento dei casi che si è arrivati a un giudizio di semi-infermità mentale o di infermità totale. Queste percentuali confermano che il femminicidio non è quasi mai collegabile a una situazione di follia, è quasi sempre un gesto premeditato».

Nella relazione della commissione parlamentare si dice anche che «seppur in un limitato numero di casi tra quelli esaminati, si è riscontrata la tendenza ad inquadrare il femminicidio come l’atto inconsulto ed estemporaneo di una persona gravemente malata, senza alcuna ricerca del “movente di genere”».

Nelle consulenze e nelle perizie esaminate, sono poi stati trovati degli elementi ricorrenti: «In molti casi non risulta che l’esame dell’imputato da parte dell’esperto abbia approfondito le specificità del femminicidio, il suo movente e la relazione dell’autore con la vittima; in alcuni casi si conclude per il vizio parziale di mente anche in assenza di accertate e certificate patologie pregresse; in diversi casi risulta che gli uomini autori di femminicidio, pur se dichiarano espressamente di avere voluto e preordinato la condotta di reato anche adducendo precise ragioni, sono vittime del pregiudizio benevolo di non avere capacità di discernimento e controllo, perché offuscati e mossi solo da sentimenti irrazionali come gelosia, rabbia, frustrazione».

Dalla lettura delle sentenze risulta che, tra gli elementi ricorrenti, vi sia anche «l’adesione sistematica alle tesi e alle conclusioni dell’esperto nominato», di cui la sentenza spesso riporta testualmente gran parte del contenuto.

Infine, si conclude che la perizia psichiatrica, nei processi di femminicidio, «si è rivelata, in molti casi, uno strumento giuridico e culturale potentissimo»: specialmente in assenza di acclarate, pregresse e gravi patologie dell’imputato ricollegabili in modo causale al reato «si rischia di deviare il vero baricentro del processo penale costituito dall’accertamento del fatto». Si pone cioè al centro la follia dell’imputato «per un atto da lui non liberamente voluto» e si inseriscono «in modo apparentemente scientifico elementi estranei al diritto, come la gelosia, in contrasto con gli istituti del codice penale senza approfondire se dietro quella parola si celi, al contrario, un rapporto asimmetrico in cui la vittima ha sempre vissuto in una condizione di soggezione e disprezzo».

Gli stereotipi giudiziari
«Chi giudica è intriso di stereotipi e pregiudizi», ha scritto qualche settimana fa Paola Di Nicola, giudice al tribunale penale di Roma, esperta di violenza di genere e di stereotipi giudiziari. Il mito dello stupro, quell’insieme di abitudini mentali che minimizzano e giustificano la violenza maschile e colpevolizzano le donne che ne sono vittime, è «inconsciamente interiorizzato in ognuna e ognuno di noi», dice Di Nicola, «inclusi i giudici e le giudici».

Il nostro stesso ordinamento giuridico è stato per lungo tempo costruito su un “immaginario patriarcale”, su un sistema cioè alimentato dagli stereotipi di genere e basato sullo squilibrio di potere tra i sessi, che via via è stato smantellato: fino alla fine degli anni Cinquanta il pater familias aveva un potere educativo e correttivo su moglie e figli; fino alla fine degli anni Settanta era punito unicamente l’adulterio della moglie; nel 1981 fu abrogata la rilevanza penale della causa d’onore e l’istituto del “matrimonio riparatore”; e nel 1996 fu approvata la legge che trasferiva la violenza sessuale dai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume ai delitti contro la persona.

Nonostante la cancellazione di questo immaginario dall’ordinamento, ancora oggi, «molte sentenze vengono pronunciate come se i costrutti patriarcali presenti fino a poco tempo fa nel nostro codice fossero ancora validi». Luisa Betti è direttrice di Donne per Diritti e ha di recente realizzato una video inchiesta in undici puntate sulla violenza agita contro le donne nei tribunali.

Betti dice che «il cosiddetto movente passionale o la ricerca costante di un movente che giustifichi l’atto, come la gelosia, il tradimento o la separazione, sono dinamiche così radicate nella nostra cultura, che anche nelle aule di tribunale possono diventare qualcosa di reale, qualcosa che influisce e contamina il giudizio finale». Ma la gelosia, prosegue, «nel sistema patriarcale che abbiamo interiorizzato è solo un sintomo di dominio e di controllo. È volontà di possesso, di riduzione dell’altra a proprietà privata, rappresenta il rifiuto dell’idea che l’altra possa avere volontà e libertà proprie».

È dunque necessario che anche le sentenze sulla violenza maschile contro le donne  vengano depurate da stereotipi e pregiudizi: «Va cambiata la mentalità, nei luoghi dove si fa informazione, dove si fa cultura, dove ci si educa, e negli ambiti in cui si detta legge: e servono soldi, molti soldi».

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Roia dice che dall’ultimo monitoraggio del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) sull’applicazione delle linee guida e delle buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, risulta che nel 90 per cento delle procure sia presente almeno un pubblico ministero specializzato: «E il dato è rassicurante. Nell’ambito della funzione giudicante siamo invece solamente a poco più del 20 per cento. Bisogna dunque continuare a lavorare sulla competenza e sulla specializzazione dei giudici».

Parlare bene e farsi capire
Alcune critiche alla sentenza che coinvolge Gozzini si sono concentrate su come la stessa è stata scritta. L’avvocata Annamaria Bernardini De Pace, su La Stampa, ha ad esempio commentato che nella scrittura della sentenza di assoluzione sarebbe stato meglio abbandonare le varie «considerazioni etiche, estetiche, filosofiche, e comunque teatrali».

Paola Di Nicola, su Donne per Diritti, ha a sua volta denunciato, più in generale, come spesso non solo il diritto, ma anche la lingua costituiscano «potenti strumenti simbolici» di cui i giudici sono quotidiani portatori: «Con le loro pronunce e le loro narrazioni conferiscono il sigillo dell’universalità e dell’ufficialità, in nome dello Stato» e non dovrebbero dunque contribuire al «mantenimento di un ordine diseguale in cui il sistema di giudizi di valore accettato è fondato sulla denigrazione, la sottovalutazione, l’estromissione delle donne».

Roia racconta a sua volta che, come ha più volte indicato il CSM, «quando si trattano temi che sono particolarmente delicati e sensibili, o temi che avranno un impatto mediatico, il giudice dovrebbe essere molto asettico, molto laico: dovrebbe evitare giudizi morali o valutazioni di altra natura per attenersi, invece, alla stretta narrazione dei fatti, alla traduzione dei fatti nei principi del diritto».

Il compito della magistratura, conclude Roia, è anche quello «di spiegare nel miglior modo possibile le sentenze» e una buona pratica potrebbe essere quella «di anticiparne le motivazioni generalmente depositate dopo 90 giorni: per dare un’informazione provvisoria che contenga in sintesi il ragionamento che ha portato i giudici alla decisione». È, di fatto, una pratica già attuata dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione: «Potrebbe evitare la creazione di cortocircuiti mediatici dove vengono fatti processi a chi ha fatto il processo. È nell’interesse delle parti, dei cittadini innanzitutto. Ma si tratterebbe anche di una forma di tutela dell’azione della magistratura che in questo momento, purtroppo, non gode di ampio credito nell’opinione pubblica».

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