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  • Giovedì 14 aprile 2022

Dieci anni fa morì Piermario Morosini

La morte del calciatore bergamasco durante Pescara-Livorno è il motivo per cui in Italia i defibrillatori sono obbligatori in tutti gli impianti sportivi

I giocatori del Livorno con le maglie di Piermario Morosini il 17 aprile 2012 (Laura Lezza/Getty Images)
I giocatori del Livorno con le maglie di Piermario Morosini il 17 aprile 2012 (Laura Lezza/Getty Images)

Nel primo pomeriggio di sabato 14 aprile 2012, a Pescara, si stava giocando Pescara-Livorno, della 35ª giornata del campionato di Serie B. Da una parte c’era il Pescara con Marco Verratti, Lorenzo Insigne e Ciro Immobile insieme nella stessa squadra, che poco più di un mese dopo conclusero il campionato al primo posto con 90 gol fatti, oltre trenta in più della seconda. Dall’altra c’era il Livorno, che nonostante stesse provando a ritornare in Serie A – come poi effettivamente accadde, l’anno successivo – si trovava in difficoltà e a ridosso della zona retrocessione.

Era una squadra ancora in fase di costruzione, con diversi giocatori presi in prestito. Tra quelli schierati titolari a Pescara quel 14 aprile c’era Piermario Morosini, centrocampista bergamasco di proprietà dell’Udinese che a luglio avrebbe compiuto 26 anni.

Morosini aveva iniziato la stagione all’Udinese in Serie A, ma senza mai giocare. A gennaio era stato dato in prestito al Livorno, con cui aveva cominciato a giocare stabilmente, quasi sempre tra i titolari, come nella partita di Pescara. Le cose per il Livorno stavano cominciando ad andare meglio, e infatti nel primo quarto d’ora di gioco a Pescara si trovava già in vantaggio 2-0.

Piermario Morosini e Marco Verratti in Pescara-Livorno (Cristiano Chiodi/LaPresse)

Alla mezzora del primo tempo gli avversari stavano provando a reagire e si erano portati in attacco. Morosini, che era all’altezza della tre quarti di campo, sulla sinistra, cadde improvvisamente a terra, di petto, senza avere nessuno vicino; poi si rialzò e cadde all’indietro e ancora in avanti, sulle ginocchia, prima di crollare definitivamente a terra.

Ci vollero alcuni secondi perché tutti si fermassero, richiamati dalle urla di un compagno di squadra, Pasquale Schiattarella, lì vicino in quel momento. Arrivarono poi i medici delle due squadre, Manlio Porcellini del Livorno ed Ernesto Sabatini del Pescara, che iniziarono a praticargli il massaggio cardiaco e la ventilazione artificiale.

L’ambulanza invece tardò, e con lei anche l’arrivo del medico del 118 di Pescara, Vito Molfese: l’ingresso al campo dello stadio Adriatico era bloccato da una macchina della polizia municipale. Dovettero romperle un vetro e spostarla a spinta per liberare il passaggio, e fu un giocatore del Pescara, Marco Verratti, a prendere la barella dall’ambulanza e a trascinarla velocemente in campo.

Marco Verratti porta la barella in campo (LaPresse)

Morosini fu portato all’Ospedale Santo Spirito di Pescara e alle 17, circa un’ora e mezza dopo la sospensione della partita, fu dichiarato deceduto per arresto cardiaco, anche se – aggiunsero in medici – era arrivato già morto in ospedale e le operazioni a cui era stato sottoposto non erano servite.

Nei campionati professionistici italiani era dal 1977 che non si verifica il decesso di un giocatore per un arresto cardiaco in campo: allora fu Renato Curi, morto d’infarto in una partita di Serie A contro la Juventus nello stadio di Perugia che ora porta il suo nome. La notizia della morte di Morosini occupò per giorni la cronaca nazionale.

A 26 anni aveva giocato già per sette squadre, dall’Atalanta, in cui era cresciuto, fino al Livorno, passando per Udinese, Bologna, Vicenza, Reggina e Padova. Si era fatto tutta la trafila delle nazionali giovanili, e dell’Atalanta era stato capitano di tutte le squadre per cui aveva giocato, dove era rimasto ben voluto.

Livorno, Atalanta e Udinese ai funerali di Morosini (LaPresse)

«Pensavo che la vita l’avesse già provato fin troppo e invece è arrivata anche quest’ultima tragedia», ricordò in quei giorni Mino Favini, storico responsabile del settore giovanile dell’Atalanta. Morosini aveva perso i genitori da adolescente, entrambi per malattia, nel giro di pochi anni. Era stato cresciuto dagli zii, con una sorella e un fratello entrambi affetti da disabilità: il fratello si era suicidato pochi anni prima, quando giocava a Udine, la sorella viveva in un istituto.

Sulla sua morte fu aperta un’inchiesta e a luglio dello stesso anno furono comunicati gli esiti dell’autopsia disposta dal pubblico ministero di Pescara: Morosini era morto di cardiomiopatia aritmogena, malattia di probabile origine genetica, causa di anomalie funzionali e non prevenibile, proprio perché di origine genetica.

Nel processo finirono imputati Porcellini, Sabatini e Molfese, i tre medici che furono i primi a soccorrerlo. Era stato infatti accertato che un operatore della Croce Rossa in servizio allo stadio quel giorno aveva portato un defibrillatore semiautomatico già prima dell’arrivo dell’ambulanza, ma nessuno lo aveva usato, nonostante fosse stato aperto e messo vicino al giocatore, e nonostante le indicazioni date ai medici dallo stesso operatore.

(LaPresse)

Una perizia disposta dalla famiglia di Morosini arrivò alla conclusione che «all’arrivo sul posto del medico del 118, le possibilità di sopravvivenza del giocatore erano pari a circa il 70 per cento». Il 13 settembre 2016 il Tribunale di Pescara condannò in primo grado Molfese a un anno di reclusione, mentre Sabatini e Porcellini a 8 mesi. La pena di Molfese fu più alta perché il suo ritardo non fu giustificato dall’ingresso bloccato dello stadio, dato che avrebbe potuto entrare in campo autonomamente, vista l’emergenza.

Due anni dopo, la sentenza fu di fatto confermata in secondo grado, ma nel 2019 la Cassazione la annullò e ordinò di ripetere il processo perché il nesso tra le condotte dei sanitari e la morte improvvisa del calciatore venne ritenuto carente. Sempre secondo la Cassazione, non vennero nemmeno considerate le condizioni «di concitazione e urgenza» in cui si svolse l’azione di soccorso. L’11 ottobre dello stesso anno, la Corte d’Appello di Perugia assolse da ogni accusa i tre medici coinvolti.

Nonostante l’esito del processo, la morte di Morosini ha cambiato qualcosa. Dal 2013 – tramite decreto dell’allora ministro della Salute, Renato Balduzzi – i defibrillatori semiautomatici sono obbligatori in tutti i campi di calcio professionistici e nelle strutture sportive in generale, alla presenza «di personale formato e pronto a intervenire». Negli anni successivi l’obbligo è stato esteso anche agli ambiti dilettantistici. Dall’anno scorso, infine, è prevista la diffusione dei defibrillatori nei luoghi pubblici e di lavoro in tutto il paese.