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  • Domenica 13 marzo 2022

L’ultimo embargo sportivo, alla Jugoslavia

Trent’anni fa a quel che rimaneva del paese balcanico fu impedito di partecipare a Olimpiadi ed Europei: nel calcio ne fece le spese una grande generazione

(Getty Images)
(Getty Images)

A più di due settimane dall’inizio della guerra in Ucraina il mondo dello sport ha già preso i primi provvedimenti contro la Russia, estromettendola dalle prossime e più importanti competizioni internazionali. Il Comitato olimpico ha escluso i suoi atleti — e quelli bielorussi — dalle Paralimpiadi di Pechino; la Formula 1 ha cancellato il Gran Premio di Sochi, mentre nel calcio i club russi sono stati estromessi dalle coppe continentali e le nazionali da Mondiali ed Europei.

L’ultimo “embargo” sportivo a un paese che almeno nello sport conta come Europa fu quello della Jugoslavia all’inizio delle guerre balcaniche, nel 1992. L’anno precedente, con le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia, in Europa si era tornati infatti a combattere per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma se l’indipendenza della Slovenia non superò i dieci giorni di combattimenti e perdite tutto sommato limitate, quelle croate e bosniache furono guerre ben più lunghe e sanguinose.

Dall’estate del 1992 in poi, i combattimenti e le operazioni di pulizia etnica nell’ex Jugoslavia rasero al suolo interi paesi, provocarono tra i 130 e i 150mila morti, civili compresi, e quasi quattro milioni di profughi.

In seguito al primo anno di combattimenti, con la risoluzione 757 del 30 maggio 1992 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite votò l’embargo a quel che rimaneva della Jugoslavia, ovvero le attuali Serbia e Montenegro. Vennero vietate esportazioni e importazioni, così come non furono più permessi trasferimenti di fondi, collaborazioni scientifiche, tecniche e culturali; ai voli nazionali venne vietato l’atterraggio, il decollo e il sorvolo di paesi esteri, e fra le altre cose la Jugoslavia venne estromessa dalle principali competizioni sportive internazionali.

Il serbo Dragan Stojkovic con la Jugoslavia nel 1996 (Ben Radford/Allsport)

La risoluzione venne recepita dai vari organi sportivi e di conseguenza il paese fu escluso dal principale evento previsto quell’anno, le Olimpiadi estive di Barcellona. Alcuni atleti jugoslavi poterono partecipare ai Giochi olimpici in Spagna, ma soltanto sotto la bandiera olimpica. Nel medagliere di quell’edizione la Jugoslavia non c’è, e le cinque medaglie vinte dai suoi atleti rimangono tuttora elencate sotto la dicitura “Partecipanti olimpici indipendenti”.

Quando si ricorda l’embargo sportivo alla Jugoslavia, i rammarichi più grandi riguardano però il calcio. Lo sport più popolare della regione aveva scandito le fasi della guerra ancora prima del suo inizio, a partire dalla famosa partita di campionato tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado del 13 maggio 1990. Quel giorno i gravi scontri tra croati e serbi dentro e fuori dallo stadio Maksimir di Zagabria furono un’anticipazione di quello che sarebbe successo a breve.

Un anno dopo fu un’altra partita di calcio, la finale di Coppa Campioni a Bari tra Stella Rossa e Olympique Marsiglia, a segnare la fine di un’epoca. Quella finale venne vinta dalla Stella Rossa e fu allo stesso tempo la prima e l’ultima vittoria della Jugoslavia unita nel calcio dei professionisti, dopo decenni di sfortune e delusioni sempre molto difficili da spiegare (a differenza del basket, dove nel 1990 la nazionale jugoslava aveva vinto il suo terzo titolo mondiale). Fu anche l’ultima vittoria europea di una squadra balcanica, una cosa impensabile ora, per il modo in cui il calcio è cambiato.

Dalla sua fondazione nell’immediato dopoguerra, la Stella Rossa era stata fra le squadre più simboliche del calcio balcanico, nonché quella dei migliori giocatori della regione. Al di fuori dell’ex Jugoslavia, tuttavia, nomi come Vladimir Beara, Dragan Dzajic e Dragoslav Sekularac sono pressoché sconosciuti, nonostante i meriti. Questo perché fino agli anni Ottanta il regime del maresciallo Tito non permetteva l’espatrio dei calciatori, o arrivava a concederlo soltanto a fine carriera. La costrizione privò i giocatori di una possibile fama internazionale, da un lato; dall’altro rese il campionato jugoslavo un torneo altamente competitivo.

Zvonimir Boban nel 1995 con la Croazia (Ben Radford/Allsport)

A fine anni Ottanta — nonostante malumori già diffusi nel paese dalla morte di Tito nel 1980 — la qualità del movimento jugoslavo fu rinvigorita da una generazione di nuovi calciatori di grande talento. Il loro arrivo fece sperare nella prima vittoria jugoslava internazionale, soltanto sfiorata nei decenni precedenti, in particolare agli Europei del 1968 persi nella doppia finale di Roma contro l’Italia. E in effetti una vittoria arrivò, la prima per il calcio jugoslavo: nel 1987 ai Mondiali Under 20 in Cile.

Quella vittoria aumentò le aspettative in vista dei Mondiali del 1990 e degli Europei del 1992. Nella nazionale campione del mondo in Cile c’erano due difensori croati già di un certo livello, nonostante la giovane età: Robert Jarni e Igor Stimac, che poi proseguirono le carriere tra Spagna, Italia e Inghilterra. A centrocampo la coppia formata da Robert Prosinecki e Zvonimir Boban attirava attenzioni già da tempo. In Cile fu quella che indirizzò il torneo a favore della Jugoslavia. A Prosinecki, serbo-croato che giocava da posizione arretrata, fu dato il Pallone d’Oro come miglior giocatore; a Boban, croato di Zagabria e trequartista, quello d’argento.

I palloni che passavano da Boban e Prosinecki arrivavano alla coppia d’attacco, altrettanto talentuosa, formata da Davor Suker e Predrag Mijatovic. Il primo, croato, fu capocannoniere del torneo con sei gol; il secondo, serbo, fu il secondo miglior marcatore della squadra. A conferma delle qualità dei giocatori, le carriere che tutti loro proseguirono negli anni successivi passarono per le migliori squadre d’Europa. Suker, Jarni e Mijatovic, per esempio, si ritrovarono tutti al Real Madrid alla fine degli anni Novanta. Prosinecki ci arrivò prima, e fece in tempo a giocare anche con il Barcellona, dopo aver fatto parte della Stella Rossa campione d’Europa.

Boban invece contribuì alle fortune del Milan negli anni Novanta. Nel 1990, insieme a Suker, Prosinecki e Jarni, avrebbe dovuto far parte dei convocati della Jugoslavia per i Mondiali in Italia, dove il talento della nuova generazione si sarebbe unito ad altri giocatori di grande qualità, come Dragan Stojkovic, e all’esperienza dei più grandi, come il capitano bosniaco Faruk Hadzibegic. Boban però non potè partecipare: negli scontri durante Dinamo Zagabria-Stella Rossa fratturò la mascella a un poliziotto con una ginocchiata e per questo fu squalificato dalla nazionale per quattro mesi.

(Laurence Griffiths/Getty Images)

I Mondiali del 1990, gli ultimi della Jugoslavia unita, si fermarono ai quarti di finale, persi ai rigori contro l’Argentina di Diego Armando Maradona. Nonostante la delusione (secondo una certa narrazione, la vittoria dei Mondiali avrebbe potuto cambiare il corso della storia) e le crescenti divisioni nel paese e all’interno della nazionale, le aspettative per gli Europei del 1992 rimasero alte. Ai vari Suker e Prosinecki si sarebbero infatti aggiunti tutti gli altri campioni del mondo del 1987, da Boban a Mijatovic, diventati nel frattempo dei giocatori ancora più maturi.

Il percorso di qualificazione fu impeccabile. La Jugoslavia vinse sette partite su otto, ottenne il secondo miglior punteggio e concluse le qualificazioni con il miglior attacco, sostenuto proprio dal contributo di Boban, Suker e Prosinecki, oltre che del miglior marcatore della Stella Rossa campione d’Europa, il macedone Darko Pancev. La squadra si qualificò così nel migliore dei modi alla fase finale prevista in Svezia nell’estate del 1992, ma la guerra si mise inevitabilmente in mezzo.

Nel giro di due anni i giocatori croati e sloveni lasciarono la Jugoslavia uno dopo l’altro, perché nel frattempo non era più la loro nazionale. A un mese dall’inizio degli Europei, per protesta contro i combattimenti e in difficoltà per le tensioni arrivate anche all’interno della squadra, l’allenatore Ivica Osim si dimise e se ne andò all’estero. In conferenza stampa disse: «È molto difficile per me, ma a rischio di sembrarvi brusco, mi dimetto. Non andrò alle partite in preparazione degli Europei in Svezia. Interpretatela come volete, ma vi dico una cosa: è una mia decisione personale. È l’unica cosa che posso fare per la mia città natale, Sarajevo».

Quel che rimaneva della nazionale jugoslava andò lo stesso in Svezia per partecipare al torneo, ma a pochi giorni dall’inizio ricevette dalla UEFA la notizia dell’estromissione in seguito all’embargo votato dall’ONU. La delegazione fece quindi i bagagli, lasciò il ritiro di Leksand e tornò indietro. Il suo posto venne preso dalla Danimarca, la seconda classificata nel girone di qualificazione, che incredibilmente e contro ogni pronostico vinse il torneo per la prima e ancora unica volta nella sua storia.

Nel resto dell’ex Jugoslavia, l’embargo sportivo ebbe l’effetto di svuotare le squadre di tutti i loro talenti. Per non rimanere confinati in campionati esclusi dalle coppe continentali o di piccole dimensioni, in breve tempo i più bravi andarono a giocare nei maggiori campionati d’Europa, facendo per anni la fortuna di tanti grandi club. Per le vecchie squadre jugoslave, come la Stella Rossa, fu invece l’inizio di un lungo declino. Andò meglio soltanto ai croati, che si ritrovarono nella loro nuova nazionale e nel 1998 raggiunsero uno storico terzo posto ai Mondiali in Francia.