La fine di uno degli iceberg più grandi di sempre

Nel 2020 l'A-68A minacciava l'ecosistema della Georgia del Sud: nel giro di pochi mesi si è frantumato e sciolto completamente

Una nave di esplorazione vicino all'iceberg A-68A nel marzo del 2020 (Henry Páll Wulff, Wikimedia Commons)
Una nave di esplorazione vicino all'iceberg A-68A nel marzo del 2020 (Henry Páll Wulff, Wikimedia Commons)

Nel luglio del 2017 dalla sezione C della piattaforma glaciale Larsen, lungo la costa orientale della Penisola Antartica, si staccò un gigantesco iceberg che nel giro di poco tempo si spezzò in tre parti: una di queste era l’iceberg chiamato A-68A, uno degli iceberg più grandi mai osservati nella storia, lungo più di 160 chilometri e largo quasi 50. Per alcuni anni A-68A galleggiò nel mare di Weddell e poi cominciò a spostarsi verso nord, fino ad avvicinarsi alla fine del 2020 alla Georgia del Sud, il territorio d’oltremare britannico nell’oceano Atlantico Meridionale, dove si prevedeva che la sua presenza avrebbe potuto metterne a rischio l’ecosistema.

Un recente studio pubblicato sulla rivista Remote Sensing of Environment ha dato alcune informazioni interessanti sull’impatto dell’iceberg sugli ecosistemi della Georgia del Sud, evidenziando che nonostante i timori la sua presenza non ha avuto grosse conseguenze sulla vita marina: spostandosi in acque meno fredde infatti A-68A si è assottigliato così tanto da frantumarsi in iceberg via via più piccoli, che alla fine si sono dispersi e sciolti.

Secondo le misurazioni del gruppo di scienziati che ha condotto lo studio, guidato dalla ricercatrice del centro di osservazione polare dell’Università di Leeds, Anne Braakmann-Folgmann, A-68A è stato il sesto iceberg più grande mai osservato. Tra le altre cose, gli scienziati hanno utilizzato i dati ottenuti da satelliti che sono in grado di misurare lo spessore dei ghiacci per misurare le sue dimensioni e varie immagini satellitari per seguire i suoi spostamenti nel tempo.

Inizialmente A-68A aveva una superficie di 4.200 chilometri quadrati, quasi quanto l’estensione del Molise. Per più di un anno rimase vicino al punto in cui si era staccato e poi si allontanò progressivamente dalla Penisola Antartica, spostandosi verso nord, entrando prima nel mare di Scotia e avvicinandosi poi all’oceano Atlantico Meridionale.

Nei suoi ultimi mesi di esistenza, all’inizio del 2021, la superficie cominciò a ridursi a causa del contatto con acque relativamente più calde e poi cominciò a frantumarsi, fino a sciogliersi completamente.

La traiettoria compiuta dall’iceberg A-68A fino alla sua progressiva rottura, dallo studio pubblicato su “Remote Sensing of Environment”

Inizialmente l’iceberg misurava più di 240 metri in altezza, con una porzione alta circa 35 metri visibile sopra il livello del mare. Secondo le ricostruzioni degli scienziati, prima di toccare brevemente il fondale marino, frantumarsi e poi sciogliersi, la sua altezza era arrivata a essere in media di 60 metri.

Nell’aprile del 2021 i vari iceberg che si erano formati dalla rottura di A-68A erano di dimensioni così ridotte che secondo l’ente statunitense che si occupa di sorveglianza dei ghiacci non valeva più la pena seguirne gli spostamenti.

Gli scienziati hanno spiegato che passando dalle acque dell’oceano Antartico a quelle dell’Atlantico Meridionale l’iceberg si era sciolto a partire dalla parte sommersa, rilasciando circa 150 miliardi di tonnellate di acqua fredda nel mare vicino alla Georgia del Sud, un’isola abitata da foche e pinguini.

I ricercatori hanno stimato che tutta questa acqua fresca e non salata, in quanto proveniente da un iceberg galleggiante, non abbia contribuito all’innalzamento del livello del mare; tuttavia avrebbe potuto danneggiare gli organismi marini di cui si nutrono foche e pinguini e influire negativamente sulla crescita del fitoplancton, cioè l’insieme di microrganismi marini che attuano la fotosintesi, sono essenziali per l’ecosistema marino e producono la metà dell’ossigeno prodotto da tutti gli organismi vegetali del nostro pianeta.

Geraint Tarling è uno degli scienziati che hanno analizzato l’impatto dell’iceberg osservando i campioni di acqua raccolta e il comportamento di alcune foche e pinguini che vivono nella Georgia del Sud. Tarling ha detto al New York Times che i primi dati raccolti indicano che gli animali non hanno modificato le proprie abitudini di ricerca del cibo, come sarebbe accaduto se A-68A si fosse avvicinato troppo all’isola o si fosse bloccato sul fondale marino.

Adesso anche altri ricercatori della British Antarctic Survey – l’ente di ricerca britannico che si occupa delle missioni in Antartide – si stanno occupando di studiare gli effetti dello scioglimento dell’iceberg sugli ecosistemi dell’oceano Atlantico Meridionale. Tra le altre cose, l’acqua proveniente dal ghiaccio sciolto ha portato con sé enormi quantità di detriti che contenevano sostanze nutritive buone per il plancton, che potrebbero contribuire allo sviluppo della vita sottomarina.

L’iceberg A-68A nell’Atlantico Meridionale nel novembre del 2020 (ANSA/ EPA/ NASA WORLDVIEW)

Anche se A-68A non si è incagliato sul fondale dell’oceano, negli ultimi decenni altri iceberg lo avevano fatto, provocando danni sia al fondale che agli ecosistemi circostanti. Tarling ha ricordato che eventi di questo tipo potrebbero verificarsi con frequenza maggiore per via dell’aumento delle temperature legato al cambiamento climatico.

Era successo per esempio nel 2004 con l’iceberg A-38, che pur non essendo grande quanto A-68A causò la morte di innumerevoli pulcini di pinguino e cuccioli di foca, che furono ritrovati sulle spiagge della Georgia del Sud. Nel 2010 un iceberg di soli 100 chilometri quadrati che si era bloccato vicino al promontorio di Capo Denison – poco fuori dalla Baia del Commonwealth, nella Penisola Antartica, a sud dell’Australia – complicò la vita ai pinguini che vivevano nella zona, che dovettero allungare di vari chilometri il proprio viaggio per raggiungere l’acqua e trovare il cibo.