Il prezzo dell’energia è diventato insostenibile per le aziende

In particolare quello del gas, cresciuto di oltre il 700% dal 2019: il governo sta studiando misure per aiutare interi settori industriali

I produttori di vetro sono tra i più soggetti ai rincari dell'energia (AP Photo/Antonio Calanni)
I produttori di vetro sono tra i più soggetti ai rincari dell'energia (AP Photo/Antonio Calanni)

Tutte le mattine Alessandro Savoldi, uno dei tre amministratori della società Btt di Brescia, controlla il prezzo del gas sull’app che ha installato sul suo smartphone. Da quando ha ricevuto l’ultima bolletta fa fatica a dormire, per la preoccupazione dovuta all’aumento del prezzo dell’energia da cui dipende il futuro della sua azienda. Fino a settembre pagava 180mila euro al mese. A dicembre il costo è salito a 850mila euro: quasi quintuplicato. Savoldi sa di lavorare in perdita. In questo periodo non gli converrebbe accendere gli impianti, ma deve farlo per non perdere i clienti.

La Btt riceve ingranaggi, barre e pezzi di acciaio prodotti da altre aziende per trattarli ad alta temperatura, in modo da renderli più resistenti. Se l’azienda si dovesse fermare, i suoi clienti dovrebbero trovarne un’altra per non fermare la produzione. «Non possiamo quintuplicare i costi perché altrimenti perderemmo comunque clienti», dice Savoldi. «Abbiamo ritoccato i prezzi e limitato l’attività per cercare di contenere le perdite, anche se non è semplice».

Nella stessa situazione ci sono migliaia di aziende italiane, per cui i costi dell’energia sono diventati insostenibili. Le più esposte ai rincari sono quelle che hanno gas ed elettricità al centro della produzione: le aziende metallurgiche, del vetro, della ceramica e del cemento, del legno e della carta.

Secondo una stima del Centro studi di Confindustria, nel 2022 il costo dell’energia per le imprese sarà di 37 miliardi. Nel 2018 il conto finale era stato di 8 miliardi, nel 2020 era già salito a 20 miliardi. Finora non si sono visti effetti significativi per le famiglie, ma forse soltanto perché è troppo presto per capire cosa succederà.

Il prezzo del gas, che fino all’inizio del 2021 era rimasto sotto controllo, ha iniziato a crescere a partire da maggio. È la materia prima che ha subìto i rincari maggiori nell’ultimo anno: il prezzo è cresciuto del 423 per cento a livello mondiale. Se negli Stati Uniti l’aumento è stato piuttosto contenuto, intorno al 66 per cento, non si può dire lo stesso in Europa, dove ci sono stati rincari del 723 per cento rispetto al dicembre del 2019.

Non è semplice trovare una spiegazione agli aumenti, perché le cause sono più di una. Uno dei motivi più importanti è legato alle crescenti tensioni tra Unione Europea e Russia, paese da cui dipende gran parte della fornitura di gas naturale che oltre alle aziende arriva anche nelle case in Europa. La Russia negli ultimi mesi ha inoltre ridotto i flussi attraverso i propri gasdotti che passano in Bielorussia, Polonia e Ucraina, facendo pressioni per l’apertura del Nord Stream 2, il discusso nuovo grande gasdotto che passa sotto il Mar Baltico, raggiungendo direttamente la Germania.

Nord Stream 2 è stato completato, ma non è ancora stato aperto sia perché mancherebbero alcune autorizzazioni sia perché vari governi occidentali temono che la Russia potrebbe usarlo per aumentare la propria influenza sull’Europa e mettere sotto pressione i paesi dell’area ex sovietica come l’Ucraina, da cui il gas è passato finora.

Il prezzo del gas è ulteriormente cresciuto anche in seguito alla minaccia di un’offensiva russa in Ucraina e alle conseguenti tensioni internazionali.

I tubi per la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 (Sean Gallup/Getty Images)

Che il gas sia utilizzato come strumento di pressione politica è confermato anche dalla riduzione delle forniture che in parte spiega l’aumento dei prezzi. Nel quarto trimestre del 2021, infatti, le forniture di gas da parte della Russia sono diminuite del 25 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A tutto questo si aggiungono le riserve sempre più limitate, ai minimi storici dal 2013.

L’Italia è più esposta all’incertezza rispetto ad altri paesi europei perché privilegia il gas naturale come fonte energetica. Rappresenta il 42 per cento del consumo totale di energia nel 2020, contro il 28 per cento del Regno Unito, il 26 per cento della Germania che usa ancora molto carbone, il 23 per cento della Spagna, che si affida al petrolio, e il 17 per cento della Francia che conta sull’energia nucleare. Nonostante l’Italia abbia raggiunto un discreto utilizzo delle energie rinnovabili, l’11 per cento del consumo energetico, il livello non è sufficiente a contenere il ruolo del gas naturale e del petrolio.

Se i prezzi non scenderanno, potrebbero esserci conseguenze anche sull’occupazione diretta e indiretta di molte aziende. Giovanni Savorani, presidente di Confindustria Ceramica e titolare della Gigacer, un’azienda di Faenza, ha detto che l’uso della ceramica non calerà nei prossimi anni, perché in un periodo di crisi sanitaria è un materiale molto utile per costruire ambienti facili da igienizzare. «Il problema è se questa ceramica continueremo a farla noi o la faranno paesi che avranno condizioni più favorevoli».

Anche secondo Savorani, come per Savoldi, è impensabile trasferire i rincari energetici sui prezzi di listino senza conseguenze sugli ordini: «Gli aumenti di listino non si fanno dall’oggi al domani. Se uno è bravo ci mette tre mesi, ma la bolletta arriva tutti i mesi. È difficile prevedere che effetti possano avere sulla tenuta degli ordini, lo vedremo a febbraio-marzo».

La prima mossa di molte aziende è stata limitare la produzione allo stretto necessario, rallentare nei reparti che consumano più energia, chiedere ai dipendenti di lavorare anche nel weekend, quando l’energia costa meno. Quando non è possibile fare tutto questo, le aziende sono costrette a chiudere temporaneamente intere linee e chiedere la cassa integrazione. È successo in Sardegna, alla Portovesme Srl, produttrice di piombo e zinco. Oltre 400 dipendenti sono andati in cassa integrazione quando l’azienda ha fermato la linea di produzione di zinco.

La chiusura temporanea ha coinvolto anche una serie di piccole aziende dell’indotto che dipendono dalla produzione della Portovesme Srl. «Le aziende pagano i rincari del metano, nonostante in Sardegna non ci sia», spiega Francesco Garau, segretario regionale della Filctem Cgil. «Da anni chiediamo di far arrivare il metano per sostenere settori come l’agroindustria, la produzione di alluminio, ceramica e cemento, che in Sardegna sono molto importanti e che non riescono a essere competitivi. Bisogna calmierare i prezzi dell’energia».

Molti governi europei sono già intervenuti con misure per limitare i rincari che colpiscono le aziende e tutelare interi settori industriali. Al momento il governo italiano ha stanziato complessivamente 8,5 miliardi per sostenere i costi delle bollette, ma solo per le famiglie in difficoltà. Mercoledì il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti incontrerà i rappresentanti delle associazioni delle imprese. «La tempesta energetica che avevamo paventato qualche mese fa è arrivata», ha detto Giorgetti annunciando l’incontro. «Adesso il problema ha due corni: uno immediato rispetto all’aumento dei prezzi e l’altro che ripropone il tema di scelte strategiche che un governo deve fare».

Il Centro studi di Confindustria ha pubblicato un’analisi in cui suggerisce al governo alcune misure: intervenire sulle componenti fiscali delle bollette aumentando le esenzioni per i settori della manifattura; aumentare la produzione nazionale di gas naturale e riequilibrare, sul piano geopolitico, la struttura di approvvigionamento del paese; promuovere una riforma del mercato elettrico, con l’obiettivo di separare la crescente produzione di energia rinnovabile dal costo di produzione a gas.

Secondo il Sole 24 Ore, il governo sta lavorando a un intervento tra 4 e 5 miliardi per sostenere le imprese. La soluzione più semplice sembra essere l’utilizzo dei proventi delle aste CO2, il meccanismo di assegnazione delle quote di emissioni che devono essere acquistate da chi produce energia per poter emettere. Nel 2021 le aste hanno garantito 2,5 miliardi di euro, potrebbero esserne utilizzati 1,3 miliardi.

Il ministero dello Sviluppo economico avrebbe anche chiesto di accantonare scorte di gas per le imprese, di utilizzare il gettito extra delle accise e di tassare i profitti extra delle società energetiche. Applicare quest’ultimo punto, però, sembra essere piuttosto complesso e dalle prime stime sembra che gli incassi potrebbero essere inferiori rispetto alle attese: solo 2 miliardi.