• Italia
  • Venerdì 17 dicembre 2021

Abbiamo un po’ rinunciato al contact tracing

Rispetto alle prime fasi della pandemia oggi ci sono contesti e situazioni in cui è impossibile, e forse inutile: ma le strutture che lo fanno ci sono ancora, e arrancano

(Marijan Murat/dpa)
(Marijan Murat/dpa)

Nell’ultimo report settimanale dell’Istituto superiore di sanità è stato segnalato un significativo aumento dei nuovi casi «non associati a catene di trasmissione»: significa che le aziende sanitarie non riescono a capire dove queste persone si siano contagiate. I casi non associati a catene di trasmissione sono stati 42.675, il 14,5 per cento in più rispetto ai sette giorni precedenti.

Risalire all’origine del contagio e seguirne la diffusione, in altre parole fare il lavoro di contact tracing, è stato a lungo considerato una delle strategie fondamentali per contenere la pandemia: “test, treat, trace”, cioè fare test, curare e tracciare era una specie di slogan dell’approccio ideale da adottare nei primi mesi del 2020. Ma quasi due anni dopo siamo in una fase diversa della pandemia, e la ripresa delle attività nelle loro modalità adattate alla convivenza con il virus ha portato di fatto a superare questo approccio.

Oggi è previsto che chiunque sia esposto quotidianamente a situazioni in cui rischia di essere contagiato o di contagiare, senza la possibilità che in seguito siano ricostruiti i suoi contatti: sui mezzi pubblici, al cinema, anche al ristorante, dove è caduta in disuso la richiesta di lasciare i dati anagrafici e il numero di telefono.

Ma nei protocolli sanitari delle ASL continua a essere prevista una forma di contact tracing, che rimane uno strumento importante per isolare almeno una parte delle persone che vengono in contatto con qualcuno positivo al coronavirus, solitamente quelle che ci hanno passato più tempo insieme e che quindi sono state più a rischio di contagio. Ma anche in questa sua nuova versione ridimensionata nelle risorse e nelle ambizioni, per il sistema di contact tracing nelle ultime settimane si sta ripetendo una situazione già avvenuta nell’autunno del 2020: l’aumento dei casi è diventato così rapido, e i contatti dei positivi così tanti, che le forze disponibili si sono dimostrate insufficienti.

In molte regioni il contact tracing non funziona più. In una nota inviata alle aziende sanitarie del Veneto da Luciano Flor, direttore generale della Sanità regionale, e da Francesca Russo, a capo della Prevenzione, si legge: «Con l’evolversi della situazione epidemiologica della pandemia, nell’ultimo periodo si riscontra un rallentamento delle attività di presa in carico dei nuovi positivi». In Veneto, nei primi quindici giorni di dicembre non sono stati contattati dalle aziende sanitarie 1.433 positivi: vuol dire che non si sono ricostruiti i contatti di queste persone, e non si sono interrotte le catene di contagio. La situazione è simile in molte altre regioni.

In Italia il tracciamento dei contatti è gestito dalle aziende sanitarie locali ed è un lavoro che si può definire “manuale”: operatori dei servizi di prevenzione devono registrare le persone contagiate, chiamarle al telefono, e ricostruire i loro contatti a partire da 48 ore prima e teoricamente fino a due settimane dopo l’insorgenza dei sintomi. Questa operazione si basa sulla capacità dei contagiati di ricostruire con precisione quali siano stati i loro contatti.

– Leggi anche: Sappiamo ancora poco sulla variante omicron in Italia

Fino allo scorso anno il tracciamento veniva fatto anche attraverso l’app Immuni, oggi per lo più inutilizzata, che permette di ricevere un avviso nel caso in cui si sia entrati in contatto con persone poi risultate positive.

Non ci sono studi che abbiano stimato quanti contagi l’app abbia contribuito a evitare, ma è probabile che si tratti di un numero poco rilevante. Se ogni singolo contagio evitato è una buona notizia, negli intenti iniziali l’impatto di Immuni avrebbe dovuto essere molto più ampio e avrebbe dovuto contribuire in maniera sostanziale a contenere il contagio, cosa che non è successa.

Il mancato utilizzo di Immuni non è l’unica differenza rispetto allo scorso anno. Sono cambiate moltissime cose che rendono il tracciamento complesso e per certi versi inutile, secondo molti addetti ai lavori.

(AP Photo/Domenico Stinellis, File)

Innanzitutto grazie all’efficacia del vaccino, che però tende a diminuire nel tempo soprattutto con l’insorgere di nuove varianti più contagiose, sono state tolte molte delle restrizioni che c’erano un anno fa: si può salire sui mezzi pubblici, andare a scuola, al lavoro, al ristorante, incontrare amici e parenti, fare sport, andare al cinema e ai concerti.

In una giornata si possono incontrare migliaia di persone sconosciute rimanendo insieme nello stesso luogo, a contatto per più di quindici minuti, con il rischio di trasmissione del contagio che è amplificato in presenza dei cosiddetti superdiffusori. In questi casi è impossibile risalire all’origine dell’eventuale contagio e avvisare i contatti.

Ma esistono esempi di tracciamento dei contatti che hanno trovato un loro modo di funzionare e di essere efficaci. Sandro Cinquetti, direttore del dipartimento di Prevenzione dell’azienda sanitaria Dolomiti, in provincia di Belluno, una delle più efficienti e preparate in Italia, dice che a Belluno il contact tracing funziona ancora perché nella provincia abitano solo 200mila persone. «Riusciamo a risalire ai contatti con una squadra di tracciatori composta da 15 persone di notevole esperienza che lavora sempre, con turni anche nei festivi per non perdere nemmeno un minuto», spiega. «È evidente che se un’azienda sanitaria deve seguire più di un milione di abitanti si viene travolti: ci vorrebbero call center da oltre cento persone».

L’assunzione di tracciatori è un altro dei grandi problemi. Malgrado l’importanza del contact tracing non sia mai stata messa in discussione nel contrasto alla pandemia, rispetto allo scorso anno i tracer sono molti meno.

Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità elaborati dal Sole 24 Ore, a inizio gennaio c’erano 14.920 tracciatori, mentre a inizio dicembre erano 11.352: 3.568 in meno. Le uniche regioni in cui il numero dei tracciatori non è diminuito sono il Lazio, la Sicilia e la provincia autonoma di Trento. In otto regioni – Emilia, Liguria, Lombardia, Bolzano, Puglia, Toscana, Umbria e Valle d’Aosta – il personale è stato dimezzato.

Per cercare di rimediare a queste mancanze, la Regione Emilia-Romagna ha annunciato che da gennaio saranno assunte nuove persone in deroga al blocco delle assunzioni. Anche la Regione Lazio ha assicurato che assumerà nuovo personale per tracciare i contatti dei contagiati.

Assumere centinaia di nuovi tracciatori non è tuttavia sufficiente a fare bene il contact tracing, che da solo serve a poco. Il tracciamento, infatti, dipende dalla capacità di fare rapidamente i tamponi e individuare nel giro di pochissimi giorni i positivi. Quando passa troppo tempo tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi oppure tra l’esecuzione del tampone e l’esito, il contact tracing diventa inutile perché per diversi giorni i contatti della persona positiva non sanno che potrebbero essere stati contagiati e non si mettono in isolamento. Secondo i dati dell’ISS, in molte regioni trascorrono da due a tre giorni tra la data di inizio dei sintomi e le diagnosi di positività.

Osservando i dati dei tamponi eseguiti nelle ultime settimane si potrebbe pensare che il numero dei test sia adeguato: in realtà una parte significativa del totale riguarda le persone che ricorrono al test per ottenere il Green Pass base obbligatorio per lavorare.

In molte regioni i medici di famiglia segnalano una disponibilità di tamponi molecolari non sufficiente. «All’ora di cena le prenotazioni vengono chiuse e quando al mattino dopo riaprono, se riaprono, si aspetta almeno uno o due giorni per poterne fissare uno», ha spiegato un medico di base a Repubblica Torino. All’attesa per il test bisogna poi aggiungere altri due giorni per avere l’esito: «Intanto i pazienti stanno a casa o vanno in giro. È pericoloso».

– Leggi anche: Le pillole contro la COVID-19, finora

Martedì scorso Vittorio Giura, medico di famiglia che lavora a Pino Torinese, ha provato a prenotare un tampone controllando la disponibilità a Carmagnola, Chieri, Moncalieri, i centri dell’azienda sanitaria TO5: «Zero risultati. Il primo posto libero è per venerdì. Vuol dire che prima di sabato, nelle migliori delle ipotesi, non se ne può conoscere l’esito».

Cinquetti spiega che a Belluno il contact tracing è efficace perché i laboratori riescono a garantire i referti dei tamponi entro al massimo 48 ore e ci sono stati accorgimenti al protocollo di indagine: prima ancora di fissare gli appuntamenti per i tamponi di verifica ai contatti, operazione che richiede un certo periodo di tempo, i tracciatori chiamano le persone e chiedono loro di stare in isolamento in attesa di una chiamata più approfondita. «È una presa in carico più veloce», spiega. «Abbiamo avuto un caso limite di uno scout che ha segnalato 103 contatti. Senza una gestione rapida sarebbe stato impossibile chiamare tutti in tempo, con il rischio che senza l’isolamento trasmettessero il virus».

C’è comunque una differenza decisiva rispetto all’inefficacia del contact tracing riscontrata durante la seconda e la terza ondata dell’epidemia: finora grazie all’efficacia del vaccino moltissime persone hanno evitato forme gravi della COVID-19. A parità di contagi, nelle ultime settimane ci sono stati molti meno ricoveri e morti rispetto a un anno fa.