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  • Mercoledì 17 novembre 2021

Non è l’epidemia del 2020

Sono cambiate tante cose rispetto allo scorso anno: i contagi aumentano anche a causa delle varianti, ma i vaccini stanno contenendo l'impatto sugli ospedali

(AP Photo/Antonio Calanni)
(AP Photo/Antonio Calanni)

La cosiddetta “quarta ondata”, che sta causando una nuova crescita dei casi e l’aumento dei ricoveri in terapia intensiva in molti paesi europei tra cui l’Italia, non è semplice da analizzare e interpretare: quella di oggi non è più infatti l’epidemia del 2020. Da allora sono cambiate tante cose: ci sono i vaccini, che offrono una protezione contro le forme gravi della COVID-19; ci sono varianti più contagiose; e ci sono meno restrizioni, anche se la situazione cambia da paese a paese.

Negli ultimi mesi molti governi, tra cui quello italiano, hanno preferito una strategia prudente: hanno rimosso le restrizioni in maniera graduale e hanno promosso un’estesa campagna vaccinale con limitazioni specifiche per le persone non vaccinate. Altri paesi, come il Regno Unito, hanno preferito una via diversa: hanno eliminato molto più velocemente le restrizioni, tra cui l’obbligo di indossare le mascherine e di mantenere il distanziamento fisico.

Per tutte queste ragioni è difficile dire quanto sia pericolosa la situazione attuale: se quello che sta accadendo si debba considerare una nuova emergenza, o piuttosto un peggioramento “fisiologico” nella nostra convivenza con il virus, che probabilmente andrà avanti ancora per diverso tempo. Qualcosa però si può provare a capire, facendo un confronto della situazione attuale in Italia con quella – ben più grave – di un anno fa.

Partiamo anzitutto da come stanno andando le cose ora.

Dopo un’estate relativamente tranquilla, con una crescita dei contagi limitata in alcune regioni come la Sicilia e la Calabria, nell’ultimo mese in Italia i contagi settimanali sono aumentati a un ritmo sostenuto, intorno al 40 per cento. L’incidenza settimanale dei casi ha superato la soglia di 90 contagi ogni 100mila abitanti e rispetto agli ultimi mesi è tornata a crescere la considerazione nei confronti dell’indice Rt, un numero che indica quante persone vengono contagiate da una sola persona, in media e in un certo arco di tempo. Da alcune settimane in Italia l’indice Rt è superiore a 1: nell’ultimo bollettino di sorveglianza diffuso dell’Istituto superiore di sanità, la scorsa settimana è stato di 1,21.

Se si guardassero solo questi due indicatori, le preoccupazioni sarebbero simili a quelle di un anno fa. La differenza però oggi la stanno facendo i vaccini, che stanno permettendo di avere un aumento molto più contenuto dei ricoveri e dei decessi.

Riguardo all’efficacia dei vaccini, e a quello che sarebbe potuto accadere quest’autunno senza l’avvio delle campagne vaccinali, è utile uno studio pubblicato il 16 novembre dall’Istituto superiore di sanità, dal ministero della Salute e dalla fondazione Bruno Kessler.

Lo studio parla tra le altre cose dei decessi che sarebbero stati evitati grazie al vaccino: sostiene che tra il 27 dicembre 2020, giorno in cui è iniziata la campagna vaccinale in Italia, e il 30 giugno del 2021, il vaccino avrebbe evitato 12.100 morti (con un intervallo di confidenza piuttosto ampio: 6.600-21.000 decessi). Nello stesso periodo i decessi per COVID-19 in Italia sono stati 56mila: va specificato comunque che nei primi mesi dell’anno, in corrispondenza della terza ondata e almeno fino alla metà di aprile, il ritmo di somministrazione era stato piuttosto basso.

Secondo lo stesso studio, oltre a limitare i decessi, a luglio e agosto l’efficacia del vaccino avrebbe compensato anche l’effetto negativo della diffusione della variante delta, che si è dimostrata più contagiosa delle altre emerse finora e in grado di diffondersi molto velocemente.

È bene ricordare che si tratta comunque di stime, e che analizzare cosa-sarebbe-successo-se è da sempre un’operazione molto complessa.

L’efficacia del vaccino sta avendo un impatto anche sull’andamento dei ricoveri in terapia intensiva, che finora è stato sensibilmente minore rispetto a quello dell’autunno del 2020. Quello dei ricoveri è un dato che va preso con cautela – ha infatti qualche limite legato alla diversa gestione dell’epidemia –, ma ha una sua grande rilevanza, anche considerando il fatto che senza vaccini, e con la diffusione della variante delta, avrebbe potuto essere molto più alto di quanto non sia oggi.

Al momento in Italia gli ospedali in difficoltà a causa dei nuovi ingressi in terapia intensiva sembrano essere concentrati in alcune regioni, soprattutto in Friuli Venezia Giulia e nelle Marche, dove la percentuale di posti letto occupati dai malati di COVID-19 sul totale dei posti disponibili ha superato il 10 per cento, soglia di allerta fissata dal ministero della Salute.

In generale la percentuale di occupazione negli ospedali è molto più bassa rispetto alla seconda e alla terza ondata dell’epidemia. Anche in questo caso è bene notare che da sempre questo indicatore ha qualche problema.

Come segnala Pagella Politica, tra i “pazienti Covid-19”, sono conteggiati solo i pazienti positivi al coronavirus e non i pazienti negativizzati, che sono stati ricoverati per le conseguenze del virus nei giorni successivi al contagio. Inoltre già da tempo molti osservatori hanno notato la limitata affidabilità delle statistiche sull’occupazione ospedaliera, che è legata al numero di posti letto teoricamente disponibili, deciso dalle regioni e non sempre attendibile, magari gonfiato per evitare nuove restrizioni.

La pressione inferiore sulle terapie intensive rispetto alle prime tre ondate dell’epidemia si nota anche nel confronto tra l’andamento dei ricoverati in Italia e in altri paesi europei. In questo grafico viene mostrata l’incidenza dei pazienti di terapia intensiva ogni milione di persone in Italia, Spagna, Francia, Regno Unito e Germania, dove i malati in gravi condizioni sono in crescita, ma non ancora al livello della seconda e della terza ondata.

C’è poi da considerare un’ultima grande differenza tra oggi e un anno fa, e che dimostra nuovamente l’importanza dei vaccini: cioè che ci si sposta molto di più.

È permesso muoversi da una regione all’altra, andare sui mezzi pubblici senza limiti di capienza, assistere alle partite allo stadio, andare al cinema e a teatro, tra le altre cose. E molte persone sono tornate a lavorare in ufficio. Gli stessi casi settimanali di un anno fa, con una più ampia libertà di spostarsi e condurre una vita sociale normale, oggi causano molte meno conseguenze e morti nei paesi in cui la campagna vaccinale è più estesa.

Lo studio pubblicato dall’Istituto superiore di sanità, dal ministero della Salute e dalla Fondazione Bruno Kessler individua anche la principale strategia per il «ritorno alla vita pre-pandemia», che consiste nell’estendere la campagna vaccinale con vaccini a mRNA a oltre il 90 per cento della popolazione considerando tutte le persone con più di 5 anni.

Finora in Italia il 76,8 per cento della popolazione ha completato il ciclo vaccinale. Considerando tutta la popolazione italiana, comprese le persone non vaccinabili perché hanno meno di 12 anni, 14 milioni di individui non hanno ricevuto il vaccino.

È difficile comunque fare previsioni accurate per il futuro, anche perché vanno considerati i primi dati che mostrano il calo dell’efficacia della vaccinazione sulla protezione contro l’infezione.

L’Associazione italiana di epidemiologia ha analizzato i dati dell’Istituto superiore di sanità che negli ultimi trenta giorni ha rilevato 40.182 casi di infezione nelle persone non vaccinate (48 casi ogni 10.000 persone) e 52.016 nelle persone completamente vaccinate (12 per 10.000 persone): in particolare, il tasso di incidenza nei vaccinati è pari a 21 casi per 10mila persone se la seconda dose è stata ricevuta da più di 6 mesi e di 11 casi per 10mila persone se da meno.

«Se è vero che, dopo sei mesi dalla seconda dose, si conferma una buona efficacia delle vaccinazioni nella protezione della malattia sintomatica, superiore all’80%, va evidenziato che invece l’efficacia nella protezione dal contagio scende globalmente al 50%», si legge nell’articolo pubblicato dall’associazione su Scienza in rete. «La metà della popolazione vaccinata prima del mese di giugno 2021 risulterebbe pertanto nuovamente suscettibile all’infezione. Questo dato sostiene e supporta gli sforzi che in queste settimane si stanno compiendo per la somministrazione della dose di richiamo, cosiddetta dose booster».