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  • Sabato 6 novembre 2021

La controversa scelta di Sophie Pétronin, ex ostaggio

La cooperante francese era stata rapita nel 2016 e tenuta in ostaggio per quattro anni in Mali: ci è tornata pochi mesi dopo la liberazione

Sophie Petronin con il figlio Sebastien Chadaud-Petronin, durante una conferenza stampa dopo la sua liberazione nel 2020 (Stringer/Le Pictorium Agency via ZUMA Press)
Sophie Petronin con il figlio Sebastien Chadaud-Petronin, durante una conferenza stampa dopo la sua liberazione nel 2020 (Stringer/Le Pictorium Agency via ZUMA Press)

In Francia sta facendo molto discutere la decisione di Sophie Pétronin, una cooperante di 76 anni che era stata liberata a ottobre 2020 dopo essere rimasta per quattro anni in ostaggio di un gruppo jihadista in Mali. Dopo la sua liberazione, Pétronin è rimasta in Europa per pochi mesi: poi è tornata in Mali. Il portavoce del governo francese l’ha accusata questa settimana di «irresponsabilità nel confronti della propria sicurezza e di quella delle nostre truppe» nel paese e la sua storia sta facendo molto discutere.

Pétronin si era trasferita in Mali nel 2001. Viveva nella città di Gao, dove aveva fondato una ong, Assotiation Aide à Gao, che tuttora gestisce un orfanotrofio e assiste bambini che soffrono di malnutrizione. Dopo essere sfuggita a un tentativo di sequestro nel 2012, nel 2016 era stata rapita da un gruppo jihadista affiliato ad al Qaida mentre si trovava nell’orfanotrofio che aveva fondato. Tra il 2017 e il 2018 i rapitori avevano diffuso tre video che la mostravano: nel terzo, Pétronin si rivolgeva direttamente a suo figlio, al governo francese, e al presidente Emmanuel Macron, chiedendo aiuto.
Nel 2020, a ottobre, era stata liberata insieme a Soumaila Cissé, ex ministro e capo dell’opposizione del Mali (poi morto di Covid-19) e due ostaggi italiani, Pierluigi Maccalli e Nicola Chiacchio. In cambio della loro liberazione, il governo del Mali aveva rilasciato circa 200 jihadisti.

Pétronin era tornata in Francia, dove era stata accolta personalmente da Macron; si era poi trasferita in Svizzera, dove viveva suo figlio, Sébastien Chadaud-Pétronin. Era stata da subito piuttosto chiara sul suo desiderio di tornare in Mali: «È da quattro anni che non so come vanno i progetti dell’associazione», aveva detto poco dopo la liberazione. Aveva inoltre spiegato di voler tornare anche per ricongiungersi con la propria figlia adottiva Zeinabou, ventenne, che continuava a vivere in Mali.

Aveva cercato più volte di ottenere un visto per il Mali, sia in Francia sia in Svizzera, ma non l’aveva ottenuto. Nel marzo 2021, quindi, era andata in Senegal con il figlio, e aveva poi superato il confine con il Mali via terra, stabilendosi con la figlia a Bamako, la capitale (e non più a Gao, la città dove viveva al tempo del rapimento, che si trova nella parte orientale del paese, già nel deserto, ed è meno sicura).
«Le autorità svizzere sapevano benissimo che era partita e sia il Mali che la Francia sapevano che era tornata [in Mali]. Ora vive nella capitale, fa una vita riservata ma non si nasconde, va a fare la spesa, per esempio. Spesso la gente la riconosce per strada» ha raccontato a Le Monde Anthony Fouchard, giornalista e autore del libro Il suffit d’un espoir (più o meno: Tutto ciò che serve è la speranza) che racconta la prigionia di Pétronin. Il figlio, inoltre, ha spiegato che sua madre ora si sposta con una guardia del corpo.

Un funzionario del governo francese sentito da Le Monde ha sostenuto che era stato fatto di tutto per evitare che Pétronin tornasse in Mali, e che erano state avviate tutte le procedure per far sì che la figlia adottiva potesse venire in Francia, ma «è stata Petronin a dire basta a gennaio».

La sua presenza in Mali – di fatto segreta per mesi – è diventata improvvisamente di dominio pubblico in questi ultimi giorni. È successo perché il 30 ottobre ha cominciato a circolare sui social network una comunicazione diffusa dal direttore generale della polizia del Mali, in cui si esortavano «tutte le unità» a cercare «attivamente la signora Sophie Pétronin, ex ostaggio», riportando segnalazioni che la individuavano nella città di Sikasso, a circa 350 km da Bamako, nel sudest del paese. Nel caso fosse stata trovata, si invitava a «fermarla e condurla sotto scorta» a Bamako.

Parlando con RFI i suoi familiari dicono che non sanno spiegarsi perché la polizia la cerchi: aggiungono che Pétronin non è mai stata a Sikasso, che è sempre rimasta nell’area di Bamako e che non intende tornare a Gao. Sempre a RFI, un funzionario del ministero della Sicurezza del Mali ha spiegato che la polizia vuole semplicemente interrogarla per «chiarire alcune ambiguità», ma non ha specificato se gli aspetti da chiarire siano le modalità del suo ingresso in Mali o in generale la sua presenza nel paese.

In un’intervista con la tv BFM-TV, rispondendo al commento del portavoce del governo francese, il figlio Sébastien ha detto: «Non è nel deserto. Non sta correndo rischi. La cosa irresponsabile è inventarsi che sia tornata dai suoi rapitori nel Mali del nord, e che stia mettendo in pericolo la vita dei “nostri soldati”».
Ha sottolineato che sua madre in Europa era molto infelice, e che voleva tornare in Mali perché ci aveva vissuto e lavorato per 16 anni, prima di essere rapita. «Ha vissuto là per 20 anni, là c’è un pezzo della sua vita». Ha aggiunto che la settimana prossima andrà a Bamako per verificare le sue condizioni di sicurezza e per incontrare alcuni funzionari dell’ambasciata francese; spera anche di avere un incontro con le autorità del Mali.
«È una donna anziana nell’autunno della sua vita: vuole soltanto essere nel luogo in cui si sente più a suo agio. Spero che i maliani le offrano un posticino nella loro comunità, vuole soltanto che tutti si dimentichino di lei».

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