La storia del libro clandestino su cui hanno studiato tutti i jazzisti

Il “Real Book” fu pubblicato negli anni '70 da due studenti che raccolsero gli spartiti più famosi, poi arrivò ovunque

Caricamento player

Praticamente qualunque musicista che abbia studiato o suonato la musica jazz negli ultimi cinquant’anni lo ha fatto almeno in parte sugli spartiti di una raccolta clandestina pubblicata a partire dagli anni Settanta e diventata nel corso dei decenni un’istituzione e una specie di codice estetico della notazione musicale. Il Real Book, realizzato originariamente da due studenti del Berklee College di Boston, si chiamava così perché era una versione più accurata delle decine di “fake book” (libri falsi) in circolazione prima di allora, e senza pagare i diritti di proprietà intellettuale agli autori delle canzoni fornì un indispensabile strumento a generazioni di jazzisti di tutto il mondo, Italia compresa.

Il Real Book è sopravvissuto infatti fino ad oggi, e ne esiste anche una versione “ufficiale” dal 2004, la prima che ha infine legalizzato la raccolta. Ma la clandestinità non frenò mai il successo del libro, che per anni fu venduto sottobanco nei negozi di dischi e strumenti di tutto il mondo, e soprattutto passato di mano in mano tra musicisti e aspiranti tali, sotto forma di plico di fotocopie, di CD-ROM o di raccolta di file pdf. Il font del titolo, e la riconoscibile e pulita grafia con cui sono annotati i brani, lo hanno reso un oggetto familiare e caro agli appassionati e ai musicisti.

Prima del Real Book però c’erano i fake book. Il jazz, nato alla fine dell’Ottocento tra i discendenti delle persone tenute in schiavitù nel sud degli Stati Uniti, era diventato in fretta un genere caratterizzato dall’improvvisazione, e quindi basato sull’assenza di note scritte e sulla libertà dei solisti. Ma quelli che venivano suonati erano comunque brani e canzoni, con un tema iniziale e una progressione di accordi precisi, che introducevano e accompagnavano poi gli assoli improvvisati, e che quindi erano noti e condivisi tra i musicisti.

I brani più suonati e reinterpretati presero il nome di “standard”: “All the things you are”, “Summertime”, “Autumn Leaves”, “On Green Dolphin Street”, per citare alcuni dei più famosi.

– Leggi anche: Tutto quello che la musica americana deve a Louis Armstrong

I jazzisti avevano prevalentemente una formazione “orale”, conoscevano a memoria le note e gli accordi di tantissimi brani ed erano sempre pronti a suonare qualsiasi standard senza preavviso: era una competenza richiesta, importante in certi contesti più che saper fare dei buoni assoli.

Fino agli anni Quaranta, la maggior parte dei gruppi jazz erano delle big band molto collaudate che suonavano insieme ogni sera, e che quindi potevano preparare con cura i brani da suonare. Ma con l’arrivo del be bop, il genere inventato dalla generazione di Charlie Parker e Dizzie Gillespie, diventarono popolari formazioni più ridotte di musicisti, che cambiavano ogni sera, con la necessità quindi di mettersi d’accordo ogni volta su quale versione di uno standard, visto che ne esistevano quasi sempre diverse.

Da sinistra: Tommy Potter, Charlie Parker, Miles Davis e Duke Jordan, in concerto al Three Deuces di New York nel 1947. (William P. Gottlieb/Library of Congress)

Si diffusero quindi raccolte di spartiti che i musicisti si portavano dietro a ogni concerto, anche se per motivi pratici questi plichi erano spesso difficili o impossibili da consultare sul palco.

Come ha spiegato il podcast americano 99% Invisible, per questo qualcuno cominciò a usare il “Tune-Dex”, una raccolta di canzoni messa insieme negli anni Quaranta in ambito radiofonico: aveva un indice, le informazioni su ciascun brano e uno spartito sommario, che serviva a chi metteva i dischi per seguire la musica, per le entrate e le uscite. Il loro scopo principale, in realtà, era fare ordine sui diritti d’autore di ciascuna canzone, in modo che le stazioni potessero capire più facilmente quali case discografiche dovevano pagare per riprodurle.

– Leggi anche: Tutti seguirono Charlie Parker

Il “Tune-Dex” si diffuse così tra i musicisti di jazz che avevano bisogno di una raccolta pratica a cui fare ricorso quando dovevano suonare senza preavviso un brano che non conoscevano, o che non si ricordavano bene. Gli spartiti erano essenziali, a volte sbilenchi, alcuni proprio sbagliati, ma erano comunque d’aiuto per identificare almeno le tonalità e le sequenze di accordi, a grandi linee.

Questa fase però durò poco: qualcuno capì in fretta che organizzando meglio quelle raccolte poteva venir fuori un business. Fu così che nacquero i primi fake book, realizzati e venduti direttamente per i musicisti.

Le case discografiche provarono a fermare il fenomeno, cercando di riscuotere i diritti sugli spartiti, ma senza molto successo: negli anni Cinquanta e Sessanta queste raccolte diventarono popolari, anche se gli spartiti continuavano a essere confusi e scritti male – anche graficamente, con problemi di leggibilità. Il jazz, poi, stava evolvendo con enorme rapidità: la musica che si suonava nello stesso locale di Manhattan un’estate era molto diversa da quella dell’estate precedente. Questo rese i fake book sempre meno pratici, perché rimanevano perlopiù compilati all’inizio degli anni Quaranta, prima dell’arrivo di quei grandi musicisti che avevano stravolto il modo in cui si pensavano e suonavano gli standard.

Tra gli anni Sessanta e Settanta, il jazz si istituzionalizzò, e nelle tante scuole di musica che lo insegnavano c’era l’esigenza di raccolte di spartiti. Fu in questo contesto che due studenti del Berklee College of Music, tra le più importanti del mondo e tra le prime ad avere un corso di jazz, proposero a un loro insegnante di aiutarli ad adattare i fake book al jazz contemporaneo. L’insegnante era Steve Swallow, un famoso bassista fusion, che promise di non rivelare mai l’identità dei due studenti, per proteggerli da rogne legali: accettò di condividere con loro gli spartiti di alcuni suoi brani, e chiese di fare lo stesso ad altri insigni colleghi che accettarono.

– Leggi anche: Il jazz per tutti di Dave Brubeck

I due studenti cominciarono così a mettere assieme il primo Real Book: volevano che trasmettesse un’idea aggiornata del jazz, che rispondesse alle reali esigenze dei musicisti e degli studenti dell’epoca, e quindi che contenesse le versioni degli standard suonate per esempio da Miles Davis, Herbie Hancock, Sonny Rollins, e non quelle precedenti alla rivoluzione del be bop. 

Dalle loro versioni iniziali, gli standard degli anni Venti e Trenta infatti erano ormai suonati in modo differente, con cambi di accordi più sofisticati e innovativi, e con melodie che a volte si erano affermate con qualche modifica rispetto a quelle originali. I due studenti, ascoltando un’enorme quantità di dischi, le raccolsero e le trascrissero lavorando anche sull’aspetto grafico, molto più pulito e ordinato rispetto ai fake book: i testi e le note furono scritti a mano, con uno stile facile da leggere e allo stesso tempo attraente ed elegante.

Lo spartito di “Autumn Leaves” nel Real Book.

Nel 1975, il primo Real Book era pronto. Conteneva molti errori, ma era comunque il più ampio e accurato lavoro di questo tipo mai fatto.

I due studenti lo portarono in copisteria e ne fecero centinaia di copie, che cominciarono a vendere ad altri studenti e ai negozi di dischi e strumenti. Presto diventò un oggetto desiderato e fondamentale, prima tra i musicisti di Boston e poi di tutti gli Stati Uniti, ma i due studenti non avevano previsto una cosa: quasi subito cominciarono a circolarne copie “non autorizzate”, fotocopiate da altri e vendute parallelamente. La loro stessa idea di far circolare clandestinamente la raccolta, in un certo senso, gli si ritorse contro, anche perché non ne avevano previsto il successo e non ne avevano stampate da subito abbastanza copie.

La prima edizione del Real Book fu seguita da altre due versioni che ne corressero alcuni errori e che ampliarono la selezione di standard. La raccolta diventò di fatto il testo scritto più importante per i musicisti jazz, usato nelle scuole e perfino dai più grandi musicisti al mondo. Per molti versi, contribuì a dare omogeneità al modo in cui si suonano gli standard, secondo alcuni esperti anche con effetti negativi: l’insegnante della Berklee Carolyn Wilkins, parlando con il podcast 99% Invisible, ha spiegato che il Real Book ha trasmesso per certi versi l’idea che quelle che contiene siano le versioni giuste dei pezzi, quando in realtà un aspetto importantissimo del jazz è che non c’è un modo esatto di suonare un pezzo, ma potenzialmente infiniti. È vero però, ha detto Wilkins, che il Real Book è molto utile per dare agli studenti qualcosa di omogeneo da cui partire per studiare il genere.

Nel 2004 Hal Leonard, proprietario della più grande casa editrice di spartiti musicali al mondo, decise di fare la versione legale del Real Book. Ottenne i diritti su quasi tutti gli standard dell’edizione originale, e lo pubblicò imitandone il logo e la grafia e identificandolo come “sesta edizione”, quindi riconoscendo di fatto le cinque clandestine uscite in precedenza. Da allora ne sono uscite altre edizioni, e la più importante raccolta di spartiti del jazz è acquistabile anche legalmente, anche se la versione clandestina continua a circolare estesamente.