L’incredibile storia dell’esperimento Kentler

Nella Germania Ovest degli anni Settanta alcuni bambini furono affidati a una rete di pedofili con l'approvazione dei servizi sociali e di uno stimato sessuologo, racconta il New Yorker

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Materassi e coperte nei dintorni della stazione ferroviaria dello zoo di Berlino, in Germania, il 29 gennaio 2020 (Maja Hitij/Getty Images)
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Helmut Kentler è stato uno psicologo, sessuologo e sociopedagogista tedesco, e uno stimato docente all’Università di Hannover tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta. Oltre a svolgere attività di ricerca, ha scritto numerosi libri sull’educazione sessuale e sulla genitorialità, ha svolto incarichi da perito in cause di affidamento ed è stato frequentemente citato da giornali e trasmissioni televisive in qualità di esperto. Il suo lavoro si è prevalentemente concentrato sul concetto di libertà sessuale e sul superamento di un modello educativo molto diffuso in Germania prima e durante il nazifascismo e largamente improntato sulla repressione delle pulsioni sessuali.

Le teorie di Kentler sono da alcuni anni oggetto di una profonda revisione, dopo essere state ritenute la base di un controverso esperimento sociale condotto dallo stesso Kentler e autorizzato e sostenuto finanziariamente dal Senato di Berlino nei primi anni Settanta. L’esperimento portò numerosi bambini e ragazzi – perlopiù orfani e indigenti minorenni – a essere dati in affidamento in case-famiglia gestite da adulti pedofili in diversi quartieri della città.

Nel 2015, a seguito di una richiesta di indagini da parte del Senato di Berlino, la politologa Teresa Nentwig, dell’Istituto per la ricerca sulla democrazia di Göttingen, è stata incaricata di condurre ricerche più approfondite sugli abusi subiti per anni dai bambini e ragazzi affidati ai pedofili e sui legami tra Kentler e l’ente statale tedesco per l’assistenza e la tutela dei minori (Jugendamt). Sandra Scheeres, a capo della Commissione del Senato per l’Istruzione, la Gioventù e la Famiglia, ha definito l’“esperimento Kentler” «un crimine sotto la responsabilità dello Stato».

Parlando con Nentwig e con una persona vittima di abusi di nome Marco, il New Yorker ha recentemente ricostruito la storia di Kentler e dei suoi legami con una vasta rete di pedofili che presero parte all’esperimento, con l’approvazione di almeno una parte delle istituzioni coinvolte. I molti punti oscuri di questa storia sono oggi oggetto di discussioni e anche di strumentalizzazioni politiche in parlamento, oltre che di un dibattito esteso nell’opinione pubblica.

L’infanzia di Marco
Marco – un uomo di 38 anni, sposato e padre di due figli – ha raccontato che un giorno, nel 2017, riconobbe in un articolo di giornale la fotografia di Kentler, scoprendo soltanto in quell’occasione che era stato un importante e rispettato professore dell’Università di Hannover. Per Marco, cresciuto in affidamento fino all’età di ventuno anni in casa di un ingegnere chiamato Fritz Henkel, Kentler era una faccia conosciuta soltanto per le conversazioni che da bambino aveva ogni tanto con lui. Era lo stesso Henkel a portare periodicamente Marco e il suo fratello adottivo, Sven, a casa di Kentler.

«Lo misi da parte. Non reagii emotivamente. Continuai a fare quello che faccio ogni giorno», ha detto Marco ricordando gli attimi successivi alla lettura di quell’articolo.

Diversi mesi dopo cercò e trovò il numero di Teresa Nentwig, la politologa che aveva scritto il rapporto su Kentler citato nell’articolo che aveva letto, e le telefonò identificandosi come «una persona interessata». Le disse che suo padre adottivo, Henkel, aveva parlato al telefono con Kentler ogni settimana per anni, e che Kentler fu molto coinvolto nell’educazione dei giovani abitanti della casa di Henkel. «Sei la prima persona a cui racconto la mia storia», le disse.

Nentwig rimase molto sorpresa. A quanto ne sapeva, gli esperimenti di Kentler erano terminati alla fine degli anni Settanta, e Marco sosteneva di aver lasciato la sua casa-famiglia nel 2003. Poche settimane dopo, Marco contattò il suo fratello adottivo Sven, uno dei bambini con cui era cresciuto in casa di Henkel, e gli disse di aver scoperto che erano stati parte di un esperimento. Ma Sven, ha ricordato Marco, non gli sembrò in grado di elaborare quell’informazione. «Dopo tutti quegli anni, avevamo perso l’abitudine di pensare», ha detto.

Quando aveva cinque anni, nel 1988, e abitava nel quartiere Schöneberg di Berlino con suo fratello maggiore e sua madre, Marco fu investito da una macchina dopo aver attraversato da solo la strada. L’incidente non gli causò gravi ferite, fortunatamente, ma attirò le attenzioni dell’ufficio locale della Jugendamt, l’ente di assistenza all’infanzia sovvenzionato dal governo e con uffici autonomi dislocati nei vari distretti urbani, senza un coordinamento amministrativo centrale.

Marco e suo fratello andavano all’asilo con i vestiti sporchi e restavano lì per undici ore al giorno. La madre, una ragazza con difficoltà economiche che lavorava in un chioschetto di salsicce, e il padre, un rifugiato palestinese, avevano divorziato, e lei era rimasta da sola con i bambini. Gli assistenti sociali stabilirono che «non era in grado di dare a Marco le necessarie attenzioni emotive», e raccomandarono di far crescere il bambino in una casa con un’«atmosfera familiare».

Marco fu quindi assegnato a Henkel, un single di 47 anni che integrava il suo reddito da affidatario riparando jukebox e dispositivi elettronici. Abitava in una casa con cinque camere da letto, al terzo piano di un edificio storico in una delle vie principali di Friedenau, un quartiere di lusso frequentato da politici e scrittori.

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In sedici anni, Henkel aveva avuto in affidamento otto bambini e ragazzi, prima di Marco. Nel 1979, era stata aperta un’indagine su di lui in seguito alla segnalazione di un assistente sociale, che aveva osservato un’apparente «relazione omosessuale» tra Henkel e uno dei suoi figli adottivi. Secondo una dinamica ricorrente nei casi analizzati dalla politologa Nentwig, Kentler era intervenuto in difesa di Henkel, sostenendo di conoscerlo da tempo in seguito a un «progetto di ricerca», e l’indagine era stata archiviata.

Kentler – all’epoca definito dal quotidiano Die Zeit «la principale autorità nazionale in materia di educazione sessuale» – aveva elogiato le qualità di Henkel come genitore affidatario e screditato l’assistente sociale, accusandolo di «interpretazioni assurde».

Al momento del suo arrivo a casa di Henkel, Marco trovò altri due figli adottivi, un sedicenne e un ventiquattrenne, che non legarono molto con lui. Fu comunque molto felice di scoprire che all’interno di un armadio, in corridoio, c’era una gabbia con due conigli da poter accudire e con cui giocare. Di tanto in tanto, Henkel caricava in macchina i suoi figli adottivi e li portava in visita da Kentler ad Hannover, in modo da permettere a lui di conversare con loro e tenere traccia del loro sviluppo.

Un anno e mezzo dopo l’arrivo di Marco, a Henkel fu affidato Sven, un bambino di 7 anni che diceva di provenire dalla Romania e che la polizia aveva trovato solo e malato di epatite a girovagare in una stazione metropolitana di Berlino. Parlando con Rachel Aviv, la giornalista del New Yorker autrice dell’articolo, Marco ha ricordato che rispetto a lui Sven era il bambino più buono e più docile, ma che sia lui che Sven dovevano a un certo punto accondiscendere alle richieste di natura sessuale di Henkel, sebbene non ne abbiano mai parlato tra loro. «Accettavo questa cosa soltanto per lealtà, perché non sapevo nient’altro. Non pensavo che quello che succedeva fosse una cosa buona, ma pensavo fosse normale. La vedevo un po’ come il cibo. Le persone hanno gusti differenti riguardo al cibo, così come alcune hanno gusti differenti riguardo alla sessualità», ha detto Marco.

Alla madre e al fratello di Marco era permesso fargli visita circa una volta al mese, ma spesso Henkel, aiutato dall’intercessione e dal parere autorevole di Kentler, riusciva ad annullare l’appuntamento sostenendo che quelle visite fossero destabilizzanti per il bambino. Il padre di Marco non poteva vederlo affatto, perché – stando a quanto riferito all’epoca da Henkel agli assistenti sociali – Marco ne era terrorizzato e sosteneva di essere stato picchiato da lui, prima del divorzio con la madre. Durante gli incontri previsti per i bambini con gli psicoterapeuti infantili, Henkel rimaneva sempre poco distante, pronto a intervenire, e una volta ebbe uno scontro fisico con uno di loro.

Fu Kentler, ancora una volta, a usare la sua influenza e il suo carisma per fornire un resoconto in grado di condizionare gli assistenti sociali. Sebbene Henkel apparisse come un uomo «duro e offensivo», scrisse Kentler, «vi chiedo di considerare che un uomo che si occupa di bambini così gravemente danneggiati non è una “persona semplice”, e ciò di cui ha bisogno dalle autorità è fiducia e protezione».

Nel marzo 1992, quando Marco aveva nove anni, si tenne in un tribunale a Berlino un’udienza su richiesta dei suoi genitori, che desideravano trascorrere più tempo con lui. Il padre aveva detto all’ufficio della Jugendamt che non capiva la ragione per cui suo figlio stesse crescendo in una «famiglia di estranei». Il giudice chiese di parlare in privato con Marco, ma i documenti esistenti alimentano il sospetto che le risposte di Marco fossero state preparate. Quando il giudice gli chiese se desiderasse vedere la madre, Marco rispose «non spesso» e suggerì che una volta all’anno sarebbe stato meglio, e con «Papa» [il nome con cui chiamava Henkel] sempre presente. Marco spiegò inoltre al giudice che aveva paura del suo padre biologico.

Alla fine dell’udienza Kentler spedì una lettera al giudice in cui, «per il bene del bambino», suggeriva la completa sospensione di tutti i contatti con la famiglia di origine per due anni. Sosteneva che Marco avesse bisogno di mantenersi a distanza dagli uomini di quella famiglia, suo padre e suo fratello, perché esercitavano su di lui una cattiva influenza. Descrisse il padre di Marco come un uomo autoritario, violento e maschilista, pur non avendolo mai incontrato.

In occasione della prima visita di sua madre dopo l’udienza, Marco le disse che non voleva vederla perché non andava d’accordo con Papa e rifiutò un suo regalo. Un anno e mezzo dopo, il padre di Marco scrisse all’ufficio della Jugendamt chiedendo di poter salutare suo figlio prima di trasferirsi in Siria. Non esistono tracce di una risposta a quella richiesta.

Gli studi di Kentler
La carriera accademica di Kentler, scrive il New Yorker, fu profondamente segnata dalle sue idee riguardo ai danni provocati dalle figure paterne dominanti. Suo padre era stato un sottotenente durante la Prima guerra mondiale ed era un convinto sostenitore di un metodo educativo basato sulla repressione e sull’autoritarismo, reso popolare nell’Ottocento dagli scritti pedagogici del medico tedesco Moritz Schreber, definito dal suo biografo «un precursore spirituale del Nazismo».

«Avevo un solo desiderio: che prendesse la mia mano e la tenesse nella sua», scrisse una volta Kentler riguardo a suo padre. In un suo libro del 1989 intitolato Leihväter. Kinder brauchen Väter (“Padri in prestito. I bambini hanno bisogno di padri”), raccontò un episodio risalente alla notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, la “Notte dei Cristalli”. Svegliato dai rumori nella loro casa, a Düsseldorf, il padre di Kentler telefonò alla polizia e rimase a lungo al telefono. «Stanno prendendo gli ebrei», disse alla moglie, dopo aver riagganciato.

A un certo punto bussarono alla porta: era la famiglia ebrea – madre, padre e tre figli – che viveva al piano di sotto. Il loro appartamento era stato distrutto e chiesero ospitalità per una notte al padre di Kentler. «No, questo non è proprio possibile», rispose lui, ancora in camicia da notte, e richiudendo la porta di casa. «Improvvisamente, di mio padre mi sembrò ridicola ogni cosa», scrisse Kentler. Poco tempo dopo, suo padre fu richiamato in servizio e loro furono trasferiti a Berlino. Quando tornò a casa, alla fine della guerra, era «un uomo distrutto». E Kentler, che all’epoca aveva diciassette anni, non gli obbedì mai più.

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Cercando di inquadrare meglio le teorie di Kentler, il New Yorker descrive il contesto culturale del dopoguerra nella Germania dell’Ovest, «segnato da un’intensa preoccupazione per la decenza sessuale, come se il decoro potesse risolvere la crisi morale della nazione e purificarla dalla colpa». Gli incontri omosessuali continuarono a essere vietati anche dopo il nazismo, e Kentler scrisse che si sentiva come se avesse sempre avuto «una gamba in prigione». Dopo essersi laureato in psicologia all’Università di Hannover, nel 1960, cominciò a frequentare i movimenti studenteschi e dichiarò apertamente e per la prima volta di essere gay.

«Come molti suoi contemporanei, arrivò a credere che la repressione sessuale fosse la chiave per comprendere la coscienza fascista», scrive il New Yorker a proposito degli studi accademici di Kentler, influenzati dalle ricerche dello psichiatra austriaco Wilhelm Reich, peraltro allievo di Sigmund Freud, sulla sessualità nel nazifascismo. Kentler sosteneva che le teorie di Schreber sull’educazione repressiva avessero condizionato tre generazioni di tedeschi e prodotto «personalità autoritarie», e che la libertà sessuale fosse il modo migliore per «prevenire un’altra Auschwitz».

Sulla spinta di queste riflessioni, alla fine degli anni Sessanta, in più di trenta città e paesi tedeschi furono costruiti asili nido sperimentali in cui i bambini restavano nudi e lasciati liberi di esplorare l’uno il corpo dell’altro. «Non c’è dubbio che stessero cercando (in una sorta di disperato antiautoritarismo autoritario neo-rousseauiano) di ricreare la natura tedesca/umana», ha scritto la storica tedesca Dagmar Herzog. E Kentler, racconta il New Yorker, era uno degli autori più conosciuti e influenti in questo movimento culturale impegnato nel disfare l’eredità sessuale del nazifascismo.

Kentler cominciò a lavorare a contatto con eroinomani, giovani prostitute e ragazzini scappati di casa, molti dei quali si riunivano in quegli anni nella famosa stazione ferroviaria dello zoo, il principale snodo dei trasporti a Berlino Ovest. Parlando con uno di quei ragazzini, scoprì un legame tra alcuni di loro e un pedofilo che chiamavano “Madre Inverno” e dal quale ricevevano cibo e abiti puliti in cambio di sesso. Riflettendo su quelli che considerò gli aspetti positivi di quel tipo di relazioni, riuscì a chiarirli ed esporli in alcune sue pubblicazioni e a richiedere e ottenere da un funzionario incaricato del Senato di Berlino, l’organo esecutivo del governo della città, l’autorizzazione a creare case-famiglia nelle abitazioni di diversi pedofili situate nei quartieri nelle vicinanze della stazione.

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La stazione ferroviaria dello zoo di Berlino, il 22 ottobre 2010 (Andreas Rentz/Getty Images)

In uno dei suoi libri, Kentler scrisse che all’epoca il Senato di Berlino era ansioso di trovare soluzioni ai «problemi della vita della nostra società», per «confermare e mantenere la reputazione di Berlino come avamposto di libertà e umanità». Il New Yorker ipotizza che i politici si mostrarono ricettivi rispetto a queste iniziative «perché il progetto sembrava essere l’opposto degli esperimenti dei nazisti, con la loro rigida enfasi riguardo alla propagazione di certi tipi di famiglie». «O forse erano indifferenti perché, secondo loro, quei ragazzi erano già perduti».

Invitato anni dopo al parlamento tedesco, a proposito di una discussione sulla proposta di depenalizzazione dell’omosessualità, nel 1981, Kentler parlò anche dei risultati di quei suoi esperimenti. Disse che prima di entrare nelle famiglie affidatarie alcuni di quei ragazzi erano stati così trascurati da non aver mai imparato a leggere né a scrivere. E, a proposito dei loro padri adottivi, disse: «queste persone hanno sopportato questi ragazzi deboli di mente soltanto perché erano innamorati di loro».

Se ci sono mai stati negli archivi della città di Berlino registri che documentino come il progetto di Kentler sia stato approvato o come lui abbia fatto esattamente a individuare i padri adottivi adatti al suo progetto, scrive il New Yorker, «quei registri sono stati persi o distrutti».

Secondo un rapporto preliminare del 2020 commissionato dal Senato di Berlino a un gruppo di studiosi dell’Università di Hildesheim, esistono comunque prove sufficienti per ritenere che «il Senato gestisse case adottive o appartamenti condivisi per giovani berlinesi con uomini pedofili in altre parti della Germania Ovest», e che «queste famiglie adottive fossero a volte gestite da uomini potenti che vivevano da soli e che ricevevano questo potere dal mondo accademico, dagli istituti di ricerca e da altri ambienti che accettavano, sostenevano o addirittura vivevano condizioni di pedofilia».

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Kentler, che è morto nel 2008, viveva da solo con tre figli adottivi. La psicoterapeuta e scrittrice Karin Désirat, che si è detta molto riconoscente verso Kentler per il sostegno che le offrì durante la sua carriera professionale, ha detto che due dei tre figli adottivi di Kentler le confidarono una volta di aver subìto abusi sessuali da lui. Lei li indirizzò verso un terapeuta che non era in rapporti con Kentler, ma i ragazzi preferirono non rivelare la storia degli abusi. In una lettera a un collega, nel 1985, Kentler scrisse di vivere da tredici anni «un’appagante storia d’amore» con uno dei suoi figli adottivi, ventiseienne. Quel ragazzo morì suicida nel 1991.

L’arrivo di Kramer
Quando Marco aveva undici anni, a casa di Henkel arrivò un nuovo figlio adottivo, un bambino coetaneo di Marco chiamato Marcel Kramer e affetto da tetraparesi spastica, una condizione congenita che paralizza la muscolatura volontaria di tutti gli arti. Marco e Sven diventarono i custodi di Kramer, che a causa della sua malattia non era in grado di camminare, parlare o mangiare da solo. Lo imboccavano tutti i giorni, e gli pulivano le vie respiratorie asportando il muco con un tubo di aspirazione.

Marco ha detto che Kramer fu la prima persona in anni verso la quale provò dei sentimenti. A scuola non aveva buoni rapporti con nessuno, e anzi si cacciava spesso nei guai, saltava le lezioni e studiava poco. Ha detto che era lo stesso Henkel a incoraggiarlo ad avere comportamenti aggressivi.

Dopo la pubertà, Marco iniziò ad allenarsi in modo da essere abbastanza forte da potersi difendere, e una notte, mentre Henkel tentò di avvicinarsi per accarezzarlo, Marco lo colpì a una mano. Da quella volta Henkel smise di provare a molestarlo ma cominciò ad avere comportamenti punitivi, come chiudere a chiave la porta della cucina per impedire a Marco di mangiare di notte.

Dopo aver compiuto 18 anni, Marco fu legalmente libero di lasciare casa di Henkel ma non gli venne in mente di andarsene. «È una cosa molto difficile da descrivere, ma non sono mai stato educato a pensare in modo critico a niente, avevo la mente vuota», ha detto al New Yorker. Un giorno, nel 2001, Kramer si prese l’influenza, e le sue condizioni si aggravarono nel giro di un paio di giorni. Marco, che per anni aveva controllato e verificato ogni notte che Kramer respirasse, gli rimase accanto tutto il tempo. Henkel, che aveva sempre cercato di evitare di ricorrere al medico per i suoi figli adottivi, si convinse quando era troppo tardi perché Kramer non poteva più essere rianimato. «Lo stavo guardando negli occhi quando è morto», ha ricordato Marco.

Nei documenti relativi all’affidamento, un impiegato dell’ufficio dei servizi sociali scrisse che «Marcel Kramer è morto inaspettatamente la scorsa notte, senza segni di precedenti infezioni». Henkel aveva all’epoca 60 anni e, come riportato in una nota successiva dello stesso ufficio, chiese di poter accogliere un altro bambino. La richiesta non fu accolta, e Henkel chiuse definitivamente la casa-famiglia nel 2003.

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Marco aveva 21 anni e non aveva un posto in cui vivere: trascorse tre notti dormendo su una panchina in un parco. Poi, con l’aiuto di un ente di beneficenza per giovani senzatetto, riuscì a trasferirsi in un appartamento in una casa popolare. Anche Sven andò a vivere da solo in un appartamento, a Berlino, ma a differenza di Marco rimase in contatto con Henkel. «Ho sempre pensato di dovere qualcosa a quell’uomo», disse al quotidiano Der Spiegel nel 2017.

Marco ha parlato al New Yorker delle sue difficoltà nei primi anni di vita da solo, dei suoi comportamenti aggressivi e violenti con gli estranei. Una volta, mentre era in viaggio in treno, mandò un uomo in pronto soccorso dopo avere attaccato lui e altri due che lo stavano fissando. In seguito, ottenne qualche lavoro come modello prima di incontrare la sua attuale moglie, Emma, e iniziare con lei una relazione che dura ancora oggi e da cui sono nati due figli.

Marco ha detto che per un periodo lavorò come postino ma che lasciò quel posto dopo pochi giorni, perché ogni volta che vedeva sul volto di un estraneo un’espressione che gli ricordava Henkel aveva la sensazione di non essere vivo, che il suo cuore smettesse di battere. E quando provava a parlare, sentiva come se la sua voce non gli appartenesse.

La storia di Marco e dell’“esperimento Kentler”, racconta il New Yorker, è attualmente oggetto di un acceso scontro politico tra il partito tedesco di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) – che ha offerto consulenza legale a Marco e utilizza questa storia per contestare le politiche della sinistra in materia di educazione sessuale e per affermare il modello della “famiglia tradizionale” – e gli altri partiti, che accusano l’AfD di strumentalizzare questi crimini per i propri scopi politici.

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Il Senato di Berlino è in attesa di ricevere un rapporto più approfondito dagli studiosi dell’Università di Hildesheim a cui è stato commissionato. Marco ha intanto ricevuto le scuse del Senato, ha accettato una somma di circa 50 mila euro a titolo di risarcimento dei danni e ha deciso di non ascoltare i consigli dell’AfD di proseguire nella causa penale da lui avviata nel 2017. «Non voglio essere uno strumento politico. Non voglio essere trascinato in una campagna elettorale», ha detto Marco, il cui unico obiettivo adesso è che nel prossimo rapporto siano rivelati tutti i nomi delle persone coinvolte nell’“esperimento Kentler”.

Dopo essere andato a vivere da solo, Marco ha avuto contatti con Henkel soltanto due volte. La prima volta, Marco aveva 25 anni e ricevette da lui una telefonata in cui Henkel mostrò i segni di una qualche forma di demenza (chiese a Marco se si fosse ricordato di dare da mangiare ai loro conigli). La seconda volta fu nel 2015, quando Marco venne a sapere che Henkel era ricoverato in una clinica di Brandeburgo per una malattia in fase terminale. Andò a visitarlo, lo trovò al letto, emaciato e sofferente, e lo fissò per pochi secondi, incrociando il suo sguardo. Poi si voltò, chiuse la porta e andò via dalla clinica. Henkel morì il giorno dopo.

Marco ha raccontato al New Yorker che, una volta saputo della morte di Henkel, sentì come se «un blocco fosse scomparso» e cominciò a piangere per la prima volta per la morte di suo fratello adottivo Marcel. E ha detto che capì la vera ragione per cui non lasciò casa di Henkel subito dopo aver compiuto diciotto anni: «ero legato alla famiglia da Marcel Kramer, non lo avrei mai lasciato indietro».

Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.