Il calo delle nascite è un bene o un male?
Nonostante gli allarmi è associato a condizioni sociali migliori e aiuta la vita sulla Terra, ma occorre che l'immigrazione compensi i danni all'economia
Nel suo più recente rapporto annuale sulla natalità in Italia, riferito a dati del 2019, l’ISTAT ha rilevato una tendenza alla diminuzione delle nascite che prosegue da undici anni. Ne sono state registrate in tutto il paese quasi 20 mila in meno rispetto al 2018 e oltre 156 mila in meno rispetto al 2008. La stessa tendenza è stata confermata nei dati provvisori del 2020, e tendenze paragonabili a questa sono registrate da tempo in molti altri paesi. La diminuzione del tasso di fecondità totale – ossia il numero medio di figli per ogni donna in una determinata popolazione – riguarda anche zone del mondo in cui, come nell’Africa subsahariana, quel tasso resta comunque più alto che altrove.
La diminuzione generale delle nascite, unita al progressivo invecchiamento della popolazione, è spesso argomento di riflessioni preoccupate, titoli in evidenza sui giornali e discussioni concentrate più sull’individuazione delle ragioni del fenomeno che non su una valutazione preliminare del fenomeno stesso, tendenzialmente percepito come negativo. Si ritiene infatti che il calo delle nascite in quei paesi che ne sono più interessati possa rappresentare un indebolimento dell’economia in prospettiva futura e che una popolazione più anziana possa determinare un minor numero di lavoratori, “capovolgendo” il modo in cui le nostre società sono attualmente organizzate.
Tra studiosi ed esperti di demografia, economia e altre discipline, esiste tuttavia un dibattito esteso, complesso e meno sbilanciato, in cui gode di ampio consenso l’idea che sia da considerare un bene, più che un male, il fatto che oggi nascano meno esseri umani rispetto al recente passato: e non soltanto nei paesi in via di sviluppo, che da decenni danno l’apporto maggiore alla popolazione mondiale, ma entro certi limiti e a certe condizioni anche in quelli occidentali, con tassi di natalità quasi sempre più bassi e stagnanti.
Le motivazioni sono legate alla qualità della vita delle donne, delle famiglie, al benessere della società e soprattutto alla tutela dell’ambiente. Il fatto che “siamo troppi” sulla Terra, e che per questo ne stiamo sfruttando eccessivamente le risorse mettendo a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana, è una delle più affermate e comuni letture collegate alla crisi climatica. È un’interpretazione che contiene molti elementi di verità, anche se talvolta viene presentata in modo troppo semplicistico.
Dal 1950 al 2017, il tasso di fecondità totale nel mondo è sceso da una media di 4,7 nascite per donna a una media di 2,4, seppure con enormi differenze tra le nazioni. Secondo diversi studiosi, tra cui Christine Percheski, docente di sociologia alla Northwestern University, questo dato è da interpretare come un segno di progresso economico. «Riguarda donne che hanno accesso all’istruzione e alle opportunità di lavoro, riguarda l’aumento della loro autonomia e un cambiamento dei valori», ha detto Percheski, spiegando che le donne scelgono oggi di rimanere a scuola più a lungo e aspettano più tempo prima di sposarsi.
In un articolo sul Guardian la giornalista Laura Spinney, esperta di storia della scienza, si è chiesta quali siano allora le ragioni delle preoccupazioni e di una così ampia diffusione di messaggi che invitano la popolazione ad avere «più figli».
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Secondo Spinney, una delle spiegazioni è che la nostra idea di società «sana» è ancora radicata nel passato. Nel diciannovesimo secolo le società avevano bisogno di giovani per far funzionare le fabbriche, per consumare ciò che quelle fabbriche producevano e per formare gli eserciti da schierare in tempo di guerra. Due secoli dopo, scrive Spinney, questa rappresentazione mantiene ormai pochissime relazioni con la realtà. Sempre più lavori che richiedono forza e resistenza sono svolti dalle macchine, e molti prodotti dei paesi sono destinati a un consumo globale.
Quanto alle preoccupazioni riguardo alle possibili ripercussioni dei bassi tassi di natalità e dell’invecchiamento della popolazione sull’economia dei paesi, Spinney sostiene prima di tutto che non ci siano prove a sostegno della tesi secondo cui i lavoratori giovani sarebbero oggi più produttivi di quelli più anziani. Secondo Sarah Harper, gerontologa dell’Università di Oxford, i ventenni e i cinquantenni hanno tipi di intelligenza differenti ma sono entrambi gruppi rilevanti in termini di imprenditorialità.
Se si prende in considerazione il PIL pro capite, cioè il PIL diviso per il numero di abitanti, uno studio demografico dell’Università di Berkeley mostra che gli indicatori sono più alti quando il tasso di fecondità scende intorno a 1,6 nascite per donna, quindi al di sotto del cosiddetto livello di sostituzione, ossia 2,1 (è il tasso che, tenuto conto della mortalità in giovane età, assicura a una popolazione la possibilità di riprodursi mantenendo costante la propria struttura). Quando il tasso di fecondità è molto più alto o molto più basso di 1,6, sostengono i ricercatori, la qualità della vita tende a diminuire. In Italia il tasso di fecondità è di 1,27 figli per donna, il più basso d’Europa.
Spinney sostiene che il modo in cui i paesi distribuiscono le risorse, secondo un modello ancora legato al passato e diventato «insostenibile», dovrebbe adattarsi alla nuova realtà. Occorre che più persone lavorino più a lungo, per esempio, e che questo reintegro della forza lavoro tenga conto del cambiamento delle competenze legato all’invecchiamento dei lavoratori. Serve inoltre creare nuovo lavoro nel settore della cura delle persone più anziane.
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Uno dei fattori fondamentali nel processo di adattamento al nuovo contesto demografico, prosegue Spinney, è l’immigrazione, perché facilita la transizione demografica per i paesi più ricchi e ridistribuisce risorse verso quelli più poveri, dove i tassi di fecondità rimangono alti. Negli Stati Uniti esistono numerose prove storiche di duraturi benefici economici e sociali, sia sul breve che sul lungo termine, apportati dai flussi migratori. In Canada, dove la natalità è piuttosto bassa e l’età media dei lavoratori molto alta, l’economia è comunque cresciuta negli ultimi anni grazie a un aumento della popolazione che lavora e consuma, favorito dall’immigrazione.
«C’è sicuramente del lavoro da fare, ma in un mondo in preda a una crisi climatica, a cui abbiamo aggiunto in appena un paio di secoli 7 dei quasi 8 miliardi di umani che lo popolano – e a cui quasi certamente aggiungeremo altri 3 miliardi, prima che i numeri ricomincino a scendere – è assurdo dire che quello che ci manca sono i bambini», afferma Spinney. «Abbiamo bisogno di soluzioni, ma che non abbiano per forza la forma dei bambini». Casi come la Cina, secondo Spinney, dimostrano peraltro quanto siano sostanzialmente inutili le politiche di controllo o di incentivazione delle nascite.
Il lungo declino della fertilità in Cina non è stato significativamente più ripido che in altri posti dell’Asia orientale non condizionati dalla politica del figlio unico. Sondaggi e ricerche demografiche indicano inoltre che la maggior parte delle coppie, nonostante il governo abbia recentemente deciso di permettere di avere fino a tre figli, non ha comunque intenzione di avere più di un figlio. «Man mano che la mortalità infantile diminuisce e la salute e l’istruzione delle donne migliorano, la fertilità diminuisce. I genitori scelgono di investire più tempo, soldi e amore in meno figli», sostiene Spinney, che – in contrapposizione ad altre opinioni molto diffuse – attribuisce alle politiche attente alla fornitura di assistenza all’infanzia e di indennità per congedo parentale soltanto una limitata capacità di influenzare le scelte delle famiglie.
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Spinney si sofferma poi su uno degli argomenti marginali recentemente trattati nel dibattito sulla natalità, ossia quello dell’“impatto” delle scelte individuali – e, nello specifico, del fare un figlio – sul riscaldamento globale. Un discusso articolo pubblicato nel 2017 sulla rivista Environmental Research Letters descriveva la scelta di fare un figlio come il singolo comportamento umano a maggiore impatto in termini di produzione stimata di anidride carbonica (58,6 tonnellate). Una delle principali obiezioni a quell’articolo si concentrò sul fatto che quei calcoli non tenessero conto di numerose variabili e che, in generale, l’articolo sottostimasse la complessa dimensione etica del dibattito.
Spinney non esclude che salvare il pianeta possa essere una delle ragioni per cui alcune persone scelgono di avere pochi figli o nessuno («anziché migliorare gli standard di vita dei loro simili in modo più diretto»), ma sostiene che l’impatto di questa scelta sul clima non sia del tutto chiaro. «Sappiamo che la crisi climatica e la crescita della popolazione umana sono collegate, ma non sappiamo esattamente come. Sei nascite per donna sono evidentemente un danno per l’ambiente, ma per qualsiasi valore fino a due le prove sono molto più ambigue», scrive Spinney. «È meglio avere uno o due figli ed educarli come consumatori attenti all’ambiente, piuttosto che negarti dei figli se li vuoi», conclude Harper, la gerontologa dell’Università di Oxford consultata da Spinney.
In anni recenti, il declino della fertilità è stato infine considerato una ragione di preoccupazioni non direttamente connesse a quelle relative all’economia. Una serie di ricerche e analisi sui cambiamenti demografici e sui flussi elettorali negli Stati Uniti, citate nel 2018 dalla giornalista dell’Atlantic Olga Khazan, ha associato i tassi di fecondità in calo alla crescita di sentimenti populisti, definendo un fenomeno osservabile anche in altri paesi, compresa l’Italia.
Dove le popolazioni sono densamente concentrate e in crescita – nelle città più grandi del mondo, quelle con una popolazione di oltre un milione di persone – si registra, secondo queste ricerche, una crescita delle economie accompagnata da un cosmopolitismo diffuso. Dove invece le popolazioni diminuiscono – generalmente nelle zone rurali e nelle piccole città – le economie ristagnano o sono in declino, e il populismo ha successo, il più delle volte attraverso la promessa di invertire la storia ripristinando condizioni precedenti e una sorta di “dominio demografico”.
«Per quanto sia rassicurante per noi in America vedere la nostra politica in termini strettamente interni o per i nostri amici altrove fare lo stesso, le ondate populiste sono, curiosamente, tra i fenomeni politici contemporanei più interamente internazionalisti», osservavano in un articolo sul New York Times l’economista americano Philip Auerswald e il medico e investitore americano di origini sudcoreane Joon Yun.
«C’è un numero crescente di prove a sostegno del fatto che mentre i paesi ricchi a maggioranza bianca accolgono più persone nate all’estero, i partiti di estrema destra prosperano politicizzando la minaccia percepita per la cultura nazionale», scrisse nel 2017 il giornalista Derek Thompson sull’Atlantic. Se non opportunamente contrastata da politiche di egualitarismo e di integrazione sociale, secondo Thompson, questa dinamica tende a determinare un circolo vizioso in cui la popolazione diminuisce, l’immigrazione aumenta, le persone si spaventano per l’afflusso di altre persone e diventano più xenofobe e più inclini a sostenere partiti nazionalisti.
Caroline Hartnett, docente di scienze demografiche all’università della South Carolina, ha detto in un recente episodio del podcast del New York Times “The Argument” che la tendenza dei media a descrivere il calo dei tassi di fecondità in termini di «crisi», spesso in occasione della pubblicazione di rapporti e sondaggi, potrebbe alla lunga produrre effetti indesiderati. Il rischio, secondo Hartnett, è che l’enfasi possa determinare una polarizzazione eccessiva del dibattito, favorendo la formazione di gruppi che ritengono «catastrofico» il calo dei tassi di natalità, spesso contrapposti ad altri che lo ritengono invece un bene assoluto per la Terra, individuando negli esseri umani la principale causa di estinzione delle risorse.