Ci è voluto tanto a riconoscere che il coronavirus si trasmette per via aerea

Lo abbiamo iniziato a capire un anno fa ma l'OMS l'ha riconosciuto da poco, dopo un lungo dibattito su droplet e aerosol

 (AP Photo/Rafiq Maqbool)
(AP Photo/Rafiq Maqbool)

Oltre a essere diventata un’abitudine, oggi indossare una mascherina ci appare il sistema più ovvio per prevenire le infezioni da coronavirus. Eppure, nei primi mesi del 2020 tutte le principali istituzioni sanitarie ne consigliavano l’impiego solo in particolari circostanze, sottolineando molto di più l’importanza di lavarsi bene le mani e di sanificare le superfici. Alcune, come l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), avrebbero continuato a farlo per quasi un anno, nonostante numerosi ricercatori avessero iniziato a segnalare già nella primavera del 2020 che il coronavirus si trasmette per lo più direttamente per via aerea.

Dopo alcune lievi modifiche apportate lo scorso anno e comunicazioni talvolta discordanti, l’OMS ha rivisto le proprie linee guida sulle precauzioni per evitare il contagio solo a fine aprile. Come hanno segnalato diversi osservatori, lo ha fatto in ritardo rispetto a ciò che dicevano ormai da mesi molte ricerche scientifiche, e forse anche per questo senza promuovere più di tanto le nuove indicazioni.

All’inizio della pandemia le informazioni sul coronavirus e le sue modalità di trasmissione erano certamente scarse e, mentre le ricerche procedevano, per molti paesi e per le loro istituzioni la priorità era affrontare emergenze sanitarie senza precedenti negli ultimi decenni. Le valutazioni odierne sulle scelte fatte all’epoca possono apparire col “senno di poi”, ma la storia di come andarono le cose mostra che si sarebbe potuto fare meglio e soprattutto racconta qualcosa su come sia difficile rivedere le proprie convinzioni, riconoscere di avere sbagliato e andare oltre, specialmente all’interno di grandi organizzazioni dove sono in molti a decidere.

Droplet e aerosol
Quando emersero le prime notizie sul SARS-CoV-2 e la sua diffusione a Wuhan, in Cina, l’OMS e diverse altre autorità sanitarie pensarono che il coronavirus si diffondesse tramite i droplet, gocce di saliva contenenti le particelle virali emesse da chi è infetto. Era una conclusione che all’epoca appariva sensata perché basata su come funzionano i contagi di altre malattie.

Trattandosi di gocce relativamente grandi, i droplet tendono a rimanere per pochi istanti in aria e cadono poi sulle superfici. Partendo da questo assunto, fu consigliato di lavarsi bene le mani e di sanificare le superfici, in modo da ridurre il rischio di entrare in contatto con le particelle virali contenute nelle gocce di saliva e contagiarsi, per esempio toccandosi naso, occhi e bocca con le mani sporche.

Se le gocce di saliva emesse dagli infetti erano tali da cadere subito a terra e sugli oggetti, l’impiego delle mascherine poteva essere limitato ad ambiti molto particolari. Le istituzioni sanitarie iniziarono quindi a consigliarne l’uso solo alle persone malate, in modo che i loro droplet rimanessero confinati nelle mascherine, e al personale sanitario nei reparti ospedalieri che trattavano casi di COVID-19. All’inizio della pandemia c’era inoltre una disponibilità molto limitata di mascherine e per questo c’erano frequenti appelli a non utilizzarle se non strettamente necessario, in modo da lasciarle a chi lavorava negli ospedali.

Le linee guida dell’OMS riflettevano queste valutazioni e, trattandosi di uno dei principali punti di riferimento per i governi in materia sanitaria, molti paesi adottarono le medesime indicazioni. Per settimane, il ministero della Salute in Italia continuò a sconsigliare l’uso delle mascherine alle persone sane, con numerose comunicazioni nelle quali evidenziava soprattutto l’importanza della sanificazione di mani e oggetti. Era anche indicata l’importanza del distanziamento fisico, ma secondo il criterio per cui oltre una certa distanza si sarebbe stati al sicuro anche senza mascherina, perché cadendo subito a terra i droplet di un infetto difficilmente avrebbero potuto raggiungere un’altra persona, se a più di un metro di distanza.

La valutazione sulla caduta a corto raggio dei droplet avrebbe condizionato a lungo il confronto sulle modalità di diffusione del coronavirus, causando un acceso dibattito tra i ricercatori e una comunicazione non sempre chiara da parte delle istituzioni.

Direttamente per via aerea
Nella primavera del 2020 iniziarono a essere pubblicati alcuni studi preliminari sulla capacità del coronavirus di trasmettersi per lo più per via aerea e non tramite le superfici. I ricercatori avevano notato che le particelle virali erano presenti anche in gocce di saliva molto più piccole dei droplet, in grado di rimanere a lungo in sospensione nell’aria (aerosol) e che causavano nuovi contagi dopo un certo tempo di esposizione. Il rischio di essere contagiati in ambienti chiusi e poco ventilati sembrava essere molto più alto, specialmente se non si indossavano le mascherine per limitare l’inalazione degli aerosol.

Nonostante ci fossero evidenze scientifiche via via più convincenti, l’OMS nell’estate del 2020 aggiornò solo parzialmente le proprie linee guida, suggerendo l’impiego delle mascherine nel caso in cui non fosse possibile praticare il distanziamento fisico. Un ulteriore aggiornamento a dicembre dello stesso anno – quando ormai c’era un ampio consenso sugli aerosol nella comunità scientifica – segnalò che l’uso delle mascherine al chiuso non fosse necessario a patto di praticare il distanziamento fisico e di ventilare gli ambienti affollati.

Secondo diversi osservatori, il riconoscimento dell’importanza degli aerosol nella diffusione del coronavirus in tempi più rapidi avrebbe consentito di spostare il confronto scientifico sulle misure da prendere per limitare i rischi, per esempio attraverso l’adozione di filtri particolari nei sistemi di aerazione o consigliando modifiche all’organizzazione degli spazi negli ambienti di lavoro. Per diverso tempo il confronto rimase invece fermo al passaggio prima, con un lungo dibattito su droplet e aerosol, frustrante soprattutto per i ricercatori che segnalavano la necessità di rivedere alcuni assunti maturati negli ultimi 150 anni.

Miasmi e malattie
Per lungo tempo si pensò che malattie come il colera e la peste nera fossero causate dall’aria “cattiva”, miasmi (gas) emanati dalla decomposizione degli organismi. Nell’Ottocento, con la scoperta dei germi (gli agenti patogeni, cioè portatori di malattie, come virus e batteri) le cose cambiarono e la teoria dei miasmi fu via via smontata. Anche se molti di questi germi non erano osservabili, perché non esistevano ancora microscopi potenti a sufficienza, alcuni medici scoprirono che ogni patogeno aveva un proprio modo di diffondersi tra la popolazione. Gli studi di John Snow a Londra sul colera di metà Ottocento portarono alla nascita della moderna epidemiologia, anche se il suo lavoro faticò ad affermarsi tra i colleghi, ancora fermi alle teorie precedenti sulla diffusione delle malattie.

A inizio Novecento, lo statunitense Charles V. Chapin fu tra i primi a occuparsi approfonditamente del modo in cui si trasmettono alcuni patogeni. Le sue ricerche lo portarono a ipotizzare che varie malattie respiratorie fossero trasmesse a stretta distanza con le gocce di saliva, mentre escluse che i contagi potessero avvenire inalando goccioline di saliva più piccole emesse con la respirazione. Chapin non aveva molti strumenti per pensare altrimenti e probabilmente voleva distanziarsi il più possibile da ipotesi che potevano essere equiparate alla superata teoria dei miasmi.

Gli studi di Chapin furono ampiamente ripresi e divennero uno dei punti di riferimento nell’analisi della diffusione delle malattie. Solo in seguito sarebbe emerso che la trasmissione può avvenire tramite droplet o per alcune malattie tramite aerosol, come nel caso del morbillo. Molti studi avrebbero poi indicato che le malattie respiratorie si diffondono più facilmente se ci si trova a poca distanza da una persona infetta, condizione che sembrava confermare i droplet come causa principale dei contagi.

Micron
Come segnalò in più occasioni durante lo scorso anno Linsey Marr del Virginia Tech (Stati Uniti), le valutazioni su droplet e aerosol furono per molto tempo condizionate dai primi studi sulle dimensioni massime che devono avere le particelle per restare a lungo sospese nell’aria. Il limite era stato posto a 5 micron (5 millesimi di millimetro), ma gli studi di Marr e altri suoi colleghi indicano che in numerose circostanze si possa arrivare fino a 100 micron. Una volta emesse, anche queste particelle più grandi restano in sospensione nell’aria e possono essere inalate, cosa che avviene in casi molto rari con i droplet.

Il livello di concentrazione degli aerosol è inoltre più alto in prossimità dell’individuo che li sta inconsapevolmente emettendo, e questo fa aumentare il rischio di contagio. Il consiglio iniziale di indossare la mascherina era pensato per evitare i droplet, ma evidentemente stava funzionando contro gli aerosol. Il fatto che desse risultati positivi ha però indotto per diverso tempo le autorità sanitarie a ritenere che si trattasse di una conferma sui rischi comportati dai droplet.

Le autorità sanitarie ritenevano inoltre improbabile che la trasmissione del coronavirus avvenisse direttamente per via aerea, perché questo avrebbe dovuto comportare una circolazione molto più alta del virus tra la popolazione. Gli studi avrebbero poi mostrato che la contagiosità varia sensibilmente a seconda delle circostanze e che i rischi sono estremamente bassi all’esterno.

Fu in questo contesto che l’OMS indicò i droplet come la via più rilevante di trasmissione del coronavirus isolato da poco a Wuhan.

Nuove prove
Mentre venivano diffuse le prime linee guida che indicavano come secondaria l’importanza delle mascherine, alcuni episodi di contagio iniziavano a raccontare una storia diversa. Nel febbraio del 2020 furono registrati 567 casi di contagio tra i 2.666 passeggeri della nave da crociera Diamond Princess costretti a rimanere a bordo dopo che si era sviluppato un primo focolaio. I passeggeri vivevano isolati nelle loro cabine e ricevevano il cibo da personale con la mascherina, eppure si continuarono a rilevare contagi, rendendo meno probabile la spiegazione dei soli droplet. Fu anche grazie a queste valutazioni che in Giappone già a febbraio le autorità sanitarie decisero di trattare la COVID-19 come una malattia che si trasmette prettamente per via aerea.

Tra marzo e aprile altri ricercatori si occuparono di casi in cui singoli individui avevano contagiato decine di persone, i cosiddetti “super diffusori”. Dalle ricostruzioni sulle dinamiche del contagio appariva difficile ricondurre la causa al contatto con i droplet, vista la grande quantità di individui coinvolti e il fatto che i contagi fossero avvenuti al chiuso, come in sale di ristoranti o su mezzi pubblici.

Decine di ricerche su specifici casi di contagio con super diffusori iniziarono ad accumularsi negli archivi online, unendosi ad altri studi che indicavano come in alcuni casi il coronavirus fosse trasmesso da persone asintomatiche. Il fatto che contagiassero gli altri anche senza avere i sintomi classici della COVID-19, come la tosse, implicava che non espellessero molti droplet e che quindi il coronavirus fosse trasmesso con i loro aerosol.

Appello
A luglio del 2020 centinaia di ricercatori sottoscrissero una lettera aperta, nella quale invitavano le istituzioni sanitarie a rivedere le loro linee guida, accettando il fatto che la malattia si trasmettesse per lo più per via aerea tramite le particelle virali sospese nell’aria, in particolare al chiuso. L’appello era indirizzato soprattutto all’OMS, che aggiornò le indicazioni segnalando di non poter escludere la «trasmissione tramite aerosol a breve distanza» in ambienti scarsamente ventilati, continuando comunque a ritenere che la principale via di contagio fossero i droplet e che fosse quindi importante sanificare gli oggetti e lavarsi bene le mani.

Revisione
In un lungo articolo di commento sul New York Times, la sociologa Zeynep Tüfekçi si è chiesta come mai l’OMS e altre istituzioni sanitarie abbiano impiegato così tanto tempo per comprendere l’importanza delle mascherine, e più in generale le modalità di diffusione del coronavirus. In molti casi le commissioni di esperti che inizialmente se ne occuparono avevano una formazione ospedaliera, ambienti dove l’aria viene filtrata spesso in particolare nei reparti di malattie infettive: in condizioni di questo tipo è soprattutto l’igiene delle mani e delle superfici a ridurre i rischi di contagio, per la maggior parte dei patogeni.

Secondo Tüfekçi ciò che ha contato di più è stato qualcosa di ricorrente nella storia della scienza: «Chiedere che siano prodotte prove più convincenti per le teorie che mettono in discussione l’esperienza condivisa».

Lo scorso autunno l’OMS commissionò per esempio una revisione delle prove su come si trasmette il coronavirus. Il gruppo di lavoro studiò la trasmissione diretta per via aerea analizzando le ricerche basate sulla raccolta di campioni di aria dagli ambienti, concentrandosi soprattutto sul fatto se fossero state trovate o meno particelle virali. Identificarne a sufficienza in un campione d’aria è estremamente difficile, al punto da non essere mai stato fatto in maniera estensiva nemmeno per le malattie come il morbillo, sulle quali c’è un ampio consenso sulla sua diffusione per via aerea.

Paradossalmente, nemmeno la trasmissione tramite contatto con i droplet è stata mai dimostrata direttamente. Per alcune malattie ci sono buono indizi sul fatto che sia questa la modalità con cui si diffondono, ma buona parte delle assunzioni sui droplet derivano ancora dai lavori di Chapin di circa un secolo fa.

Opportunità e reticenze
La pandemia ha riportato al centro dell’attenzione di numerosi ricercatori le modalità di trasmissione dei patogeni, offrendo inoltre una quantità enorme di dati da utilizzare per fare analisi e nuove ricerche. A oltre un anno di distanza sappiamo molte più cose sul coronavirus e su come si diffonda tra la popolazione, e soprattutto sappiamo che le mascherine sono essenziali per ridurre i contagi, soprattutto nei contesti in cui si deve trascorrere del tempo con altre persone al chiuso.

Il 30 aprile queste circostanze sono state riconosciute più esplicitamente anche dall’OMS con un atteso, e per molti tardivo, aggiornamento delle sue linee guida. Ora l’organizzazione dice che il contagio può essere veicolato dagli aerosol e soprattutto che: «Negli ambienti scarsamente ventilati e/o affollati gli aerosol rimangono sospesi nell’aria e viaggiano a oltre un metro di distanza».

Come hanno segnalato Tüfekçi e altri osservatori, le modifiche sono state apportate senza particolari annunci o conferenze stampa, e qualcosa di analogo è avvenuto quando le autorità sanitarie statunitensi e in altri paesi hanno rivisto le indicazioni. Queste reticenze sembrano derivare da una certa difficoltà nell’ammettere che per mesi fu consigliato di fare diversamente, e che passò probabilmente più tempo del dovuto prima di riconoscere alcune sottovalutazioni.

Eppure il processo cui l’intera comunità mondiale ha assistito nell’ultimo anno è tipico del funzionamento della scienza, dove raramente ci sono grandi momenti rivelatori e le scoperte avvengono per gradi, sulla scorta di tutto ciò che era stato scoperto prima. Per quanto poco finanziata e burocratizzata, l’OMS continua a essere l’unico grande punto di riferimento in ambito sanitario, soprattutto per i paesi più poveri che non si possono permettere grandi e costosi centri di ricerca. Al di là dei ritardi, una comunicazione più chiara sulle ultime determinazioni legate alle mascherine potrebbe salvare migliaia di vite, specialmente nelle aree più disagiate del mondo dove i vaccini scarseggiano o non arriveranno ancora a lungo.