Cosa abbiamo capito in un anno sul coronavirus e le superfici

Le ricerche dicono che il contagio attraverso gli oggetti è raro, ma suggeriscono qualche precauzione

(Hector Vivas/Getty Images)
(Hector Vivas/Getty Images)

Da circa un anno le superfici di molti uffici, negozi, locali e mezzi di trasporto pubblici vengono periodicamente sanificate con l’obiettivo di ridurre la diffusione del coronavirus e il rischio di nuovi contagi attraverso oggetti che potrebbero essere stati contaminati. È una procedura consigliata dalle principali autorità sanitarie e resa obbligatoria dai governi di alcuni paesi, ma nonostante sia osservata da mesi non è ancora chiaro se contribuisca davvero a contenere i nuovi contagi. Diversi ricercatori stanno cercando di capirlo e nel frattempo invitano ad applicare un principio di precauzione, proseguendo con la sanificazione delle superfici, a patto di non farne un’ossessione.

Aria vs superfici
Da tempo sappiamo che le malattie infettive si possono diffondere in modi molto diversi tra loro, attraverso l’aria, il sangue, l’acqua o le superfici a seconda dei casi e delle caratteristiche dei virus (o di altri patogeni come i batteri) che le causano. Ma capire la via principale attraverso cui si diffonde un virus non è sempre semplice, soprattutto nel caso in cui sia in circolazione da poco tempo, come l’attuale coronavirus.

All’inizio del 2020, quando le conoscenze sul SARS-CoV-2 erano ancora limitate, si riteneva che il coronavirus si diffondesse soprattutto attraverso la contaminazione delle superfici da parte degli individui inconsapevolmente infetti. Per esempio tramite un banale colpo di tosse riparato con una mano, usata poi per toccare una maniglia o un tasto in ascensore, successivamente utilizzati da qualcun altro che toccandosi a sua volta naso e bocca con le mani sporche subisce il contagio. Da qui il consiglio di lavare spesso le superfici e soprattutto le mani, in maniera approfondita e indugiando un po’ più del solito con acqua e sapone.

Nei mesi successivi, sarebbe emerso che il coronavirus è per lo più un virus che si trasmette per via aerea, attraverso le gocce di saliva che emettiamo parlando (droplet), o attraverso quelle ancora più piccole di vapore acqueo che emettiamo respirando e che rimangono a lungo sospese nell’aria (aerosol). Quando divenne evidente, le autorità sanitarie a cominciare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) integrarono le proprie linee guida, consigliando di indossare le mascherine, di praticare il distanziamento fisico e di aerare spesso i locali chiusi se condivisi con altre persone.

I consigli sulla disinfezione delle superfici e sul lavaggio delle mani rimasero però al loro posto e continuano a essere segnalati non solo dall’OMS, ma anche da diverse altre autorità sanitarie. Il contagio tramite le superfici non può essere infatti escluso, anche se le ricerche svolte negli ultimi mesi sembrano avere ridimensionato la valutazione del rischio.

Un anno di ricerche
Le contaminazioni attraverso le superfici erano finite al centro del confronto scientifico, e del racconto sui giornali, verso la fine di marzo del 2020, quando alcuni esperimenti di laboratorio avevano fatto rilevare come il coronavirus fosse in grado di mantenersi attivo sulle superfici di plastica e di acciaio per diversi giorni. Lo studio sembrava confermare le linee guida fornite qualche settimana prima dall’OMS e che avrebbero poi portato autorità sanitarie nazionali e governi a consigliare (o a rendere obbligatoria) la periodica sanificazione di spazi e mezzi di trasporto pubblici. Alcune amministrazioni cittadine si spinsero addirittura oltre, decidendo di sanificare anche le strade con non poche implicazioni per la tutela dell’ambiente.

A luglio un articolo di commento – quindi diverso dal resoconto di una ricerca scientifica – pubblicato sulla rivista medica Lancet Infectious Diseases segnalò come le superfici costituissero probabilmente un rischio basso nella trasmissione del coronavirus. Nei mesi seguenti altri ricercatori invitarono a non dare troppo peso alla questione delle superfici contaminate, ritenendo che potesse distogliere da pratiche più importanti come aerare gli ambienti chiusi e utilizzare le mascherine in presenza di altre persone. Alla fine dello scorso anno, il Washington Post pubblicò le valutazioni di alcuni esperti, che suggerivano di non rendere un’ossessione la sanificazione delle superfici.

Ovunque
Come spiega un lungo articolo pubblicato sul sito della rivista scientifica Nature, era normale che all’inizio della pandemia le superfici fossero tra le principali sospettate. Negli ospedali, per esempio, succede di continuo che particolari patogeni si trasmettano tra i pazienti a causa della loro presenza su superfici che non vengono igienizzate adeguatamente e con la giusta frequenza. Virus, batteri e funghi possono rimanere attivi a lungo sulle sponde dei letti o sugli oggetti che utilizzano i medici, come gli stetofonendoscopi.

Sulla base di queste esperienze precedenti, quando il coronavirus iniziò a diffondersi i medici e i ricercatori si chiesero se e quanto fosse presente sulle superfici dei reparti ospedalieri. Raccolsero campioni da letti, mobili, maniglie, pulsantiere degli ascensori e altri ambienti, trovando tracce del suo materiale genetico praticamente ovunque. Indagini simili svolte al di fuori degli ospedali, per esempio negli edifici dedicati all’isolamento dei contagiati e nei locali pubblici portarono a risultati simili.

Alcune ricerche segnalarono la capacità del coronavirus di permanere a lungo sulle superfici analizzate. Uno studio condotto sulla nave da crociera Diamond Princess, sulla quale si era diffuso un focolaio, rilevò tracce del materiale genetico del coronavirus a 17 giorni di distanza dall’uscita dei passeggeri.

Dentro e fuori dal laboratorio
La presenza del materiale genetico virale sulle superfici non implica comunque che il coronavirus sia ancora attivo, quindi in grado di infettare altre persone. Le particelle virali non resistono per molto tempo fuori da un organismo e diventano via via meno pericolose. Alcuni studi condotti nel 2020 hanno indicato comunque come le particelle virali del coronavirus siano ancora in grado di causare un’infezione fino a 6 giorni dopo essersi depositate su plastica e acciaio inossidabile, fino a 3 giorni sulle banconote e su altre superfici porose.

Ma determinare la durata del coronavirus sulle superfici non è semplice: per questo i ricercatori ricorrono a esperimenti di laboratorio, dove possono controllare più facilmente le variabili. I test hanno limiti e non rappresentano completamente ciò che avviene fuori dai centri di ricerca. Gli esperimenti svolti fuori dai laboratori, per lo più negli ospedali, hanno indicato come il materiale genetico del coronavirus fosse ampiamente presente, ma senza che ciò si traducesse in nuove infezioni tra i frequentatori di quegli ambienti.

Partita a carte
Sempre l’articolo di Nature cita un esperimento piuttosto noto tra chi si occupa di malattie infettive e che aiuta a farsi un’idea della complessità del tema. Nel 1987, un gruppo di ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison (Stati Uniti) chiese ad alcuni volontari di giocare a carte con alcune persone con un’infezione virale da raffreddore in corso. Un primo gruppo di volontari sani fu sottoposto ad alcune limitazioni di movimento, per evitare che si toccassero il viso con le mani dopo che erano entrati in contatto con superfici potenzialmente contaminate: la metà di loro sviluppò un’infezione virale. Il test fu poi ripetuto senza limitazioni e ottenendo un risultato simile.

Un partecipante all’esperimento gioca a carte indossando un dispositivo che gli impedisce di toccarsi la faccia (Elliot C. Dick et al., The Journal of Infectious Diseases, 1987)

In seguito, i ricercatori chiesero ai volontari malati di maneggiare le carte da gioco e di tossirci sopra. Il mazzo fu poi consegnato a un gruppo di volontari sani, questa volta isolati in una stanza senza gli individui malati, ai quali fu chiesto di toccarsi più volte il viso, sfregando occhi, bocca e naso con le mani mentre giocavano con le carte contaminate. In questo caso nessuno sviluppò un’infezione virale. L’esperimento permise di capire che un tipo particolare di virus (rhinovirus) si trasmette principalmente attraverso l’aria e non le superfici.

Riprodurre un test simile con l’attuale coronavirus non sarebbe etico, perché c’è il rischio che gli individui contagiati sviluppino sintomi gravi della malattia, che in alcune circostanze possono rivelarsi letali.

Rischio basso diverso da zero rischi
La trasmissione attraverso le superfici non può comunque essere completamente esclusa, nel caso del coronavirus. Dopo la raccolta periodica di campioni da superfici all’interno e all’esterno di alcuni edifici, un gruppo di ricercatori statunitensi ha stimato che la probabilità di contagio da una superficie contaminata sia meno di 5 su 10mila, più bassa delle stime sul livello di rischio di contagio tramite gli aerosol. Altri ricercatori concordano sul fatto che sia possibile, ma al tempo stesso piuttosto raro.

Un’altra evidenza molto empirica, e più difficile da verificare, sembra derivare dagli effetti delle norme restrittive adottate in numerosi paesi. L’impiego di massa delle mascherine e il ricorso al distanziamento fisico hanno avuto un impatto maggiore rispetto alle attività di sanificazione, condotte in modo saltuario e talvolta senza rispettare linee guida e protocolli.

Tra le ricerche scientifiche prodotte nell’ultimo anno, poche hanno rilevato contagi tramite le superfici, mentre molte hanno rilevato prove convincenti sulla diffusione del coronavirus per via aerea negli ambienti chiusi, con scarso ricambio d’aria e senza precauzioni come mascherine e distanziamento fisico. Sembra quindi esserci un rischio maggiore nella condivisione del medesimo ambiente chiuso con individui infetti, rispetto alla trasmissione tramite le superfici.

Principio di precauzione
Nella sua sezione di domande e risposte sul coronavirus, aggiornata nell’autunno del 2020, l’OMS indica che sulla base delle attuali evidenze scientifiche la principale via di diffusione del coronavirus è “tramite le gocce di saliva emesse respirando”, ma aggiunge:

Il virus si può anche diffondere dopo che le persone infette starnutiscono o tossiscono sulle superfici o toccano oggetti come tavoli, maniglie e mancorrenti. Altre persone potrebbero essere contagiate toccando queste superfici contaminate, e toccando poi i propri occhi, naso o bocca senza avere prima lavato le mani.

Indicazioni simili sono fornite dalle autorità sanitarie nazionali e, nel caso dell’Unione Europea, dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC). In attesa di nuove evidenze, per ora prevale il principio di precauzione, con il consiglio di non sottovalutare comunque i rischi e di mantenere le buone pratiche d’igiene.

Avere conferme in un senso o nell’altro sarà del resto molto difficile non solo perché a oggi non conosciamo completamente le modalità di diffusione del coronavirus, come del resto quelle di diversi altri virus, ma anche perché ciascuno di noi è fatto diversamente e reagisce in modi diversi all’eventuale esposizione al virus. Lavarsi bene le mani, comunque, aiuta a ridurre i rischi sempre, a prescindere dalla pandemia.