Perché l’inflazione sta salendo

I prezzi aumentano in tutto l’Occidente: per ora non è un fenomeno preoccupante, ma potrebbe continuare ancora per un po’

di Leonardo Siligato

Una donna controlla i prezzi della carne in un supermercato di Dallas (AP Photo/LM Otero, File)
Una donna controlla i prezzi della carne in un supermercato di Dallas (AP Photo/LM Otero, File)

Negli ultimi mesi, il livello generale dei prezzi di beni e servizi nelle maggiori economie occidentali ha ricominciato a salire, e lo ha fatto a un ritmo sempre più elevato. In altre parole, è salito il tasso d’inflazione, inteso come il tasso di crescita dei prezzi misurati in un dato mese rispetto a quelli dello stesso mese un anno prima.

Dopo un calo dovuto allo scoppio della pandemia, negli ultimi mesi l’inflazione è tornata a crescere prima negli Stati Uniti e poi nell’Eurozona, uscita a inizio anno da una deflazione durata cinque mesi (la deflazione è il contrario dell’inflazione, cioè quando i prezzi scendono in un dato mese rispetto allo stesso mese dell’anno precedente). Secondo le principali istituzioni monetarie questo aumento è temporaneo, ma negli ultimi mesi si sono accumulati segnali che potrebbero far pensare che l’inflazione possa tornare a livelli sostenuti per un po’.

L’ultimo dato disponibile per l’Eurozona è quello di aprile scorso (non incluso nel grafico perché ancora provvisorio), mese in cui l’Eurostat stima che i prezzi siano saliti dell’1,6 per cento rispetto all’aprile 2020, anche a causa di un forte aumento del costo dell’energia, dovuto principalmente all’incremento del prezzo del petrolio. A marzo, la crescita era stata dell’1,3 per cento, mentre a febbraio e gennaio era stata dello 0,9 per cento.

Negli Stati Uniti, la dinamica è stata ancora più marcata: mentre a maggio 2020 l’inflazione era pressoché nulla, lo scorso marzo è arrivata al 2,6 per cento. Questo livello è leggermente superiore a quello ritenuto ottimale dalla banca centrale statunitense, la Federal Reserve (FED), che, come la Banca Centrale Europea, ha tra i propri obiettivi quello di mantenere la stabilità dei prezzi nella propria regione di competenza, e per farlo gestisce la propria politica monetaria tentando di raggiungere un’inflazione leggermente inferiore al 2 per cento. Ultimamente però, la FED ha fatto intendere che potrebbe lasciare l’inflazione fluttuare al di sopra di questa soglia (assicurandosi che non ne salga «sensibilmente» al di sopra) per i prossimi mesi, purché nel medio termine l’inflazione media stia attorno al 2 per cento.

Per farla scendere infatti, dovrebbe aumentare i tassi di interesse – come ha notato l’attuale ministra del Tesoro statunitense ed ex presidente della FED Janet Yellen, e come ha deciso di fare la banca centrale del Brasile proprio qualche giorno fa – il che frenerebbe la ripresa dell’economia americana.

Ad ogni modo, l’aumento dell’inflazione a cui stiamo assistendo non è una sorpresa: era già stato previsto da mercati e analisti, soprattutto a causa delle ingenti quantità di denaro immesse nelle economie da banche centrali e governi per contrastare la crisi, perché più denaro c’è in circolo, più questo tende a svalutarsi, facendo salire i prezzi. Quest’aumento non è ancora allarmante, perché si tratta tutto sommato di tassi relativamente bassi (ricordiamoci che in Italia, dal 1973 al 1984, l’inflazione media annua è rimasta costantemente a due cifre, arrivando a superare il 21 per cento nel 1980), e va considerato che una parte del rialzo è dovuta semplicemente al fatto che stiamo confrontando i prezzi di oggi con quelli di un anno fa: il periodo di crisi peggiore.

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Il fatto che il fenomeno non sia allarmante non vuol dire però che vada trascurato, perché diversi segnali lasciano presagire che l’inflazione possa salire ulteriormente nel breve termine.

Il segnale più importante è l’aumento dei prezzi delle materie prime registrato nell’ultimo anno. Questa settimana, il Bloomberg Commodity Spot Index (un indice che misura i prezzi di 23 materie prime tra cui petrolio, oro, alluminio, ma anche mais, zucchero e caffè) ha toccato i suoi massimi dal 2011, crescendo del 70 per cento da marzo 2020, quando era sceso ai minimi da quattro anni a causa dello scoppio della pandemia.

Fra tutte le sue componenti spicca il prezzo del petrolio, salito di oltre il 30 per cento da inizio anno. Questo è uno dei fattori più importanti dell’inflazione perché influisce sia sul costo dell’energia, e quindi della produzione industriale, sia su quello dei carburanti, e quindi dei trasporti delle merci: tutti costi che vanno a far salire il prezzo finale dei beni, oltre che quello ovvio della benzina. L’aumento del prezzo del greggio è dovuto a due fattori principali: la ripartenza di grandi economie che ne consumano molto, come gli Stati Uniti ma soprattutto la Cina (dove il prodotto interno lordo è cresciuto del 18,3 per cento nel primo trimestre 2021 rispetto al primo trimestre 2020), e la recente decisione dell’OPEC+ (che è un’alleanza fra l’OPEC, il cartello dei paesi esportatori di petrolio tra cui l’Arabia Saudita, e altri importanti produttori come la Russia) di mantenere invariata la produzione di greggio dopo anni di tagli, benché la domanda stia aumentando.

A questo si sommano gli aumenti dei prezzi di materie prime come rame, alluminio, piombo, zinco e cotone, la cui domanda è salita molto a causa della ripresa della produzione industriale.

Stessa cosa è avvenuta al prezzo del legname, cresciuto a causa della ripresa del mercato immobiliare statunitense, che ne fa largo uso. Negli ultimi 12 mesi, stima Bloomberg, l’aumento del costo del legno negli Stati Uniti ha fatto salire il prezzo medio di una casa unifamiliare di oltre 35.800 dollari.

Allo stesso tempo, anche diverse materie prime destinate alla produzione di alimenti, come il mais, il grano e lo zucchero sono diventate più care a causa di fenomeni climatici avversi, come la siccità che ha colpito il Brasile, ma anche a causa dei problemi logistici che la pandemia continua a provocare alle filiere. Questo sta facendo salire il livello generale dei prezzi del cibo su scala globale, come conferma l’ultimo aggiornamento dell’indice dei prezzi del cibo redatto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), salito in aprile del 30,8 per cento rispetto a un anno prima, a livelli che non si vedevano dal 2014.

L’aumento di prezzo più lampante negli ultimi mesi è stato quello degli oli vegetali, specialmente quelli di soia, di colza e di palma, per cui l’offerta dei paesi esportatori non riesce a soddisfare la domanda. Peraltro, l’aumento del prezzo del cibo non sta interessando tutti indistintamente: i paesi più colpiti sono quelli che hanno situazioni di instabilità politica, dove la valuta locale ha subìto forti svalutazioni nei confronti delle altre, o dove l’approvvigionamento di cibo dipende in larga misura dalle importazioni, come il Libano, lo Zimbabwe, il Sud Sudan e l’Argentina.

Oltre all’aumento dei prezzi delle materie prime, ci sono altri fattori che stanno facendo salire l’inflazione e ne segnalano un possibile aumento nel breve termine. Le misure di contrasto alla pandemia hanno dato luogo a rallentamenti nella logistica e problemi nel mantenimento in funzione delle linee produttive di impianti dove si producono semilavorati come i semiconduttori, che hanno creato a loro volta problemi alla produzione di prodotti finiti, dalle automobili agli elettrodomestici. Il settore automobilistico è uno dei più colpiti dalla carenza di microchip: a fine aprile, Ford ha dovuto chiudere temporaneamente una dozzina di impianti tra Europa e Nord America, Renault ha smesso di aggiornare le proprie previsioni sulla produzione per via della «troppa incertezza», mentre Volkswagen e Stellantis (il nuovo marchio nato dalla fusione di FCA e PSA) hanno avvertito che la situazione sta peggiorando nel secondo trimestre.

L’aumento dei costi delle materie prime, di trasporto e di imballaggio è stato citato anche dalla multinazionale Nestlé tra le ragioni per cui la società si troverà costretta ad aumentare i prezzi di diversi prodotti tra la fine del 2021 e il 2022.

Annunci come questo, sommati ai segnali visti precedentemente, fanno sospettare che l’aumento dell’inflazione non sia ancora terminato: molte società che producono beni finali stanno ancora facendo i conti con l’aumento dei propri costi, e potrebbero volerci dei mesi perché capiscano di quanto gli convenga aumentare i prezzi dei propri prodotti senza perdere mercato. E in effetti, se ci limitiamo a considerare l’Eurozona, la Banca Centrale Europea prevede che l’inflazione raggiunga il 2 per cento nel quarto trimestre di quest’anno.

Il punto su cui non tutti sono d’accordo è quanto a lungo quest’aumento durerà.

Alcuni economisti ritengono che l’inflazione potrebbe tornare a livelli sostenuti per lungo tempo. Sul medio termine, l’enorme spesa pubblica e la creazione di moneta impiegate rispettivamente da governi e banche centrali per far fronte alla pandemia potrebbero mantenere alta l’inflazione.

In particolare, la spesa pubblica straordinaria dei governi ha generato altissimi livelli di debito che sarà più facile ripagare con un’inflazione alta, perché al salire di prezzi e stipendi aumenterebbero anche le tasse incassate, mentre il valore nominale del debito resterebbe lo stesso. Perciò, ridurre l’inflazione potrebbe non essere una loro priorità.

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Altri sostengono invece che l’inflazione possa continuare a salire anche sul lungo termine per motivi geopolitici e demografici. In primo luogo il ritorno del protezionismo (la cosiddetta “guerra commerciale” tra Cina e Stati Uniti), che porrebbe fine al ruolo che la globalizzazione ha avuto nel tenere bassa l’inflazione in Occidente grazie ai bassi costi di produzione in Cina. In secondo luogo, l’invecchiamento della popolazione cinese, che sta riducendo il bacino di forza lavoro del paese facendone aumentare i salari, cosa che si potrebbe tradurre in un prezzo più alto delle merci prodotte lì.

Altre voci autorevoli però non sono dello stesso avviso, almeno per quanto riguarda il medio termine. La BCE per esempio stima che la crescita del tasso d’inflazione nell’Eurozona sia solo temporanea, e che questo scenderà all’1,2 per cento nel 2022 per poi risalire leggermente all’1,4 per cento nel 2023, sempre sotto la soglia ottimale del 2 per cento. Il 5 maggio, il capo economista della banca, Philip Lane, ha ribadito questa visione dicendo che l’aumento dell’inflazione visto quest’anno è più che altro una reazione all’impatto negativo che la pandemia ha avuto l’anno scorso sulla crescita dei prezzi.

Perché i prezzi crescano a un livello sostenuto nel tempo, ha ricordato, non basta che salgano i costi delle aziende: serve che aumentino anche gli stipendi. Con le sue parole: serve uno «strong labor market», un mercato del lavoro forte, condizione che al momento, in Europa, manca.

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