Il coronavirus è vivo?

Per decidere se i virus siano esseri viventi dobbiamo prima metterci d'accordo su che cosa sia la vita, e non è per nulla semplice

Nel 1992 la NASA organizzò un incontro tra scienziati per confrontarsi sull’eventuale esistenza della vita in mondi lontani. Il dibattito doveva avere al centro concetti come l’origine e la ricerca della vita, ma divenne presto evidente un problema non da poco: prima di parlarne, sarebbe stato necessario definire con più esattezza che cosa si intendeva con la parola vita.

I ricercatori esposero le loro idee e teorie, affossandone alcune e mettendone altre insieme. Concordarono sul fatto che il metabolismo fosse essenziale, soprattutto perché è alla base dei meccanismi che forniscono l’energia a un organismo che deve poi produrre copie dei propri geni, che saranno passati alla generazione successiva. Con la riproduzione si verificano mutazioni di questi geni, le fondamenta dell’evoluzione e della capacità per gli organismi di adattarsi alle condizioni e agli ambienti in cui vivono, tramite il caso.

Alla fine della discussione, i ricercatori arrivarono a una definizione di poche parole, che circola ancora oggi: «Vita indica un sistema chimico che si autosostiene, in grado di evolversi in termini darwiniani».

Come abbiamo imparato nell’ultimo anno con la pandemia da coronavirus, i virus sono dei velocisti nell’evolvere e nel condizionare l’esistenza di miliardi di organismi, eppure non soddisfano pienamente la definizione sulla vita. Definirli è molto difficile e per questo da un secolo virologi, epidemiologi, biologi e altri ricercatori non concordano su quale risposta dare a una domanda apparentemente semplice: i virus sono vivi?

Il giornalista scientifico e collaboratore del New York Times Carl Zimmer ha di recente adattato un estratto del suo nuovo libro Life’s Edge (Dutton 2021) per raccontare a che punto siamo sull’annosa questione, e perché la pandemia dovrebbe insegnarci a pensare ai virus in modo diverso.

I virus, prima di vederli
Per millenni siamo stati a conoscenza di malattie come il vaiolo, il morbillo e la rabbia, senza sapere di preciso da cosa fossero causate. I batteri furono osservati per la prima volta verso la fine del Seicento, ma i virus molto più piccoli e impossibili da osservare con i microscopi di un tempo passarono a lungo inosservati.

Alla fine dell’Ottocento alcuni scienziati erano alle prese con il mosaico del tabacco, una strana malattia che provocava piccole macchie sulle foglie delle piante di tabacco e le faceva avvizzire, complicandone la coltivazione. Le analisi non avevano portato a rilevare funghi o batteri, eppure gli scienziati si accorsero che il trasferimento di linfa da una pianta malata faceva ammalare anche quelle sane. Provarono allora a filtrare la linfa attraverso i minuscoli pori della porcellana, ottenendo un liquido privo di cellule e di altri particolari microrganismi visibili al microscopio. Eppure, iniettandolo in una pianta sana la si faceva ugualmente ammalare.

Gli effetti della malattia causata dal virus su una foglia di tabacco (Wikimedia)

Gli esperimenti fecero concludere che nel liquido fosse rimasto qualcosa di inosservabile e diverso da tutto ciò che era stato scoperto fino ad allora. Fu chiamato “virus”, prendendo in prestito la parola latina che significa “veleno”. Nei primi decenni del Novecento ne furono scoperti molti altri, ma solo negli anni Trenta, con lo sviluppo dei primi microscopi elettronici, divenne possibile osservarli e capire che forma avessero.

Di ogni forma
In breve tempo ai ricercatori si aprì un mondo. C’erano virus simili a bastoncini come quelli del mosaico del tabacco, altri più elaborati simili a cavalletti da pittore e in grado di legarsi ai batteri (fagi), altri ancora sferici o con formazioni più elaborate sulla loro superficie, come nel caso dei coronavirus.

Questi ultimi furono scoperti negli anni Sessanta e chiamati così perché al microscopio sembrano avere un alone intorno che ricorda quello della corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera del Sole. Nei paesi dove la parola “corona” definisce il copricapo dei sovrani, le punte dei coronavirus vengono spesso associate a quelle delle corone.

Coronavirus, in rosso, tra i tessuti cellulari, osservati al microscopio elettronico (NIAID)

Diversi
Grazie alla diffusione di strumenti di osservazione e analisi sempre più accurati, i ricercatori iniziarono a scoprire nuove cose sui virus e a notare con loro sorpresa quanto fossero diversi da tutto il resto. I virus sono costituiti da proteine, proprio come noi, ma non portano con sé gli strumenti necessari per costruirle. Non hanno nemmeno la cassetta degli attrezzi (gli enzimi) per trasformare il cibo in energia, o per eliminare i rifiuti. Ma c’è dell’altro.

I virus si moltiplicano, ma non mangiano, non crescono e non si riproducono in senso stretto. Invadono le cellule e le trasformano in minuscole fotocopiatrici che produrranno innumerevoli copie del loro invasore. Alcuni tipi di virus resistono per mesi all’esterno degli organismi, attivandosi solo nel momento in cui entrano in contatto con un organismo con le giuste caratteristiche per essere sfruttato.

La lingua della vita
Far rientrare i virus nella definizione classica (ammesso ne esista veramente una) di vita non è semplice, ed era ancora più difficile nella prima metà del Novecento, quando gli scienziati iniziavano a prendere dimestichezza con questa cosa nuova. Nella seconda metà degli anni Trenta scoprirono che esponendo i virus ai raggi X si potevano “alterare” le caratteristiche delle particelle virali, in modo comparabile a quanto avveniva nei geni. Divenne evidente che i virus possono mutare, perché proprio come gli organismi viventi hanno i geni.

Come ricorda Zimmer, la vera natura dei geni divenne più chiara ai ricercatori negli anni Quaranta, quando si iniziò a capire il ruolo del DNA che li costituisce. Per interpretare correttamente le informazioni presenti in un gene, una cellula le trascrive tramite l’RNA, poi legge quest’ultimo per avere le istruzioni necessarie per creare una proteina. Alcuni virus utilizzano il DNA per i loro geni, altri come i coronavirus utilizzano direttamente l’RNA.

Cosa succede nel nucleo di una cellula per la produzione di nuove proteine (Sadava et al. La nuova biologia.blu © Zanichelli 2016)

Tramite queste scoperte, gli scienziati capirono che i virus riescono a condizionare il comportamento delle cellule perché parlano la loro stessa lingua, e in ultima istanza quella che usa la vita. Un essere umano possiede circa 20mila geni, l’attuale coronavirus ne ha appena 29, ma come abbiamo visto nell’ultimo anno è un numero più che sufficiente per colonizzare il pianeta e fare enormi danni.

Mutazioni
I virus sono del resto tipi versatili, mutano molto più spesso rispetto agli organismi e hanno quindi più opportunità di evolversi. Hanno maturato la capacità di passare attraverso diverse specie, compresa la nostra. Il coronavirus attuale, per esempio, ha probabilmente avuto origine nei pipistrelli ed è poi passato agli esseri umani sfruttando un passaggio offerto da una specie intermedia.

È sufficiente considerare gli ultimi tre mesi della pandemia per rendersi conto di quanto un virus sia in grado di rinnovare il proprio armamentario di geni per continuare a diffondersi. La selezione naturale ha favorito alcune mutazioni casuali del coronavirus facendo emergere varianti che sono più contagiose, e che potrebbero rendere meno efficaci i vaccini finora autorizzati.

Dal punto di vista dell’evoluzione, un virus rientra quindi ampiamente nella definizione di “vita” indicata nel 1992 alla conferenza della NASA. Sono invece carenti sul resto della definizione, in particolar modo di essere un «sistema chimico che si autosostiene». Eppure, se si prendessero alla lettera i requisiti per poter parlare di vita, i virus non sarebbero gli unici a rimanere tagliati fuori.

Riproduzione
Nel 1947 il biochimico ungherese Albert Szent-Györgyi formulò una tesi piuttosto forte tra scienza e filosofia: «Un coniglio non potrebbe riprodursi mai da solo. E se la vita è caratterizzata dalla capacità di autoriprodursi, allora un solo coniglio non potrebbe essere definito vivente. […] La parola stessa vita non ha senso».

L’obiezione scontata è che un coniglio sia un essere vivente, perché appartiene comunque a una specie che si autoriproduce. Ci sono però specie che fanno eccezione, come racconta Zimmer: una di queste è la Molly delle amazzoni (Poecilia formosa), i cui pesci vivono nel sud-ovest degli Stati Uniti e nel nord-est del Messico.

Un esemplare di Poecilia formosa (a sinistra) mentre cerca di attirare l’attenzione di un maschio di Poecilia latipinna (Manfred Schartl/picture-alliance/dpa/AP Images)

Secondo i ricercatori, questa specie ittica iniziò a evolversi per conto proprio circa 280mila anni fa, in seguito ad alcuni incroci tra altre due specie di pesci simili. A differenza di queste, tra le Molly delle amazzoni ci sono solo femmine che producono solamente altre femmine, cloni delle loro madri. Per fare in modo che le loro uova si sviluppino, le appartenenti a questa specie hanno dunque bisogno di accoppiarsi con pesci di specie con cui sono imparentate. Lo sperma che raggiunge le loro uova viene distrutto da alcuni enzimi delle Molly delle amazzoni, perché non hanno bisogno dei geni dei loro compagni, ma semplicemente dello stimolo giusto per avviare la loro riproduzione.

Una Molly delle amazzoni da sola non si può riprodurre, così come non possono farlo due Molly delle amazzoni. In un certo senso sono parassiti sessuali e se non fosse per le altre specie simili si sarebbero già estinte. Se nella definizione di vita comprendiamo la capacità di riprodursi in autonomia all’interno di una specie, questi pesci rendono necessaria per lo meno qualche deroga.

Rigidità
Alcuni scienziati e filosofi ritengono che tendiamo a definire le cose troppo rigidamente e dovremmo pensare alla vita come pensiamo ai giochi. Se proviamo a rispondere alla domanda “Che cos’è un gioco?” incontreremmo non poche difficoltà nel trovare una definizione univoca e soddisfacente. Non tutti i giochi prevedono che ci siano vincitori e perdenti, alcuni sono basati sulle carte, altri su scacchiere, alcuni portano a ricompense concrete, altri sono gratuiti o a pagamento.

Non dovremmo quindi mettere rigidamente dei paletti intorno al concetto di “vita” e ci dovremmo concentrare nella ricerca degli elementi in comune, ragionando per affinità. In questo senso una Molly delle amazzoni ha molte cose in comune con noi, sicuramente di più di quante ne abbiamo con i virus, e un virus è molto più simile a noi di quanto lo sia una goccia di pioggia.

Seguendo questo ragionamento, lo scienziato francese Patrick Forterre ha teorizzato che il dibattito intorno alla vita dei virus sia impostato nel modo sbagliato. Chi sostiene che un virus non sia vivente lo immagina come un guscio che contiene alcuni geni, isolato da tutto il resto. Quando infetta una cellula, un virus ne riorganizza buona parte delle attività trasformandola di fatto in una nuova forma di vita con obiettivi specifici dettati dalle istruzioni fornite dai geni virali. Forterre la chiama una “virocellula” e ritiene che in questa fase un virus sia vivo, eccome.

Questa visione è apparsa tirata per le orecchie alla maggior parte degli scienziati e non ha fatto molto breccia. La stessa Commissione Internazionale per la Tassonomia dei Virus (ICTV), il comitato che si occupa della classificazione dei virus, ha di fatto tagliato corto sul dibattito mantenendo una linea poco interlocutoria: «I virus non sono organismi viventi».

Intorno ai viventi
Chi non concorda con questa conclusione ricorda che poche altre cose al mondo sono così numerose e hanno strettamente a che fare con la vita. Si stima che ci siano più virus in un litro di acqua del mare che esseri umani sull’intero pianeta, e che i virus sulla Terra siano dieci volte tutte le forme di vita cellulare messe insieme. Sono tantissimi e molto diversi tra loro, secondo alcuni virologi potrebbero esserci migliaia di miliardi di specie diverse di virus.

Quanto alla prossimità con gli altri esseri viventi, basta un esempio per rendersi conto della scala e dell’influenza che hanno i virus sull’intero pianeta. Negli oceani, i fagi colonizzano centinaia di migliaia di miliardi di batteri ogni secondo. In un solo giorno causano la morte di almeno un terzo dei batteri che vivono negli oceani, dei quali si nutrono altre creature marine. I fagi popolano anche il nostro organismo e ci aiutano a mantenerci in salute, evitando che i batteri che sfruttiamo per vari scopi come la digestione diventino troppi e possano fare danni.


Con la loro abilità nel trasferire materiale genetico tra le cellule, i virus hanno un ruolo molto importante nel favorire l’esistenza di altre specie. Alcuni fagi negli oceani, per esempio, portano con sé geni che aiutano i loro ospiti a svolgere più efficacemente la fotosintesi. Considerato che sono questi microrganismi a produrre buona parte dell’ossigeno, possiamo dire che alcuni virus ci aiutano a respirare, esattamente al contrario di cosa fa l’attuale coronavirus quando innesca gravi infezioni polmonari.

Parte di noi
Nei milioni di anni in cui hanno accompagnato l’evoluzione delle specie, pezzetti di virus sono talvolta diventati una parte integrante dell’esistenza di alcuni esseri viventi. Gli antenati degli attuali mammiferi (la classe cui apparteniamo anche noi) presero in prestito il materiale genetico di un virus, che consentiva di produrre proteine per rendere la placenta uno strato di cellule interconnesse tra loro, in grado di trasferire le sostanze nutrienti dalla madre verso gli embrioni. Quella selezione casuale, insieme ad altre, rese più versatili le dinamiche di riproduzione dei mammiferi e i loro successivi passaggi evolutivi, che in ultima istanza portarono alla capacità per la nostra specie di studiare e comprendere un mondo infinitamente piccolo e complesso, che sia vivente o meno.

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