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  • Lunedì 1 marzo 2021

La “strategia zero-COVID” ora ha senso?

C'è chi propone rigidi lockdown per rallentare la diffusione delle varianti del coronavirus ed evitare una nuova ondata, ma non tutti sono convinti

(Sean Gallup/Getty Images)
(Sean Gallup/Getty Images)

La quantità ancora sostenuta di nuovi casi positivi in Europa e le preoccupazioni per la crescente circolazione delle varianti, che possono rendere più contagioso il coronavirus, ha spinto alcuni epidemiologi ed esperti a riproporre il ricorso a limitazioni e lockdown molto più severi degli attuali, e simili a quelli adottati nella primavera dello scorso anno quando il continente si stava confrontando con la “prima ondata”. La loro proposta è di adottare una “strategia zero-COVID” con restrizioni piuttosto drastiche, in modo da ridurre il più possibile i contagi e tenere meglio sotto controllo la pandemia. Sostengono che una soluzione di questo tipo sarebbe più utile delle misure a intermittenza adottate finora dai governi, soprattutto in Europa, ma non tutti sono convinti.

“Zero-COVID”
Il termine “zero-COVID” può apparire fuorviante e potrebbe indurre a pensare che la strategia miri a eradicare il coronavirus, eliminandolo dalle nostre esistenze: sarebbe un obiettivo estremamente ambizioso e irrealizzabile alle attuali condizioni. La strategia proposta mira a qualcosa di diverso: ridurre i nuovi casi positivi al minimo possibile.

Per farlo si dovrebbero seguire le pratiche adottate in diversi paesi nella primavera del 2020, isolando quindi le aree dove il coronavirus è più presente e rafforzando i sistemi per fare i test. Si dovrebbe poi riprendere l’attività di tracciamento dei contatti, abbandonata o molto ridotta negli ultimi mesi in vari paesi (in Italia si è mantenuto a livelli piuttosto alti, almeno secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità).

Si dovrebbe poi intervenire in modo più incisivo nella gestione dei confini, mettendo in pratica limitazioni più rigide agli spostamenti. Misure di questo tipo potrebbero essere attenuate identificando “zone verdi” dove la circolazione del coronavirus è pressoché assente, e tra le quali ci si potrebbe spostare senza particolari limiti.

Nuova Zelanda
I sostenitori della zero-COVID citano spesso la Nuova Zelanda come esempio virtuoso della loro strategia. All’inizio della pandemia, il governo neozelandese aveva seguito un approccio simile a quello di molti altri paesi: contrastare la diffusione della malattia utilizzando i piani pandemici già esistenti per l’influenza, confidando in questo modo di mantenere entro livelli tollerabili il carico di lavoro per il sistema sanitario.

Dopo qualche settimana divenne evidente che le misure previste dal piano pandemico neozelandese non erano sufficienti, e il paese passò all’adozione di rigidi lockdown che consentirono di ridurre il numero di nuovi casi e la circolazione del coronavirus. Non fu un approccio molto diverso da quello seguito dai paesi europei con i lockdown primaverili, ma a differenza di questi la Nuova Zelanda mantenne un alto controllo anche nei mesi seguenti (quando in Europa era estate e per i neozelandesi era inverno).

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Le limitazioni lungo i confini furono mantenute per molti mesi dopo l’avvio del lockdown e non cessarono le attività di tracciamento dei contatti. In diversi casi fu sufficiente l’identificazione di una manciata di nuovi casi per indurre le autorità neozelandesi a imporre nuovi rigidi lockdown, per evitare che si verificassero nuovi focolai e che potessero poi portare a una maggiore circolazione del coronavirus, vanificando parte degli sforzi fatti nei mesi precedenti.

In Australia fu seguito un approccio simile. Per esempio, lo stato di Victoria avviò nel luglio scorso un lockdown di circa quattro mesi e di recente ha adottato nuove restrizioni piuttosto rigide, dopo avere rilevato appena 13 nuovi casi positivi.

Confini
Nuova Zelanda e Australia sono riuscite a contenere la pandemia anche grazie alla loro conformazione geografica e al fatto di essere luoghi isolati, nel senso più letterale del termine e prive di confini diretti con altri paesi. La possibilità di controllare più rigidamente i flussi di persone in entrata e in uscita ha influito sensibilmente e un fenomeno analogo è stato del resto osservato in altri paesi con caratteristiche simili.

L’Islanda, per esempio, è riuscita a ridurre i nuovi contagi e a tenere meglio sotto controllo l’epidemia anche nel momento in cui diversi paesi europei facevano i conti con la “seconda ondata”. Anche in questo caso il vantaggio principale è derivato dalla possibilità di controllare meglio i flussi di persone, senza contare la diversa e minore densità abitativa rispetto a molti stati europei.

Occasione sprecata?
Seppure con lo svantaggio di avere molti più confini territoriali, durante la scorsa primavera la maggior parte degli stati europei era riuscita a ridurre sensibilmente la circolazione del coronavirus grazie a lockdown molto rigidi. L’approccio aveva funzionato bene e, complice l’arrivo della stagione calda con maggiori opportunità di rimanere all’aperto (dove il rischio di contagio è più basso), l’inizio dell’estate aveva portato a una situazione di relativa calma inducendo i governi ad allentare o rimuovere buona parte delle restrizioni che avevano imposto.

A luglio dello scorso anno, il Consiglio Europeo, la riunione dei capi di stato e di governo dell’Unione Europea, aveva concluso un proprio incontro sostenendo che fosse iniziato il momento della ripresa. Citava la necessità di mantenere alta la guardia, ma al tempo stesso ribadiva che fosse arrivato il momento di riprendere le attività per mitigare gli effetti dell’emergenza sanitaria dal punto di vista economico.

All’epoca si avevano meno elementi di adesso per comprendere l’impatto di quelle decisioni, ma è comunque vero che diversi esperti avessero invitato a maggiori cautele per evitare un nuovo aumento dei contagi. Seppure non le uniche, le riaperture nell’estate furono tra i fattori che prepararono la “seconda ondata” in Europa dell’autunno e i cui effetti sono ancora visibili oggi.

La reazione tra ottobre e novembre fu tardiva e poco incisiva, secondo i sostenitori della strategia zero-COVID. Stretti dalla necessità di contenere i danni economici, quasi tutti i governi europei optarono per limitazioni intermittenti e meno rigide rispetto a quelle della primavera, agendo quando ormai era troppo tardi e inseguendo la pandemia invece di controllarla.

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Isolamento
Il principio base della strategia zero-COVID non è molto diverso da quanto si facesse già in altri periodi storici, come nel Medioevo. All’epoca non c’erano naturalmente tutte le conoscenze mediche e sul funzionamento dei patogeni (come virus e batteri) che abbiamo oggi, ma era diventato abbastanza chiaro che le persone malate dovevano essere isolate da quelle sane, per evitare che ci fossero nuovi contagi.

Il problema veniva talvolta affrontato in modo spiccio e drastico, per esempio murando vivi i malati nelle loro case, come avvenne nel periodo della Peste Nera nella prima metà del Quattrocento. Altre soluzioni prevedevano l’istituzione di ambienti isolati dove raccogliere i malati come i lazzaretti a Venezia di inizio Quattrocento, o l’adozione della quarantena, cioè di un periodo di isolamento prima di potere entrare nelle città. La minore circolazione delle persone rispetto a oggi, dovuta alla difficoltà degli spostamenti e alla loro durata, contribuiva a rendere efficaci le misure di contenimento.

Spostarsi e viaggiare oggi è naturalmente molto più semplice di allora e in molti casi non implica trovare particolari ostacoli lungo i confini, soprattutto nei paesi europei dove è prevista la libera circolazione. Alcuni paesi negli ultimi mesi hanno comunque adottato misure per ridurre gli spostamenti delle persone oltre i rispettivi confini, provando al tempo stesso a identificare le aree dove il coronavirus circolasse di più e imponendo in queste maggiori restrizioni.

L’approccio è una via di mezzo tra i lockdown rigidi e generalizzati proposti da chi sostiene la strategia zero-COVID e una sostanziale riapertura, come avvenuto la scorsa estate. In Germania il governo ha per esempio deciso di mantenere un lockdown relativamente rigido, con alcune amministrazioni locali che hanno sperimentato soluzioni più incisive oppure l’istituzione di “aree verdi” dove la circolazione del coronavirus è molto bassa e si possono quindi allentare alcune restrizioni.

In Italia un approccio misto è seguito dallo scorso autunno, e ha portato alla definizione di diverse aree di rischio (bianca, gialla, arancione, rossa), che cambiano periodicamente a seconda dell’andamento dei contagi. Il sistema modulare non convince tutti gli esperti, perché porta a intervenire tardivamente e solo quando la situazione inizia a deteriorarsi, con minori possibilità di prevenire nuovi contagi. La politica è stata rivista nelle ultime settimane con l’istituzione di “aree rosse locali” per le zone con alta circolazione del coronavirus, o con una concentrazione preoccupante di varianti più contagiose, dove sono previste maggiori restrizioni, seppure più sfumate rispetto a quelle adottate con il lockdown generale della primavera scorsa.

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Problemi
Il progressivo affermarsi di alcune varianti che sembrano rendere più contagioso il coronavirus, come la cosiddetta “variante inglese”, ha complicato le strategie di contenimento della pandemia in alcuni paesi. Le misure adottate si sono rivelate poco efficaci per ridurre la diffusione delle varianti e di conseguenza per tenere sotto controllo i nuovi casi. Per questo chi sostiene la “strategia zero-COVID” ritiene che un nuovo lockdown possa ridurre sensibilmente la diffusione del coronavirus, prevenendo il rischio di una nuova ondata che metterebbe nuovamente in difficoltà i sistemi sanitari.

I governi sono però restii ad adottare nuove misure drastiche, sia per motivi economici sia perché si inizia a registrare una certa fatica tra la popolazione, cui sono stati chiesti numerosi sacrifici nel corso dell’ultimo anno. I benefici economici nel breve periodo nel non chiudere tutto potrebbero però essere superati dagli svantaggi di subire una nuova ondata, con maggiori e dolorose conseguenze, nel medio-lungo termine.

Chi propende per la “strategia zero-COVID” sostiene che un lockdown per tempo potrebbe escludere questa eventualità, rendendo poi possibile un recupero più rapido delle attività economiche con minori strascichi legati a limitazioni parziali o intermittenti ancora in vigore. I detrattori segnalano come non ci siano elementi a sufficienza per ritenere questa strada praticabile, soprattutto in Europa dove sarebbe necessario un maggiore coordinamento tra gli stati rispetto a quanto accaduto nella scorsa estate, quando le decisioni più importanti furono assunte dai singoli governi nazionali anche in termini di circolazione degli individui (molti paesi avevano necessità di sostenere il settore del turismo).

Il sistema di tracciamento dei contatti è inoltre saltato con la “seconda ondata”, quando i casi erano diventati talmente tanti da renderlo poco praticabile. Nel caso in cui non venisse ripristinato e rafforzato, mancherebbe uno strumento importante per identificare e bloccare rapidamente i focolai, anche se in compenso ci sarebbe la possibilità di eseguire velocemente un maggior numero di test rispetto a quanto avvenisse nella primavera del 2020.

Vaccini
Un’importante differenza rispetto a un anno fa è inoltre la disponibilità dei vaccini contro il coronavirus, che come mostrano i dati da Israele possono fare la differenza nel controllo e nel contenimento della pandemia. Le campagne vaccinali stanno però procedendo a rilento nell’Unione Europea, in una fase in cui si stanno diffondendo nuove varianti ritenute preoccupanti dagli esperti per l’andamento dei nuovi contagi. Le autorità europee stanno provando ad accelerare i processi nella fornitura delle dosi ai singoli stati membri, ma ci sono comunque numerosi problemi logistici legati anche alla somministrazione a livello nazionale.

Una forte accelerazione nelle campagne vaccinali sarebbe la via auspicabile per ridurre il rischio che i sistemi sanitari tornino a essere sotto forte stress, con la conseguente morte di migliaia di persone, ma gli obiettivi fissati dall’Unione Europea per vaccinare il 70 per cento dei cittadini europei entro l’estate appaiono estremamente ottimistici e difficili da realizzare agli attuali ritmi di vaccinazione.