Cosa sappiamo della nuova variante del coronavirus

È emersa nel Regno Unito, è il frutto di numerose mutazioni e sembra diffondersi più facilmente di altre, ma ci sono ancora molte cose da capire

di Emanuele Menietti – @emenietti

Da un paio di giorni c’è grande attenzione intorno a B.1.1.7, una variante del coronavirus SARS-CoV-2 da poco identificata nel Regno Unito e che sembra essere in grado di diffondersi con maggiore facilità rispetto alle varianti finora circolate, e che hanno comportato la pandemia in corso. Per precauzione, diversi paesi – compresa l’Italia – hanno sospeso i voli da e verso il Regno Unito, mentre i ricercatori sono al lavoro per capire se effettivamente B.1.1.7 sia una novità di cui preoccuparsi.

Nonostante le dichiarazioni piuttosto allarmate del primo ministro britannico, Boris Johnson, a oggi non ci sono elementi per sostenere con certezza che questa variante possa influire sensibilmente sull’andamento della pandemia. Virologi ed esperti stanno ancora valutando la situazione e molti di loro non sono ancora convinti che B.1.1.7 sia più abile nel passare da individuo a individuo rispetto ad altre varianti del coronavirus già note e analizzate.

La scoperta
I consulenti scientifici del governo britannico si sono accorti che qualcosa non stesse andando per il verso giusto lo scorso 8 dicembre, quando hanno notato che nel Kent, nell’Inghilterra sud-orientale, si stava affermando una variante particolare del coronavirus, con caratteristiche uniche nella sua evoluzione rilevate a fine estate.

Nelle ultime due settimane, la variante nota come B.1.1.7 è risultata essere tra le più diffuse in diverse aree del Regno Unito, compresa Londra, e si è probabilmente ormai diffusa anche in altri paesi europei, seppure con una minore incidenza (almeno secondo i dati raccolti finora).

Ciò che aveva colpito e continua a tenere impegnati i ricercatori è la velocità con cui si sono accumulate ben 17 diverse mutazioni che hanno portato alla nuova variante. È estremamente raro che un virus accumuli in poco tempo così tante mutazioni e che queste concorrano insieme a costituire una variante, significativamente diversa da quelle di partenza. Per questo i ricercatori sono al lavoro per studiare le mutazioni, comprendere meglio che cosa facciano e determinare quindi se la nuova variante possa essere definita più rischiosa delle altre.

Mutazioni e varianti
Per capire meglio la storia di B.1.1.7 occorre fare qualche passo indietro, con un ripasso sulle mutazioni. Un virus entra in un organismo e ne sfrutta le cellule per replicarsi, cioè per creare nuove copie di se stesso che poi si legheranno ad altre cellule per continuare il processo. Non è un meccanismo molto preciso e può portare ad alcuni errori nella fase in cui il materiale genetico del virus viene trascritto per farne una copia, un po’ come avviene quando si ricopia un testo e inavvertitamente si scrive un refuso. È nell’ordine delle cose, succede di continuo in natura nei processi di replicazione del materiale genetico. Il risultato di questi refusi sono mutazioni, quasi sempre innocue e che si trasmettono alle generazioni successive, accumulandosi a quelle nuove prodotte dai processi di replicazione.

Queste imprecisioni determinano il progressivo allargamento dell’albero genealogico di un virus, con nuovi rami che però non implicano lo sviluppo di un nuovo “ceppo virale”. I virologi riservano questa definizione per una nuova generazione di virus che presenti differenze marcate e significative rispetto alle precedenti, soprattutto negli esiti delle sue attività.

Anche se non tutti concordano sul limite oltre il quale si possa parlare di nuovo ceppo, si tengono in considerazione criteri come: modificata capacità del virus di causare una malattia (virulenza), nuova resistenza ai trattamenti farmacologici che prima riuscivano a tenerlo sotto controllo, aumentata capacità di eludere le difese immunitarie dell’organismo.

B.1.1.7
L’attuale coronavirus è diventato in pochi mesi uno dei virus più studiati nell’intera storia dell’umanità. I ricercatori ne hanno osservato le evoluzioni man mano che si diffondeva nella popolazione e nelle diverse parti del mondo, rilevando una media di 1-2 mutazioni al mese. Rispetto al coronavirus identificato in Cina a inizio anno, significa che oggi ci sono in circolazione versioni del virus con circa 20 differenze. Non era però ancora successo che i ricercatori rilevassero quasi 20 mutazioni che a quanto pare si sono manifestate sostanzialmente in una volta sola.

L’ipotesi è che le mutazioni si siano accumulate in un individuo che ha convissuto a lungo con il coronavirus, circostanza che ha permesso al virus di evolversi rapidamente. Diverse mutazioni si sarebbero manifestate, in competizione evolutiva tra loro, portando infine alla variante ora definita B.1.1.7 e che si è poi diffusa tra la popolazione.

Nel Regno Unito si sono accorti che questa variante si stesse diffondendo velocemente grazie ai test molecolari, quelli svolti analizzando i campioni di saliva e muco raccolti con un tampone che va in profondità nelle cavità nasali e nel cavo orale.

Le prime tracce della variante furono trovate alla fine dello scorso settembre. A metà novembre B.1.1.7 era alla base del 26 per cento circa dei nuovi casi positivi rilevati nel Regno Unito. A partire dal 9 dicembre l’incidenza era molto più alta e si stima che la variante sia ormai prevalente a Londra, con il 60 per cento dei nuovi casi riconducibili al virus mutato.

Nel corso di una conferenza stampa, Johnson ha detto che le varie mutazioni avrebbero fatto aumentare del 70 per cento la capacità del coronavirus di trasmettersi tra gli individui, spiegando di avere deciso un nuovo lockdown anche per questo motivo. Le sue dichiarazioni non hanno però convinto i ricercatori, che ritengono premature conclusioni di questo tipo: B.1.1.7 potrebbe essersi diffuso di più banalmente per una casualità e questo ci porta a qualche mese fa, quando per qualche giorno si discusse di una variante spagnola del coronavirus ritenuta in grado di diffondersi con più facilità.

La “variante spagnola”
Oggi i ricercatori ritengono che in realtà la “variante spagnola” (B.1.177, da non confondere con la sigla di quella britannica) non fosse più trasmissibile rispetto ad altre: più semplicemente, si diffuse in seguito alla ripresa del turismo in Spagna durante l’estate, con diversi viaggiatori che l’avrebbero contratta durante le loro vacanze e poi importata nei loro rispettivi paesi. Potrebbe essersi verificato qualcosa di analogo con B.1.1.7, considerato l’alto numero di spostamenti della popolazione nell’area metropolitana di Londra.

La nuova variante non deve comunque essere sottovalutata e per questo sono in corso diverse ricerche sulle sue caratteristiche. Tra le 17 mutazioni che ha accumulato ce ne sono 8 che interessano il gene che contiene le istruzioni per produrre la proteina che si trova sulle punte del coronavirus, e che il virus sfrutta per eludere le difese delle membrane cellulari per iniettare all’interno delle cellule il proprio materiale genetico e replicarsi.

Mutazioni e gravità della malattia
Una mutazione, chiamata N501Y, è conosciuta già da qualche tempo ed è nota per potenziare la capacità del coronavirus di legarsi alle membrane cellulari. La mutazione 69-70del, invece, contribuisce a rendere più sfuggente il coronavirus alle difese immunitarie, soprattutto negli individui immunodepressi (quindi con un sistema immunitario meno efficiente). Questa mutazione è ritenuta responsabile della minore efficacia di alcune terapie per trattare i casi gravi di COVID-19, come quelle a base di plasma dei convalescenti. Non è però ancora chiaro se la mutazione da sola determini questa circostanza o se ce ne siano altre che concorrono al fenomeno.

È comunque ancora presto per sostenere che B.1.1.7 causi una versione più grave della COVID-19, semplicemente perché non sono stati ancora raccolti dati a sufficienza dagli attuali pazienti, o da chi si era ammalato nelle settimane scorse. Nel caso della variante spagnola, alcuni stimarono che ci potesse essere un aumento del 50 per cento nella letalità, ma successive analisi esclusero questa possibilità; la stima era stata fatta sulla base di dati poco affidabili o raccolti in circostanze difficili da verificare.

Niente voli
L’interruzione dei voli da e verso il Regno Unito decisa da numerosi paesi negli ultimi giorni potrebbe contribuire a rallentare la diffusione della nuova variante, ma secondo i ricercatori è probabile che ormai B.1.1.7 abbia iniziato a diffondersi ampiamente all’estero, considerato che era in circolazione da diverse settimane nel Regno Unito. Nei Paesi Bassi è stata isolata la variante in almeno un individuo, e lo stesso è avvenuto in Italia con un individuo rientrato dal Regno Unito e che ora si trova in isolamento.

E i vaccini?
Negli ultimi giorni sono anche circolate notizie sul rischio che i vaccini autorizzati o in fase di autorizzazione siano meno efficaci con questa variante. Anche in questo caso è molto presto per fare affermazioni di questo tipo, senza contare che i vaccini intervengono su diversi meccanismi per fare in modo che il sistema immunitario impari a riconoscere e a fermare il coronavirus, prima che faccia danni. Non ci sono elementi per sostenere che i vaccini non funzionino contro questa variante, ma ne sapremo di più nelle prossime settimane, osservando anche l’andamento della pandemia nei paesi dove si è già iniziato a vaccinare, come il Regno Unito.

In linea generale, comunque, i vaccini sono utili non solo per proteggere i singoli, ma proprio per contribuire a far circolare sempre meno i virus contro i quali sono stati sviluppati. Una minore circolazione di un virus implica un minore passaggio da individuo a individuo, e quindi una ridotta possibilità che il virus evolva e accumuli nuove mutazioni. D’altro canto, la presenza del vaccino potrebbe spingere il coronavirus a evolvere in modo diverso, e per questo è importante sorvegliare le sue mutazioni.

La vicenda di B.1.1.7 ha comunque dimostrato che il sistema di controllo e analisi delle evoluzioni del coronavirus è diventato piuttosto accurato, anche se è comunque difficile evitare che particolari varianti si diffondano tra la popolazione. Riuscire a identificare quanto prima queste evoluzioni potrebbe rivelarsi un’attività essenziale nei prossimi mesi, di pari passo con le campagne vaccinali per rallentare il più possibile la pandemia.

Riassumendo
• Mutazioni del coronavirus SARS-CoV-2 emergono di continuo, portando a varianti che circolano per mesi tra la popolazione. B.1.1.7 è una variante particolare, con un alto numero di mutazioni.
• Ci sono indicazioni per ritenere che B.1.1.7 si diffonda più facilmente di altre varianti, ma i dati sono ancora preliminari e da approfondire.
• Non ci sono a oggi elementi certi per sostenere che B.1.1.7 causi forme più gravi di COVID-19.
• La variante sembra rendere più contagiosi gli infetti, ma non a maggior rischio di sviluppare sintomi gravi.
• Non sappiamo ancora se B.1.1.7 renda meno efficaci i vaccini finora sviluppati e/o autorizzati, ma ci sono elementi per essere ottimisti sul mantenimento della loro capacità di contrastare il coronavirus.
• Vaccinarsi è e continuerà a essere la via più importante per ridurre la circolazione del coronavirus, ma se B.1.1.7 si dimostrasse più trasmissibile continuerà a essere importante l’uso di precauzioni come impiego delle mascherine e distanziamento fisico.