Il plasma dei convalescenti è davvero utile contro il coronavirus?

Un nuovo ampio studio non ha rilevato variazioni tra i pazienti sottoposti alle trasfusioni e quelli trattati con le terapie standard, ma non tutti sono convinti dai risultati

(Guillermo Legaria/Getty Images)
(Guillermo Legaria/Getty Images)

Il primo studio controllato randomizzato – quindi con un gruppo di controllo – sull’impiego del sangue dei convalescenti da COVID-19 per trattare i pazienti con la malattia causata dal coronavirus non ha fatto rilevare particolari benefici, né nel ridurre il rischio di sviluppare sintomi più gravi né nel ridurre la letalità tra gli individui ricoverati. I risultati della ricerca, pubblicati sul British Medical Journal (BMJ), portano nuovi elementi nel confronto tra medici e ricercatori sulle trasfusioni di plasma per aiutare il sistema immunitario dei malati a contrastare l’infezione virale.

Lo studio è stato condotto in India e ha interessato 464 pazienti adulti, ricoverati in 39 ospedali del paese. I ricercatori hanno valutato la progressione della malattia tra due gruppi: uno costituito da 235 pazienti cui era stato somministrato il plasma e un altro di controllo, comprendente 229 partecipanti sottoposti ai trattamenti standard contro la COVID-19. A 28 giorni dall’avvio dell’indagine, i ricercatori hanno rilevato un peggioramento dei sintomi nel 19 per cento dei pazienti appartenenti al primo gruppo e nel 18 per cento dei ricoverati del gruppo di controllo.

I risultati sembrano indicare una scarsa efficacia dei trattamenti con il plasma, ma lo studio ha ricevuto diverse critiche da chi si è occupato in questi mesi di portare avanti i programmi di somministrazione del sangue dei convalescenti, avviati in diversi paesi.

Come con altre malattie infettive, la guarigione dalla COVID-19 avviene quando il sistema immunitario impara a riconoscere il coronavirus, impedendogli di continuare a replicarsi nell’organismo facendo danni. In molti pazienti, la carica di anticorpi contro il virus rimane consistente nei giorni della loro convalescenza e i medici confidano di sfruttare questa condizione, effettuando prelievi del loro sangue ricco di anticorpi per iniettarlo nei nuovi malati.

Il trattamento si rivela utile se viene effettuato nella fase iniziale della malattia, quando ancora l’organismo dell’infetto non ha prodotto quantità rilevanti di anticorpi. Nel caso dello studio condotto in India, le trasfusioni sono state effettuate nella maggior parte dei casi a più di una settimana dal momento dell’infezione, cosa che potrebbe avere falsato in parte i risultati della sperimentazione.

L’anestesista Michael Joyner (Mayo Clinic), responsabile dello studio sul plasma dei convalescenti che ha portato all’autorizzazione della pratica negli Stati Uniti, ha spiegato che probabilmente la ricerca svolta in India avrebbe portato a conclusioni più significative se i pazienti fossero stati trattati precocemente, quindi a minore distanza di tempo dal loro contagio. Ha comunque riconosciuto la serietà dello studio, ricordando che il suo avvio già ad aprile ha probabilmente influito sul suo svolgimento, considerato che sette mesi fa erano noti meno dettagli sulla COVID-19.

Altri ricercatori hanno fatto notare che i livelli di anticorpi presenti nel plasma utilizzato sui volontari erano relativamente bassi, inferiori a quanto consigliato da qualche mese a questa parte per i trattamenti. Nello studio viene comunque indicato che i pazienti che avevano ricevuto dosi più alte rispetto ad altri non avevano fatto rilevare miglioramenti significativi dei sintomi.

Nonostante siano impiegate in diversi paesi, e con protocolli in via di definizione, le trasfusioni di plasma dei convalescenti sono ancora viste con scetticismo da vari esperti. Le riserve derivano sia dalle difficoltà di somministrazione sia dalla scarsa disponibilità. Identificare i pazienti convalescenti adatti e procedere con i prelievi richiede tempo, e porta comunque ad avere una quantità di sacche limitata rispetto al numero di malati di COVID-19 che potrebbero riceverle.

C’è inoltre la preoccupazione che un’eccessiva attenzione su questo tipo di terapia distolga l’interesse da altre terapie sperimentali, che hanno bisogno di medici e volontari per essere verificate. I pazienti potrebbero essere meno inclini ad aderire a una sperimentazione diversa da quella sul plasma dai convalescenti, se questa continuasse a essere ampiamente promossa da alcune istituzioni e dai media.

Diversi ricercatori ritengono che la strada giusta per le terapie di questo tipo passi per l’impiego di farmaci con anticorpi “artificiali” (anticorpi monoclonali), come il REGN-COV2 dell’azienda di biotecnologie statunitense Regeneron di cui si era molto parlato nelle settimane scorse, in seguito al suo impiego per trattare la COVID-19 che aveva interessato Donald Trump.

Farmaci di questo tipo potranno essere reperibili più facilmente rispetto al plasma dei convalescenti, dovrebbero comportare minori rischi di reazioni avverse e potrebbero essere impiegati su un maggior numero di pazienti. Come diversi altri trattamenti per la COVID-19 devono comunque essere ancora testati su un numero sufficiente di individui, per valutarne sicurezza ed efficacia.