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  • Giovedì 12 novembre 2020

Il 23 febbraio 2020 a Bergamo

Comincia da lì il libro del sindaco Giorgio Gori su quest'anno, quello che c'è stato prima e quello che potrebbe esserci dopo

Il centro di Bergamo lo scorso marzo (ANSA/ FILIPPO VENEZIA)
Il centro di Bergamo lo scorso marzo (ANSA/ FILIPPO VENEZIA)

Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha pubblicato un libro per Rizzoli intitolato Riscatto, nella forma di una lunga intervista da parte del giornalista Francesco Cancellato. Gori è stato testimone di due recenti storie italiane importanti in contesti diversi – la crisi del coronavirus che ha colpito la zona di Bergamo prima e peggio di tutte le altre, e le trasformazioni del Partito Democratico negli ultimi anni – oltre ad avere una precedente biografia già ricca di esperienze. Tutte queste cose, insieme a molte riflessioni politiche sul presente e sul futuro dell’Italia, sono raccontate nel libro, che comincia dal 23 febbraio 2020.

*****

Sono passati diversi mesi da quel giorno, e l’emergenza è fortunatamente ormai molto lontana. Nonostante ciò, Giorgio, credo sia doveroso iniziare questa conversazione da una data triste. Se ti dico domenica 23 febbraio, ore 16.30, cosa ti viene in mente?

È il giorno in cui anche in provincia di Bergamo si registrano i primi due casi di Coronavirus, l’inizio dell’incubo. È la giornata del pronto soccorso di Alzano Lombardo, chiuso in seguito alla scoperta e riaperto dopo due ore e una sommaria sanificazione per decisione dell’allora direttore generale della Sanità di Regione Lombardia Luigi Cajazzo: fatti di cui verremo a sapere diversi giorni dopo. Nel frattempo siamo appesi alle notizie che arrivano da Roma e da Milano. Il giorno prima il governo aveva istituito la zona rossa del Lodigiano e sospeso le manifestazioni sportive in Lombardia e Veneto. Stop dunque ad Atalanta-Sassuolo, prevista per il 23 pomeriggio. Le università, a loro volta, avevano fermato le lezioni. La mattina della domenica la Regione anticipa che entro la giornata varerà un’ordinanza per trasformare l’intera Lombardia in «zona gialla». Chiuse dunque le scuole, i cinema, i musei e i bar dopo le diciotto. Ma le informazioni non sono chiare e la giornata trascorre nell’incertezza. È la domenica di Carnevale e in tutta la provincia sono previste manifestazioni e sfilate. I sindaci non sanno come comportarsi. Qualcuno le sospende, qualcun altro lascia che si svolgano. Anche in città va così, un po’ a macchia di leopardo: non ci sono direttive. Finché arrivano le notizie da Alzano e la convocazione – da parte Regione – di tutti i sindaci lombardi, fissata per il tardo pomeriggio. Si organizzano assemblee nei capoluoghi e qui da noi ci ritroviamo tutti ammassati nella sala grande del Centro Congressi, accanto alla sede dell’«Eco di Bergamo», ad ascoltare il presidente Fontana e l’assessore Gallera collegati da Milano.

Mascherine nemmeno a parlarne…

Qualcuno con la mascherina c’è, e gli altri lo guardano pure storto. Del resto, siamo tutti totalmente inconsapevoli del rischio. Sindaci e amministratori di 243 comuni stipati in una sala senza alcuna precauzione, col senno di poi una totale follia. Fontana e Gallera riferiscono che il numero dei casi di contagio in Lombardia è in rapida crescita, e anticipano i contenuti dell’ordinanza che ancora non è uscita. Sentiamo per la prima volta l’espressione «tossire nel gomito», che poi diventerà familiare.

Eravate preoccupati?

Devo essere onesto: non più di tanto. È abbastanza straniante pensare che la cosa di cui fino a pochi giorni prima leggevamo sul giornale – per quello che era accaduto a Wuhan, dall’altra parte del mondo – assolutamente lontana, possa ritrovarsi lì, a pochi chilometri da noi. «Vedrai che non saranno tanti casi» ci diciamo, «basterà essere prudenti.»

All’inizio anche tu, come il sindaco di Milano, il presidente della Regione Lombardia e molti altri amministratori locali, hai invitato le persone a non chiudersi in casa, a continuare la vita di tutti i giorni…

C’era in quei giorni una generale sottovalutazione. Non avevamo nessuna idea della dimensione del contagio che era già ampiamente presente in Lombardia, in quell’ultima settimana di febbraio. Non l’avevamo noi amministratori locali, certo. Ma non ce l’avevano nemmeno gli esperti e gli scienziati, i primi a sottovalutare il contagio, e con loro la stampa. I contagi erano in crescita e c’erano stati i primi decessi, ma l’opinione diffusa era che non si dovesse esagerare con gli allarmismi. Per Fontana, del resto, era «poco più che un’influenza» e anche gli esperti ci dicevano che fuori dalle «zone rosse» – i dieci comuni del Lodigiano e Vo’ Euganeo – la vita poteva continuare normalmente.

In realtà, non stava continuando normalmente proprio un bel niente. A Milano c’erano già stati gli assalti ai supermercati e il lievito per fare il pane era già diventato introvabile…

E infatti noi eravamo preoccupati soprattutto di quello: che la paura – che pensavamo in quel momento non giustificata – trasformasse di colpo gli stili di vita. I ristoranti erano regolarmente aperti, ma erano vuoti, e così i negozi e i bar, che in quella prima fase potevano operare fino alle diciotto. Noi sindaci delle regioni del Nord eravamo i destinatari degli allarmi delle associazioni dei commercianti per il drastico crollo dei consumi.

È così che nascono gli slogan su Milano, Bergamo e Brescia che «non si fermano»?

Sì. E a onor del vero lo stesso succede in tante altre città: per esempio a Verona, a Torino, a Parma, quest’ultima comprensibilmente restia a rinunciare al suo anno da capitale della cultura appena iniziato, e in altri capoluoghi. In quelle ore abbiamo immaginato di poter tenere insieme prudenza e fiducia, rispetto delle nuove disposizioni e «normalità» della nostra vita. C’è dentro di noi un istinto che ci spinge a rifiutare la prospettiva di vedere la nostra esistenza minacciata e stravolta, e che ci tiene aggrappati alla nostra routine. Be’, ci sbagliavamo.

Sei stato uno dei primi, e dei pochi, ad ammettere quell’errore…

Ti dirò di più: i cittadini avevano capito più di noi cosa stesse succedendo. E mi sono molto dispiaciuto, personalmente, di non aver compreso per tempo e di aver trasferito loro – per quanto in buona fede – alcuni messaggi oggettivamente superficiali. Ho riguardato tante volte la foto che ho postato su Instagram la sera del 27 febbraio, quella in cui sono al ristorante con mia moglie e sorridiamo. L’intento è spiegato nel breve testo che l’accompagna, «dare un piccolo segnale: per dire a noi stessi, e per dire a tutti, FORZA BERGAMO!». Io volevo fare coraggio alla mia gente. Non potevo immaginare di quanta forza avremmo avuto molto bisogno nelle settimane successive.

Poi hai cambiato completamente linea. «Il governo fermi tutto per quindici giorni: dobbiamo fare come Codogno» dichiari. Come mai questa retromarcia?

Non è una retromarcia, è un salto in avanti. Perché le cose succedono velocemente, più rapidamente di quanto proceda la capacità di comprensione. Ancora il 5 marzo, mentre si discuteva della possibile zona rossa ad Alzano e Nembro, mentre raccomandavo ai miei cittadini di seguire le prescrizioni anti-contagio e aggiungevo «Andrà tutto bene», scrivevo su Twitter: «Le persone anziane devono essere più prudenti e limitare spostamenti e relazioni» – e in effetti avevo già da giorni obbligato i miei genitori a starsene tappati in casa – e però continuavo «ma per tutte le altre non c’è motivo per non uscire, entrare in un negozio o farsi una passeggiata in centro». Eccomi lì, di nuovo, avvinghiato alle ultime speranze di normalità. E invece…

E invece?

E invece ogni giornata era uno scalino: di peggioramento della situazione e di necessaria crescita della consapevolezza di quanto stava accadendo. La sera di quello stesso 5 marzo, alle 22.27, ricevo una mail da una dirigente sanitaria che non conosco. Ha avuto il mio indirizzo privato da un amico comune e mi ha scritto, sperando di farmi capire cosa sta succedendo in provincia di Bergamo, perché a mia volta apra gli occhi ad altri. Va dritta al punto, usa i numeri. Mi spiega che l’infezione si sta propagando con un R0 – il numero di riproduzione di base – pari a 2: ogni paziente positivo ne infetta due in tre giorni, con un andamento esponenziale. Il 45 per cento dei casi è sintomatico, il 10 per cento necessita di terapia intensiva. E di questo passo, in pochi giorni, i posti di terapia intensiva saranno finiti. Non c’è alternativa a fermarsi per almeno due o tre settimane, mi scrive. Sembra un messaggio piovuto da un altro pianeta. E invece è esattamente quello che accade. Quando capisco che bisogna chiudere tutto e lancio la proposta dello stop – «Anticipiamo il Ferragosto» – sono passate solo due settimane da «Bergamo non ti fermare!». Sembra l’extrema ratio: in realtà, anche questa proposta è insufficiente. Passa un solo giorno e già capisco che non ce la caveremo così facilmente.

[…]

Cosa fai, mentre sei lì alla tua scrivania?

Conto i morti, letteralmente. Per tutto marzo riusciamo ancora a recuperare i dati ufficiali sui decessi COVID per singolo comune, prima che la Regione li renda inaccessibili. E sono numeri che non tornano: troppo bassi. Chiedo all’anagrafe di farmi un calcolo sulla differenza tra i decessi delle prime settimane di marzo e la media di quelli registrati nello stesso periodo nei dieci anni precedenti. Il risultato è impressionante. I morti dal 1° al 24 marzo sono 446, 348 in più che negli anni precedenti (quando erano stati mediamente 98). È un aumento del 455 per cento. Per la Regione i decessi COVID della città sono invece solo 136. Ne mancano all’appello 212. Prendo il telefono e chiamo una dozzina di sindaci della provincia, di zone diverse, quelli che conosco meglio. Chiedo loro di fare lo stesso conto con i rispettivi uffici e quando mi richiamano annoto tutto su alcuni fogli, a mano. Il riscontro è lo stesso ovunque, in alcuni casi ancora più eclatante.

Come mai questa differenza tra i vostri calcoli e i dati ufficiali?

La ragione è semplice quanto drammatica. I decessi comunicati dalla Regione e dalla Protezione Civile, e acquisiti nelle statistiche ufficiali, riguardano solo le persone decedute dopo essere state sottoposte al tampone e quindi ufficialmente diagnosticate come affette da COVID-19. Ma i tamponi disponibili sono pochissimi – non più di 350 al giorno per l’intera provincia di Bergamo, per almeno tutto marzo – e vengono riservati ai malati che arrivano negli ospedali in condizioni gravissime, appena prima del ricovero. Anche chi si presenta con 40 di febbre, ma senza importanti problemi respiratori, viene rimandato a casa, con prescrizione di isolamento, senza che gli venga fatto il tampone. Quei 212 allora sono le persone decedute nelle case di riposo e i tanti che sono morti nelle loro abitazioni senza che ci fosse la possibilità di fare loro un tampone e tantomeno di ricoverarli. Alla fine saranno 670 solo in città, circa seimila in tutta la provincia, il doppio di quanto figura nelle statistiche ufficiali.

Che ricordo hai della tua città, in quei giorni?

Bergamo è deserta, e di una bellezza straziante. Marzo è pieno di sole e questo rende ancora più crudele la segregazione a cui tutti sono costretti. Il dolore è compresso nelle case. Parlo spesso con i dirigenti dell’ospedale, tutti i vertici si sono ammalati e sono a casa. Al telefono ne sento la tosse e la fatica a respirare.

[…]

Cos’è successo con la Regione? Anche nella gestione di un’emergenza come questa è impossibile evitare polemiche, strumentalizzazioni, liti?

Eravamo partiti bene, in realtà: avevamo deciso di istituire una sorta di «tavolo permanente» con Fontana, i suoi principali assessori e tutti i sindaci delle città capoluogo lombarde, e i primi incontri in videoconferenza erano stati abbastanza costruttivi e cordiali. Poi il clima è cambiato.

Quando, e soprattutto perché, il rapporto con Regione Lombardia si è deteriorato?

Il 1° aprile sette di noi – oltre a me i sindaci di Milano, Brescia, Cremona, Mantova, Lecco e Varese –, dopo averlo fatto più volte a quel tavolo, hanno osato rivolgere pubblicamente al presidente della Regione quattro semplici domande. Perché in Lombardia non ci sono le mascherine? Cosa sta succedendo nelle RSA? Perché si continuano a fare pochi tamponi? Quando partiranno i test sierologici? Domande ragionevoli, mi pare, formulate con garbo istituzionale, senza intento polemico. Messe per iscritto per la semplice ragione che a quel tavolo i sindaci non avevano avuto alcun riscontro. Be’, apriti cielo. Tempo due ore e Fontana, guardandosi bene dal dare qualunque risposta, denuncia su Facebook la «bieca speculazione politica». Da lì la qualità del rapporto precipita, inevitabilmente. Si sa come siano andate poi le cose in Lombardia, su quei quattro fronti: mascherine, RSA, tamponi e test sierologici. La violenza di quanto accaduto qui è certamente un’attenuante, ma di errori se ne sono fatti. Troppi.

Ci sono state diverse polemiche, e c’è pure un’inchiesta in corso, sulla mancata chiusura di quel pezzo di Bassa Val Seriana in cui si situano Alzano e Nembro, i due comuni in cui è esplosa l’epidemia nella Bergamasca. C’è chi accusa il governo di non aver chiuso per tempo quell’area come fu chiuso il triangolo Codogno-Casalpusterlengo-Castiglione d’Adda, e chi dice che la Regione avrebbe dovuto prendere in mano la situazione, e ancora chi accusa gli imprenditori di aver fatto pressioni sulla politica e chi pensa che anche con la zona rossa non sarebbe cambiato nulla. Qual è il tuo ricordo di quei giorni?

Sono i primi giorni di marzo e il numero dei contagi sta aumentando costantemente. Siamo ancora nell’ordi­ne di decine di nuovi positivi al giorno – parlo della provincia di Bergamo –, ma la crescita è molto veloce. È chiaro a tutti che ad Alzano Lombardo e a Nembro c’è il focolaio più virulento, verosimilmente partito dall’ospe­dale di Alzano dove diverse persone affette da Corona­ virus, non diagnosticate, sono rimaste per giorni in mezzo ad altri pazienti e al personale medico privi di qualunque protezione. Anche a Bergamo ci sono nume­ rosi contagi ma il grosso è lì, nella Bassa Val Seriana.

Quand’è che senti per la prima volta parlare di zona rossa ad Alzano e Nembro?

Il tema zona rossa aleggia da giorni, ma è solo nel pomeriggio del 3 marzo che diventa esplicito. Ne parla il professor Giovanni Rezza e ricordo che il primo lancio di agenzia mi fa fare un salto sulla sedia, perché sembra che voglia includere anche Bergamo. Tempo un paio d’ore e arriva la precisazione da parte dello stesso membro del Comitato tecnico scientifico: si ritiene che serva una zona rossa a Nembro e Alzano per proteggere Bergamo, ossia per evitare che l’incendio arrivi alla città. Diversi mesi più tardi, dopo che il TAR ne ha imposto la «desecretazione», abbiamo letto il verbale della riunione tenuta quel giorno dal CTS e scoperto che un’esplicita sollecitazione in tal senso era stata rivolta al governo.

Perché il governo non si è mosso? Perché si è arrivati – nella notte tra il 7 e l’8, quattro giorni dopo – alla decisione di non istituire alcuna zona rossa e trasformare invece in «zona arancione» l’intera Lombardia e altre quattordici province?

Non lo so. In quei giorni registro le paure degli imprenditori della Val Seriana. Sono spaventati: l’idea è che tutto il mondo vada avanti – fornitori, clienti, concorrenti – mentre loro rischiano di restare inchiodati dalla zona rossa. Parlo con Paolo Piantoni, il direttore di Confindustria Bergamo, che non è contrario alla restrizione. Ha letto il dispositivo con cui il prefetto di Lodi ha perfezionato il precedente provvedimento del governo su Codogno e gli altri nove comuni di quella zona, e pensa che se quello di Nembro e Alzano dovesse ricalcarne i contenuti ci sarebbe comunque spazio per salvaguardare le attività più connesse all’export. Lo riferisco a Pierino Persico, che sento poco dopo, non ricordo se il 4 o il 5 marzo.

Chi è Pierino Persico?

È forse il più importante imprenditore della zona: partito da zero cinquant’anni fa – faceva il modellista, ancora conserva il modello in legno di un vecchio telefono da parete in bachelite –, ha costruito un’azienda che è un gioiello. Lavora per l’automotive italiano e tedesco, realizza le barche che gareggiano in Coppa America. Lo sento preoccupato. Teme che in poche settimane possano andare persi clienti e risultati costruiti con fatica in tanti anni di lavoro. Ma proprio non ce lo vedo a «far pressioni sulla politica». Cerco di rassicurarlo e gli dico che il rischio, se non si fa la zona rossa, è che le cose si aggravino al punto da costringerci a chiusure ben più estese e prolungate. Le notizie che arrivano da Roma sembrano preludere a una decisione imminente – entro la giornata, forse in quella successiva –, ma la decisione non arriva. In Val Seriana arriva invece l’esercito, a conferma che dovrebbe essere questione di ore. Eppure non succede nulla. Chiamo i sindaci di Nembro e Alzano e mi metto a loro disposizione. Mi riferiscono di un clima surreale nei loro paesi, dove in attesa del lockdown tutto è paralizzato, come se il lockdown fosse già in vigore. In un’intervista a «Repubblica» dico che la decisione non può più essere rimandata.

Alla fine la zona rossa di Alzano e Nembro non arriva…

L’idea che mi sono fatto è che più che le pressioni – se mai ce ne sono state – abbiano influito i numeri. Ogni giorno quello dei contagiati aumentava in varie aree della regione. Il quadro era quello contenuto nel «messaggio in bottiglia» arrivato sulla mia casella di posta la sera del 5 marzo: crescita esponenziale. Secondo me, a un certo punto – tra la sera del 3 e quella del 7 marzo – chiudere Alzano e Nembro è sembrato al tempo stesso tardivo e insufficiente. E a Roma si è deciso che bisognava adottare un provvedimento esteso a tutta la Lombardia.

E la Regione, in tutto questo?

Si è defilata. Sabato 7 marzo, alle quattordici, mi ritrovo con i sindaci dei capoluoghi in videoconferenza con il presidente Fontana e l’assessore Gallera. Fontana ci riferisce d’aver parlato con i suoi «costituzionalisti», i quali gli hanno spiegato che la Regione non può fare nulla, non ha titolo per decretare la zona rossa. È la posizione che ha tenuto in quei giorni: alzare le mani e dire «non compete a me», rimandare tutto al governo. Un mese dopo Gallera racconterà d’aver «approfondito» la questione, scoprendo che in realtà la Regione avrebbe potuto agire per conto suo. Come dimostrano del resto le zone rosse autonomamente istituite dall’EmiliaRomagna, dal Lazio, dalla Campania e dalla Calabria. Si sarebbe potuto fare e non si è fatto.

In realtà, uno studio della Regione e delle ATS lombarde dice che la prima persona ad accusare i sintomi del COVID è un uomo di Curno, attorno al 15 gennaio, un mese prima del «paziente 1» scoperto a Codogno. Perché non siamo riusciti a diagnosticare prima il Coronavirus? Eppure c’era una circolare del ministero della Salute del 22 gennaio che diceva di testare tutti i pazienti con polmoniti virali anomale…

Se è per quello in provincia di Bergamo ci sono testimonianze di numerosi casi di polmoniti anomale, resistenti agli antibiotici, che riportano ai primi di gennaio. Ne parla tra gli altri il dottor Pietro Poidomani, medico di base di Cividate al Piano. Alcuni riferiscono di casi a dicembre. Fatto sta che mi pare acclarato che il paziente 1 – Mattia Maestri, il maratoneta di Codogno – non fosse affatto il primo, e lo stesso vale per gli altri casi accertati in quei giorni ad Alzano Lombardo. Il virus circolava da settimane in diverse zone della Lombardia, difficile dire da quante, e tra queste certamente Bergamo. Viaggiava sotto il pelo dell’acqua, invisibile e insidioso come un sottomarino, favorito dalla nostra assoluta inconsapevolezza.

In molti, soprattutto all’estero, hanno indicato la partita di Champions League Atalanta-Valencia, giocata a San Siro la sera del 19 febbraio, come la causa dell’epidemia che ha travolto Bergamo e la sua provincia…

Io non credo lo sia stata. Il virus, appunto, circolava da settimane. Ma certamente se lo avessimo saputo, se qualcuno avesse suonato per tempo l’allarme, avremmo evitato di andare in quarantamila a Milano e di abbracciarci sugli spalti del Meazza, di stringerci nelle auto e sui pullman, e di trovarci nei bar e nelle case per seguire insieme la partita e, anche lì, di abbracciarci dopo ognuno dei quattro gol segnati dall’Atalanta. Noi non sapevamo niente: il paziente 1, quello ufficiale, sarebbe arrivato solo il giorno dopo. Io credo che questa sia la domanda fondamentale che dobbiamo porre sull’epidemia che ci ha travolto, molto più della mancata zona rossa di Nembro e Alzano: perché non siamo riusciti a diagnosticare almeno un caso di Coronavirus prima del 20 di febbraio?

Perché è la domanda più importante, secondo te?

Perché con la zona rossa di Alzano e Nembro il governo e la Regione hanno perso al massimo quattro giorni: non pochi – considerando che eravamo nel momento di massima accelerazione del contagio – ma pur sempre solo quattro. Mentre non aver diagnosticato per tempo il Coronavirus, a gennaio – quando si sarebbe potuto fare –, ci è costato un ritardo di settimane nell’allestire le difese.

Proviamo a ricostruire quei giorni, a partire dal 22 gennaio…

Sappiamo che il 22 gennaio il ministero della Salute costituisce una task force, preparandosi all’evenienza che il Coronavirus possa arrivare in Italia, e dirama una circolare agli assessorati alla Salute di tutte le regioni, agli Ordini nazionali dei medici e degli infermieri e ad altre autorità. È una circolare che, se applicata, potrebbe salvare centinaia di vite, forse migliaia, e comunque scrivere una diversa storia dell’epidemia nel nostro Paese. Dice in sostanza che vanno segnalati tutti i casi che presentano un’«infezione respiratoria acuta grave, […] con febbre e tosse, che ha richiesto il ricovero in ospedale», ma anche ogni paziente che «manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato […] nonostante un trattamento adeguato» e questo «senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio». Tradotto: se vedete delle polmoniti anomale, segnalatele. Sennonché, cinque giorni dopo la linea cambia. Il 27 gennaio esce una nuova circolare del ministero, che restringe il campo delle segnalazioni a «chi ha una storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina». Nei fatti, lo spettro del radar si stringe improvvisamente da 360 a un solo grado.

E infatti nessuno segnala nulla fino al 20 febbraio. Quando, va detto, il paziente 1 emerge solo perché qualcuno decide di infischiarsene della circolare – Mattia Maestri non era mai stato a Wuhan, né risulta che avesse avuto contatti diretti con qualcuno che c’era stato – e di fargli comunque il tampone. A chi è stata effettivamente recapitata la circolare del 22 gennaio? È vero che è «vissuta» solo cinque giorni, ma in quel breve intervallo di tempo qualcuno avrebbe potuto farne buon uso. E ancora: chi e perché fa cambiare linea al ministero della Salute, inducendolo a restringere il campo di indagine ai soli casi riconducibili alla Cina? Sono due domande a cui mi piacerebbe avere risposta, prima o poi.

Mi permetto di aggiungerne una terza: perché il virus ha colpito così duro a Bergamo? Le indagini di sieroprevalenza dell’ISTAT hanno detto che è stato a contatto con il virus un bergamasco su quattro. E secondo uno studio del «Financial Times», in provincia il tasso di mortalità in eccesso ha raggiunto il 464 per cento nei mesi di marzo e aprile. Sono cifre pazzesche, che hanno pochi eguali al mondo. Come mai, secondo te?

Le dimensioni del contagio derivano a mio parere da una somma di ragioni. Alcune le abbiamo indicate e hanno a che fare con la sequenza degli eventi, con gli allarmi non dati e con le decisioni non prese. Quando ad Alzano Lombardo «sbucano» i primi due casi, il Coronavirus circola già da diverse settimane, indisturbato. È entrato nelle fabbriche, nelle RSA, è andato in discoteca e a San Siro per Atalanta-Valencia. Nessuno lo ha segnalato perché l’identikit che era stato diramato restringeva il campo di indagine ai malati di ritorno da Wuhan. Quando il sottomarino emerge, il 22 febbraio ad Alzano, ha già fatto parecchia strada. A quel punto si fanno altri errori.

Quali errori?

Il pasticcio all’ospedale di Alzano, la mancata istituzione della zona rossa. Ormai l’epidemia galoppa e le ore fanno la differenza. Se ne perdono troppe. Si trascurano informazioni essenziali. Il Comitato tecnico scientifico che si riunisce il 3 marzo – e che pure arriva a sollecitare l’istituzione di una zona rossa in Val Seriana – ha sotto gli occhi una fotografia parziale della situazione. I dati trasmessi quel giorno dalla Regione Lombardia all’Istituto Superiore di Sanità non corrispondono infatti al reale andamento dell’epidemia nella Bergamasca. La Regione comunica che i contagiati in provincia di Bergamo sono 372. In realtà sono già 579, ma i dati aggiornati non sono ancora stati inseriti, e nessuno può quindi saperlo. All’ini­zio dell’epidemia – dice uno studio della stessa Regione Lombardia – il ritardo tra la ricezione del risultato del tampone e l’inserimento nel database è mediamente di 3,6 giorni. Che si aggiungono ai 5,2 giorni che mediamente trascorrono dalla comparsa dei sintomi alla diagnosi. Fatto sta che mentre il governo prende e forse perde tempo – il presidente del Consiglio Conte dichiarerà di aver visto il verbale del CTS del 3 marzo solo due giorni dopo –, mentre la Regione Lombardia alza le mani e dice «non tocca a me», Bergamo ha già cento contagiati più del Lodigiano.

E i tamponi sono sempre troppo pochi…

A Bergamo e provincia a marzo non superano i 350 al giorno, in tutta la Lombardia arrivano al massimo a cinquemila. La Regione dice che di più non si riesce, che i laboratori attrezzati sono pochi, che è impossibile tro­vare i reagenti. I tamponi quindi si fanno solo negli ospedali e solo ai malati molto gravi. È la vera differen­za rispetto al Veneto. Qui le diagnosi si fanno solo in ospedale, dove risulta ricoverato il 65 per cento dei positivi (certificati), con il rischio che gli stessi ospedali diventino veicolo di contagio; mentre in provincia di Padova viene ricoverato solo il 20 per cento dei contagiati. In Veneto i tamponi – in proporzione molto più numerosi – vengono fatti dai medici di base, dai presidi territoriali: in Lombardia non succede. Migliaia di positivi non vengono sottoposti al tampone e continuano a muoversi liberamente prima che scattino le misure restrittive. Quando l’epidemia esplode emergono poi tutte le falle del sistema sanitario lombardo, a cui Bergamo non fa eccezione.

Le falle del sistema lombardo? Ma la sanità della Lombardia non è eccellenza assoluta?

Ci sono gli ospedali, ottimi, pubblici e privati, e tutto intorno c’è il deserto. Concedimi una similitudine. È come se la riforma Maroni avesse disboscato i crinali delle montagne: tutto bene fino a che c’è il sole, ma quando comincia a piovere il terreno non è in grado di trattenere l’acqua e comincia a franare.

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