Cosa fu la Mala del Brenta
Quarant’anni fa lo Stato capì che a Venezia e dintorni stava succedendo qualcosa: era iniziata la strana storia della mafia veneta, la prima e unica organizzazione mafiosa nata nel Nord Italia
di Pietro Cabrio
Il fiume Brenta nasce in Trentino-Alto Adige, scende per Bassano del Grappa e Cittadella, attraversa la provincia padovana e finisce nel veneziano. Contribuì all’origine della laguna, e proprio i veneziani ne deviarono il corso nel Seicento, portandolo a sfociare nel mare Adriatico per proteggere le acque basse della laguna da sedimenti e alluvioni. Da almeno quarant’anni il suo nome è associato anche a una delle organizzazioni criminali più particolari nella storia italiana, la cosiddetta “Mala del Brenta”, che controllò per anni la malavita nel Triveneto per poi sparire quasi completamente per mano del suo stesso capo, dopo essere stata riconosciuta dalla giustizia come la prima e ancora unica organizzazione mafiosa nata nel Nord Italia.
Il capo della Mala del Brenta fu Felice Maniero, la cui iniziativa portò alla creazione di un’associazione di bande locali che ottenne il controllo incontrastato delle province di Venezia e Padova, Treviso e Vicenza, oltre che dei centri del Friuli Venezia Giulia. Maniero fu un capo sui generis. Si dimostrava molto più giovane di quello che era — da qui il soprannome “Faccia d’angelo” — parlava con una voce stridula e viveva con la madre, con la quale aveva un rapporto molto stretto. La morte del padre per un tumore allo stomaco lo aveva fatto diventare ipocondriaco, motivo per cui si nutriva principalmente di riso bianco e mele, certo di avere anche lui la stessa malattia. Era germofobo e in alcuni periodi la paura di ammalarsi, o di essere già malato, diventava tale da convincerlo a isolarsi a lungo in casa.
Maniero fu il capo, la persona grazie alla quale la banda prosperò e allo stesso tempo colui che la distrusse. Nel 1994 si fece catturare a Torino, sei mesi dopo essere evaso dal carcere di massima sicurezza di Padova, per collaborare con la giustizia. Cercando di salvare sé stesso, il suo patrimonio e le persone a lui più vicine dal carcere e da probabili vendette, consegnò alla giustizia il resto dell’organizzazione: un caso più unico che raro di sradicamento pressoché totale di un tessuto criminale dal suo luogo di origine.
Dal 1974 al 1994 trascorse in carcere meno di dieci anni; nel maxi-processo nato dalla sua collaborazione fu condannato a 17 anni, scontati però in regime di semilibertà e in affidamento in prova, nonostante i capi d’imputazione comprendessero anche sette omicidi. Da allora vive sotto false identità e con un tesoro nascosto da qualche parte, come spesso ha fatto intendere: «Io ho detto tutto, senza nascondere nulla. Ho sempre avuto un solo scheletro nell’armadio: i soldi. Di quelli non parlerò mai».
La Mala del Brenta si sviluppò negli anni Settanta su iniziativa di un gruppo di piccoli banditi originario di Campolongo Maggiore, paese della Riviera del Brenta, la zona con cui si indicano i territori fra il nuovo e il vecchio corso del fiume: grossomodo dai dintorni di Padova a Porto Marghera. Per “riviera” si intendono anche le zone dell’entroterra, luoghi agricoli come Campolongo Maggiore, un tempo fra i più poveri e disagiati di una regione già di per sé poverissima come lo era il Veneto nella metà del Novecento.
Fin da inizio secolo in quella zona esistevano piccoli gruppi dediti ad attività criminali minori ma di lungo corso, come furti di bestiame e prodotti alimentari. A Campolongo la generazione di Maniero, adulta all’inizio del boom economico veneto, si diede però anche alle rapine ai laboratori orafi e agli istituti di credito, con le quali si ingrossò fino a riunire le comunità criminali di Mestre, Venezia e San Donà di Piave: lo zoccolo duro dell’organizzazione da cui iniziò l’espansione verso tutto il Triveneto, in parte dell’Emilia-Romagna e nella zona adriatica della Jugoslavia, dove era solita rifornirsi di armi da uno dei figli di Franjo Tudjman, presidente croato durante le guerre balcaniche.
Le persone più vicine a Maniero erano tutte originarie o frequentavano assiduamente Campolongo. E avevano storie in comune, come quella di Gilberto Sorgato, uno dei primi membri della banda: «Sono nato in una famiglia poverissima, sei sorelle e io. Mio padre ubriaco tutti i giorni. Non avevamo nulla da mangiare. Ogni sera dovevamo scappare di casa perché mio padre rientrava e riempiva di botte mia madre. Mi misero in riformatorio ma scappai più di una volta. Alla fine mi chiusero in un manicomio per un mese: a otto anni dormii in camera insieme a persone che ne avevano cinquanta, sessanta. A undici iniziai a fare il manovale, a quindici diventai abbastanza forte da picchiare mio padre perché non toccasse più mia madre. Poi cominciai con i furti».
Le rapine furono l’attività principale della banda e la preferita di Maniero, che proprio grazie alle sue abilità nel compierle – riconosciute allo stesso modo da complici e investigatori – si fece largo nella criminalità fino a crearsi dei contatti con le mafie del Sud Italia, agevolati peraltro dalla presenza nelle campagne venete di alcuni esponenti di spicco di queste organizzazioni, come Salvatore Contorno, Antonio Fidanzati e Salvatore Lojacono, che negli anni Ottanta erano stati mandati inavvertitamente in soggiorno obbligato proprio nei luoghi della banda.
Organizzandole in squadre da non più di dieci persone, Maniero pianificò alcune delle rapine più eclatanti mai compiute in Italia. A fine anni Settanta la banda rubò dalla Basilica di San Marco la Madonna Nicopeia, un’icona saccheggiata da Costantinopoli durante le crociate e da allora a Venezia, ricoperta d’oro, pietre preziose, argento e perle. Con quel furto Maniero cercò di mettere pressione allo Stato e chiese l’annullamento della sorveglianza speciale a cui era sottoposto, in seguito effettivamente revocata. Per simili ragioni negli anni Novanta venne rubata la cosiddetta “lingua del santo” dalla Basilica di Sant’Antonio a Padova, fatta ritrovare due mesi dopo il furto nelle campagne di Fiumicino, nel Lazio.
Nel 1982 la banda svaligiò l’Hotel Des Bains al Lido di Venezia, l’albergo di Morte a Venezia di Luchino Visconti e delle celebrità durante la Mostra del Cinema. L’anno successivo portò via 170 chili d’oro dall’Aeroporto Marco Polo di Tessera, e nel 1984 rubò 2 miliardi di lire dalla sede al Lido del Casinò di Venezia. Nel 1990 la banda rapinò un treno portavalori fermandolo nelle campagne padovane, ma il colpo andò male. Maniero diede l’ordine di aprire una breccia nel vagone indicato, ma nel lato opposto si fermò un treno passeggeri partito da Bologna e diretto a Venezia. L’esplosione aprì il convoglio da una parte ma fu così forte da coinvolgere anche l’altro lato, uccidendo sul colpo una studentessa di Conegliano, Cristina Pavesi, e ferendo altri passeggeri.
Furono però il controllo delle bische e dello strozzinaggio al Casinò di Venezia le attività dalle quali iniziò simbolicamente la storia della Mala del Brenta. La notte del 10 ottobre 1980 i “cambisti” che operavano al Casinò di Venezia sul Canal Grande prestando soldi ai giocatori vennero raggiunti sul luogo dalla banda, allontanati e malmenati. Si rifiutavano di dare una percentuale dei loro facili guadagni, motivo per cui almeno due di loro vennero uccisi nel giro di poco tempo. Gli altri garantirono alla banda 56 milioni di lire al mese per quasi quindici anni. La vicenda, alla quale assistettero diversi testimoni — e per la quale i responsabili furono condannati a due mesi di carcere — arrivò sui giornali e fece parlare parecchio: da lì la procura di Venezia capì che qualcosa stava cambiando.
Dopo rapine, sequestri di persona, estorsioni, traffico di armi e gioco d’azzardo, negli anni Ottanta la Mala del Brenta assunse il suo ultimo e definitivo stadio con lo spaccio di droga, propiziato dai contatti con le mafie del Sud. Tramite loro, o talvolta direttamente, Maniero iniziò a rifornirsi di cocaina dalla Colombia e di eroina dalla Turchia per venderla indisturbato nei luoghi che controllava, grossomodo da Vicenza a Udine. Con la droga la banda si arricchì a dismisura, e Maniero ancora di più. Secondo Silvano Maritan, capo del gruppo dei sandonatesi condannato a 33 anni, Maniero arrivò ad accumulare 360 miliardi di lire, oltre 180 milioni di euro. Ma il cosiddetto “tesoro” di Maniero rimane un mistero: dopo il suo pentimento, la giustizia si limitò a sequestrare beni per 3 miliardi di lire a fronte di un patrimonio stimato realisticamente in 100 miliardi, dei quali Maniero negli anni successivi ne denunciò soltanto trentatré.
«Chiedo un urgente colloquio da attivarsi con la massima riservatezza per questioni di massimo interesse per la giustizia», così Maniero, un giorno dopo essere stato arrestato in centro a Torino, iniziò a collaborare con la giustizia. Le sue confessioni al procuratore di Venezia Antonio Fojadelli – raccolte nei mesi successivi all’arresto con sedute giornaliere di anche otto ore – portarono all’arresto di quasi 400 persone e poi al maxi processo svolto in 92 udienze nell’aula bunker di Mestre. Il processo fu a carico di 54 imputati, accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico internazionale di droga e di una ventina di omicidi, quasi tutti riguardanti membri della banda o banditi locali — di cui Maniero fece ritrovare i corpi, sepolti lungo gli argini del Brenta — ad eccezione dell’omicidio di Cristina Pavesi. Il primo grado del processo si concluse nel 2008 con condanne per 539 anni e 8 mesi e il riconoscimento dello stampo mafioso, confermato in appello e in cassazione.
Nel corso degli anni Maniero ha raccontato più volte i motivi dietro il suo pentimento: «La decisione di collaborare con la Giustizia risale a parecchio tempo prima dell’arresto. Almeno un paio d’anni. Non ne potevo più di avere a che fare con dei cretini. Anche se mi permettevano di fare i soldi, non sentivo di avere nulla a che spartire con quelli con cui lavoravo. Erano stupidi, tant’è che l’unico che ha fatto fortuna sono stato io. Tutti gli altri sono finiti in miseria».
Dopo il primo grado conclusosi nel 2008, Maniero ha vissuto sotto false identità tra Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna e Abruzzo, reinventandosi imprenditore: prima nella vendita di articoli per la casa, poi nel settore turistico e infine nella vendita di impianti per la depurazione dell’acqua, tutte attività nate probabilmente dall’esigenza di giustificare un tenore di vita sostenuto da un patrimonio nascosto. Nel 2019 è stato nuovamente arrestato a Brescia, dove vivrebbe tuttora, con l’accusa di maltrattamenti nei confronti della compagna, madre della sua figlia minore. La figlia maggiore, Elena, venne invece trovata morta nel 2006 nel cortile del condominio di Pescara dove abitava sotto falsa identità: il caso è stato accertato come suicidio, ma ciclicamente si torna ancora a parlare della possibilità che si sia trattato di un omicidio legato al passato del padre. A distanza di anni, diversi ex membri della Mala del Brenta continuano a non fare mistero dei loro desideri di vendetta.
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