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  • Giovedì 1 ottobre 2020

Anche il Sudan riconoscerà Israele?

Gli Stati Uniti stanno spingendo molto ma la decisione potrebbe mettere in difficoltà il governo del paese africano, che già è debolissimo

Il segretario di Stato americano Mike Pompeo con il generale sudanese Abdel Fattah al Burhan, capo del Concilio militare, lo scorso agosto a Khartoum (Sudanese Cabinet via AP)
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo con il generale sudanese Abdel Fattah al Burhan, capo del Concilio militare, lo scorso agosto a Khartoum (Sudanese Cabinet via AP)

Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno promesso al Sudan aiuti economici e l’eliminazione dalla lista dei paesi sostenitori del terrorismo se lo stato africano riconoscerà Israele, diventando così il terzo grande paese a maggioranza musulmana a farlo dopo Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Ma le insistenze americane potrebbero mettere in crisi la fragile transizione democratica del Sudan, che è uscito soltanto l’anno scorso dalla dittatura trentennale di Omar al Bashir e il cui governo è ancora sotto la tutela di un Consiglio di militari legati al vecchio regime.

L’amministrazione di Donald Trump considera l’aver spinto Emirati e Bahrein ad avviare relazioni diplomatiche con Israele uno dei suoi maggiori successi in politica estera, e il presidente ha fretta di ottenere altri risultati del genere prima delle elezioni di novembre. A metà settembre, durante una visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Trump ha detto che «almeno cinque o sei paesi» stanno per riconoscere Israele dopo i primi due. Il successo più grande sarebbe l’Arabia Saudita: se la maggiore potenza sunnita – che custodisce le moschee della Mecca e di Medina – decidesse di riconoscere Israele, sarebbe una novità di enorme importanza per tutto il mondo musulmano.

L’Arabia Saudita, però, per ora sembra fuori portata, e dunque l’amministrazione americana ha concentrato i suoi sforzi sul Sudan. Alla fine di agosto il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha visitato Khartoum, la capitale del Sudan, e il mese successivo il generale Abdel Fattah al Burhan, che presiede il Consiglio militare sudanese, è andato ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, per incontrare i funzionari americani e continuare i negoziati.

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Gli Stati Uniti hanno un argomento molto forte dalla loro parte: il segretario di Stato, senza bisogno dell’autorizzazione del Congresso americano, può decidere in qualsiasi momento di togliere uno stato dalla lista dei paesi sostenitori del terrorismo, nella quale il Sudan è presente dagli anni di Bashir. Le autorità sudanesi hanno cominciato l’anno scorso a negoziare per togliere il paese dalla lista e sbloccare così la possibilità di ricevere miliardi di dollari in aiuti e prestiti internazionali di cui il Sudan ha bisogno urgente.

I negoziati procedevano spediti e, come ha spiegato al Washington Post Cameron Hudson dell’Atlantic Council, un think tank, il Sudan stava soddisfacendo man mano tutti i requisiti necessari. Ma dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato che avevano riconosciuto Israele, il dipartimento di Stato ha chiesto che anche il Sudan facesse altrettanto.

Ci sono però due problemi che rendono difficile questa scelta per il Sudan. Il primo è che l’opinione pubblica locale è generalmente contraria. Il Sudan e Israele non hanno mai avuto rapporti diplomatici, e fu proprio a Khartoum che nel 1967 la Lega araba (di cui fa parte anche il Sudan) si riunì per approvare la risoluzione secondo la quale nessun paese membro avrebbe dovuto riconoscere Israele. Nel corso degli anni, il regime di Bashir ha protetto Osama bin Laden, che in Sudan viveva senza nascondersi, e ha fatto da tramite per il traffico d’armi tra l’Iran e Hamas, il gruppo fondamentalista che controlla la Striscia di Gaza (il Sudan ha interrotto i rapporti diplomatici con l’Iran nel 2016).

Quando a gennaio il generale al Burhan incontrò Benjamin Netanyahu in Uganda, la notizia fu accolta molto negativamente in Sudan, non soltanto tra i gruppi islamisti ma anche nella parte più secolare della popolazione, quella che ha alimentato la rivoluzione dell’anno scorso. Secondo molti esperti, tra cui Payton Knopf e Jeffrey Feltman della Brookings Institution, un think tank americano, riconoscere Israele su pressione americana rischierebbe di mettere in grave difficoltà il governo, che già è debolissimo.

Dopo la deposizione di Omar al Bashir nell’aprile del 2019, a seguito di mesi di proteste della popolazione e di un colpo di stato militare, su pressione della comunità internazionale i manifestanti e i militari trovarono un accordo di divisione del potere. Si formò un governo civile, guidato dal tecnocrate Abdallah Hamdok, che sarebbe stato però affiancato da un Consiglio Sovrano, un organo collettivo composto da cinque civili e cinque militari ma di fatto controllato dai militari, tra i quali ci sono ufficiali che sotto il regime di Bashir furono accusati di violenze e massacri durante la guerra in Darfur. L’accordo prevede anche la formazione di un’assemblea legislativa, che però finora non è stata riunita. Questi tre organi, con compiti ben definiti, dovrebbero portare il Sudan a celebrare le prime elezioni libere nel 2022.

Finora, tuttavia, la transizione è lenta e traballante. La grave crisi economica cominciata sotto Bashir e che è stata tra le cause delle proteste di piazza è peggiorata: il valore della sterlina sudanese è sceso da 45 sterline per un dollaro americano nell’agosto del 2019 a 300 sterline per un dollaro a settembre di quest’anno. Metà della popolazione è a rischio denutrizione. Tra i sudanesi c’è sempre più malcontento nei confronti del nuovo governo, nonostante i buoni risultati nel processo di pacificazione con alcuni gruppi ribelli.

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Per questo il primo ministro Abdallah Hamdok ha già fatto capire che se dipendesse da lui il Sudan non riconoscerebbe Israele, almeno per ora: «Il Sudan non ha ragioni per essere in stato di guerra con nessun altro paese. Ma la normalizzazione dei rapporti con Israele è una questione complicata con dimensioni sociali e politiche che vanno indietro di decenni e che sono legate alla storia della regione araba», ha detto un alto funzionario del governo civile al New York Times.

Inoltre in cambio del riconoscimento americani ed emiratini avrebbero offerto al Sudan un miliardo di dollari in crediti e promesse di investimenti futuri, che per il governo non sono sufficienti: servirebbero almeno due miliardi di dollari in aiuti diretti per evitare il collasso economico del paese.

Al contrario, il Consiglio militare è molto più aperto alla possibilità di normalizzare i rapporti con Israele, e questo è il secondo problema: finora tutti i negoziati sono stati fatti dal generale al Burhan, sponsorizzato soprattutto dagli Emirati Arabi Uniti. Come ha scritto l’analista Mutasim Ali su Haaretz, questo significa legittimare i militari legati al vecchio regime a scapito del nuovo governo civile.

Per ora, ha scritto il Washington Post, sia i funzionari sudanesi sia quelli americani ritengono molto difficile che si possa raggiungere un accordo prima delle elezioni americane.