Una canzone di Paul Simon

Prima che gli prendesse africana: che ora si può dire che fu dimenticabile, o c'è la "cancel culture"?

(Drew Angerer/Getty Images)
(Drew Angerer/Getty Images)

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera.
È morta Helen Reddy, quella di questa bella canzone: ne avevo scritto qui il mese scorso per via del film su di lei.
Il New York Times ha pubblicato una lunga cosa su Lenny Kravitz, che ha scritto una specie di autobiografia.
Il Guardian racconta Steve Arrington, che ha fatto un disco nuovo, ma io confesso che mi ricordavo solo quella robetta divertente degli anni Ottanta, Feel so real.
Oggi ho trovato questo video dei Bee Gees che registrano Tragedy, nel 1979: e ho scoperto solo ora che il suono di esplosione lo fa Barry Gibb con la bocca! (io poi non ho mai capito la distribuzione delle sillabe, in “tra-ge-dy”: per me, avevo 14 anni, dicevano “tren-che-de-dì”).
Ed è morto anche Mac Davis, che era quello che aveva scritto In the ghetto, una delle più belle canzoni mai cantate da Elvis.
As the snow flies
On a cold and gray Chicago mornin’
A poor little baby child is born
In the ghetto

The late great Johnny Ace
Allora me lo tenni per me, nel 1986, perché una “cancel culture” del tempo impediva di dirlo senza subire severi giudizi e discriminazioni: ma il disco “africano” di Paul Simon mi è sempre stato di una noia mortale. “Neanche la nera africana”, come diceva quello, avendo capito prima di tutti quanto poco sarebbe rimasto della “world music”*.
Quindi l’ultimo grande disco di Paul Simon è quello prima, del 1983: Hearts and bones. Grande disco, malgrado una delle canzoni sia diventata famigerata e sfottuta, ingiustamente. Comunque, in quel disco c’erano alcune bellezze fuori campionato e una lo chiudeva. Ne ho scritto anni fa così, ricopio, perdonatemi.

Splendida autobiografia per drammi musicali, scritta poco dopo la morte di John Lennon e cantata per la prima volta al concerto di Central Park (durante l’esecuzione uno squinternato salì sul palco e interruppe Paul Simon, che poi riuscì a finire la canzone). Comincia come un ricordo di Johnny Ace, cantante che si era sparato nel 1954 giocando alla roulette russa. “When a man came on the radio, and this is what he said: he said, I hate to break it to his fans, but Johnny Ace is dead”.
Paul Simon racconta che lui non era un grande fan di Ace, ma la notizia lo colpì e scrisse perché gli mandassero una sua foto, che arrivò firmata “from the late great Johnny Ace”: dal fu Grande Johnny Ace. Poi Simon ricorda invece il decennio precedente – “era l’anno dei Beatles e degli Stones” – e la musica che stava cambiando la sua vita allora. Fino a un natale del 1980, quando uno sconosciuto per strada gli chiese se aveva sentito che avevano sparato a John Lennon. E finiscono assieme a bere e a suonare in un bar, “for the late great Johnny Ace”. E qui si piange, durante la chiusa di archi, meravigliosa.
On a cold December evening
I was walking through the Christmas tide
When a stranger came up and asked me
If I’d heard John Lennon had died
And the two of us
Went to this bar
And we stayed to close the place
And every song we played
Was for the Late Great Johnny Ace

Poi magari anche voi vi ricordate di quando vi dissero di John Lennon, se avete almeno la mia età.
Ah, e la cosa africana gli passò, dopo un paio di dischi.

*certo c’era stato anche “la musica andina, che noia mortale”.


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