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  • Sabato 12 settembre 2020

Perché ogni anno brucia un pezzo di Stati Uniti

La crisi climatica è solo una di molte cause degli incendi devastanti che si ripetono ciclicamente, racconta il libro di Francesco Costa, peraltro vicedirettore del Post

Lo skyline di San Francisco, 9 settembre 2020
(Philip Pacheco/Getty Images)
Lo skyline di San Francisco, 9 settembre 2020 (Philip Pacheco/Getty Images)

In questi giorni la costa ovest degli Stati Uniti è coinvolta da incendi vastissimi, che bruciano boschi e centri abitati per centinaia di chilometri, costringono centinaia di migliaia di persone a lasciare le loro case e rendono il cielo arancione e l’aria irrespirabile. Per quanto secondo molti esperti non ce ne siano mai stati di gravi come quelli odierni, però, in quella zona degli Stati Uniti gli incendi non sono una cosa nuova.

La causa principale è la crisi climatica, con una siccità che va avanti da vent’anni e il progressivo aumento delle temperature che ha portato in agosto a registrare in California ben 54,4 gradi, la temperatura più alta misurata in qualsiasi luogo della Terra da almeno un secolo, forse di più: d’altra parte sei dei venti incendi più devastanti nella storia moderna della California si sono sviluppati nel 2020. Ma le ragioni per cui quella zona degli Stati Uniti brucia ormai ogni estate riguardano anche il modo unico ed esemplare in cui si è sviluppato quel territorio. Pubblichiamo un estratto di Questa è l’America, un libro scritto da Francesco Costa, peraltro vicedirettore del Post, che racconta come gli Stati Uniti d’America sono diventati il paese che sono oggi, attraverso otto storie esemplari dei grandi cambiamenti degli ultimi vent’anni.

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Quando finì la corsa all’oro, all’inizio del Novecento, in molte comunità rurali della California il legname diventò il nuovo oro. Ettari ed ettari di foreste soprattutto nel Nord dello Stato vennero disboscati, e gli insediamenti nati attorno agli impianti per estrarre l’oro e poi per trattare il legno si trasformarono in piccoli villaggi. Grazie a leggi particolarmente permissive, che consentivano di costruire senza grandi vincoli e senza un piano per lo sviluppo di adeguate infrastrutture, intorno agli anni Settanta queste comunità nate in modo improvvisato e spontaneo si trasformarono in vere e proprie città, sorte dove prima c’erano solo alberi.

Una di queste si diede il nome di Paradise, tanto era meraviglioso il posto in cui sorgeva. Ventimila abitanti a poco più di un’ora di distanza da Sacramento, la capitale della California: come se un intero quartiere fosse stato strappato dal terreno e calato dall’alto in mezzo alla foresta, con costi della vita infinitamente più bassi ma senza fognature, senza sistemi antisismici o antincendio, a volte persino senza marciapiedi. E la foresta intorno non era la stessa di prima, dopo anni di disboscamenti. Gli alberi che circondavano Paradise non erano più eterogenei per tipologia, età e dimensioni, frutto di secoli di stratificazioni e aggiustamenti naturali; erano gli alberi ripiantati nel corso dei decenni dalle società del legname, tutti della stessa specie, tutti delle stesse dimensioni, tutti ugualmente fragili. Una grande scatola di fiammiferi, come ammonivano gli incendi che di tanto in tanto lambivano la città. Nonostante questa minaccia, resa ancora più urgente dal cambiamento climatico e dalla siccità, la contea non adeguò le infrastrutture di Paradise, non allargò le sue strettissime vie di evacuazione né dispose sistemi che potessero eventualmente rallentare le fiamme: tutte cose che avrebbero comportato stravolgimenti urbanistici a cui i residenti si opponevano.

La risposta si limitò alla gestione dei guai una volta avvenuti. Come accadde nel resto della California – di cui un quarto degli abitanti viveva già allora in aree rurali e boschive – la lotta agli incendi sempre più frequenti divenne un enorme complesso industriale: milioni di dollari furono spesi in assunzioni di vigili del fuoco e nell’acquisto di elicotteri, canadair ed equipaggiamenti di ogni sorta. Poco o niente fu investito nella prevenzione, anzi: i ranger furono riconvertiti in vigili del fuoco, persino la loro uniforme cambiò colore dal kaki al blu, e smisero di gestire la foresta, di proteggere i bacini idrici, di appiccare gli incendi controllati che periodicamente permettono di rimuovere la vegetazione del sottobosco e le piante morte. La stessa massiccia presenza dei vigili del fuoco diventò paradossalmente un incentivo a trasferirsi a Paradise, invece che ad andarsene, specialmente dal momento che nei mesi invernali, quando gli incendi erano deboli e sporadici, i pompieri diventavano in tutto e per tutto un servizio della comunità.

L’ultimo ingrediente che mancava al disastro inevitabile – la scintilla, letteralmente – lo portò la Pacific Gas and Electric Company (PG&E), la società energetica che serviva la regione, accusata di inefficienza, corruzione e negligenza. La stessa che per decenni aveva posizionato tralicci in mezzo alla foresta senza abbattere gli alberi intorno o rimpiazzare quelli secchi. La stessa contro cui negli anni Novanta lottò l’attivista Erin Brockovich resa celebre dal film con Julia Roberts. La stessa che nel 2010 a San Bruno, un’altra città del Nord della California, aveva visto esplodere una conduttura di gas sotterranea danneggiata da anni e mai riparata, sparando verso il cielo una gigantesca colonna di fuoco che aveva distrutto decine di abitazioni. La stessa che, come si apprese poi, a lungo aveva distratto fondi destinati alla sicurezza e alla prevenzione degli incendi per versarli ai dirigenti come bonus o agli azionisti come dividendi. Cose che neanche i cattivi dei film, con conseguenze da film.

All’alba dell’8 novembre 2018 tirava un vento fortissimo. L’aria era secca e nella foresta non pioveva da maggio. In luoghi e situazioni del genere le pratiche antincendio più comuni – introdotte in California dopo decenni di roghi devastanti – invitano le aziende a sospendere la fornitura di energia elettrica, almeno finché non si placa il vento, ma la PG&E non lo fece. Poco dopo le sei del mattino un vecchio traliccio scosso da raffiche a ottanta chilometri orari cominciò a oscillare, finché un grosso cavo dell’alta tensione non si staccò e cadde scoperto sugli alberi, che presero fuoco. Le fiamme si propagarono subito e con gran rapidità verso l’unica stretta strada dalla quale i mezzi dei vigili del fuoco avrebbero potuto raggiungere la zona; anni prima, in una situazione del genere, un camion dei vigili del fuoco era rimasto bloccato a sciogliersi tra due lingue di fuoco, mentre gli agenti scappavano a piedi. […]

Nel giro di un paio d’ore le poche e strette strade che portano dentro e fuori Paradise erano già piene di macchine, e le fiamme stavano lambendo la città. Quando l’ultimo paziente fu evacuato dal piccolo ospedale locale, l’ufficio del personale stava già bruciando. Le macchine in coda avanzavano lentissime e aumentavano ogni momento, mentre attorno le prime case iniziavano a prendere fuoco; nelle strade più periferiche di tanto in tanto si sentiva l’esplosione di uno pneumatico. Pochi cercavano di solcare il traffico in direzione opposta, per mettere in salvo i figli, il cane, i genitori anziani. Nel frattempo dentro le automobili le parti in ferro diventavano bollenti, la gomma dei volanti si appiccicava alle mani, sembrava che anche l’aria stesse bruciando.

Diverse persone cominciarono a scappare a piedi, lasciando le macchine abbandonate in coda a prendere fuoco una dopo l’altra, ma intanto le strade stavano diventando un muro di fumo e fiamme, e le scarpe si incollavano all’asfalto. I pompieri che arrivavano da fuori città si trovavano davanti una colonna di auto abbandonate che ostruiva il passaggio. Chiesero dei bulldozer per spostarle, e nel frattempo si arrangiarono con i loro camion, che iniziarono a urtare le macchine per spingerle a destra e a sinistra verso le fiamme, abbastanza da liberare un varco. Ogni tanto si imbattevano in qualcuno che scappava a piedi, o in un idrante che non aveva più acqua da sputare. Il vento tirava ancora fortissimo.

Ci vollero due settimane e un lungo e intenso temporale per domare quello che nel frattempo era diventato l’incendio più distruttivo e letale della storia della California, e il più grave in tutti gli Stati Uniti dal 1918. «Camp Fire», lo chiamarono i giornali, dal nome della strada su cui era crollato il traliccio: Camp Creek Road. Ottantacinque persone morirono, una non è mai stata ritrovata. Oltre 600 chilometri quadrati di territorio bruciarono, più o meno sei volte l’intera superficie di Firenze, con danni per oltre 15 miliardi di dollari.

Oggi Paradise è una città fantasma: i residenti sono passati da ventimila a duemila. I quartieri sono una distesa di rovine incenerite e caminetti – l’unica cosa rimasta in piedi di gran parte delle case – intervallati da oggetti deformati come in un quadro surrealista, di cui si può solo immaginare la loro funzione precedente: quella macchia per terra una volta era un bidone dei rifiuti, quella massa colante era il tabellone di un canestro. Ogni giorno centinaia di camion fanno avanti e indietro trasportando macerie e detriti. Alcune strade sono rimaste per mesi piene di carcasse di auto incolonnate con le chiavi ancora inserite, e i portachiavi anneriti o squagliati.

Quello che è successo a Paradise non è un caso isolato. Anche se non sono forti quanto il «Camp Fire», l’incuria delle foreste, la siccità, i cambiamenti climatici e l’inefficienza delle attività di prevenzione fanno sì che ogni anno da maggio a settembre la California sia martoriata dagli incendi. Nel 2015 è bruciato lo 0,5 per cento dell’intera superficie dello Stato. Nel 2016 lo 0,6 per cento. Nel 2017 l’1,3 per cento. Nel 2018, l’anno del «Camp Fire», un altro 1,8 per cento. Il più grande incendio del 2019, il «Walker Fire», si vede nelle fotografie della Terra scattate dallo spazio.