Abbiamo sempre sottovalutato Ringo Starr

Non era un virtuoso, ma aveva uno stile unico e se i Beatles furono i Beatles fu anche per merito suo: e oggi diventa ottantenne

Ringo Starr in concerto con i Beatles a Stoccolma nel 1964. (Bjorn Larsson/Scanpix/LaPresse)
Ringo Starr in concerto con i Beatles a Stoccolma nel 1964. (Bjorn Larsson/Scanpix/LaPresse)

Una serie di equivoci, false attribuzioni e fraintendimenti su quali debbano essere le qualità di un buon musicista ha fatto sì che uno dei più importanti batteristi della storia della musica sia stato considerato a lungo una specie di miracolato: ancora oggi che compie 80 anni, Ringo Starr. Questo pregiudizio non potrebbe essere più lontano dalla verità, come da anni sostiene infatti chiunque conosca bene i Beatles – di cui Starr fu batterista dal 1962 allo scioglimento nel 1970 – e in generale la musica pop e rock.

Ringo Starr e Paul McCartney alla cerimonia per l’aggiunta del primo alla Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland, nel 2015. (Mike Coppola/Getty Images)

Starr non era un genio creativo come John Lennon e Paul McCartney, né aveva il loro carisma. Il suo contributo musicale alle canzoni dei Beatles fu meno visibile ed evidente di quello di George Harrison, con i suoi riff memorabili e i suoi formidabili accompagnamenti alla chitarra. Ma una vecchia e condivisa convinzione tra i musicisti è che il valore di una band proceda di pari passo a quello del suo batterista: e valeva anche per i Beatles.

Starr nacque il 7 luglio 1940 a Dingle, che allora era una zona disastrata di Liverpool. Si chiamava Richard Starkey – si sarebbe dato il suo nome d’arte nel 1959 – ed ebbe un’infanzia povera e piena di problemi familiari e malattie gravi, che lo tennero a lungo lontano dalla scuola. Non cominciò a suonare la batteria, non possedendola, ma qualsiasi tipo di percussione trovasse a tiro. Quando gliene regalarono una usata ci mise un paio d’anni a diventare uno dei batteristi più in vista di Liverpool, suonando con le band più apprezzate in città.

Negli stessi anni, nella stessa città, avevano cominciato a suonare insieme Lennon, McCartney e Harrison, che nel 1960 avevano assoldato per la loro band il batterista Pete Best. Per un paio d’anni macinarono concerti su concerti, diventando sufficientemente famosi da firmare un contratto con la Parlophone, un’etichetta della casa discografica EMI. Conobbero così George Martin, che sarebbe diventato il loro produttore e figura centrale nella costruzione del loro stile e del loro successo.

A Martin occorse una sessione di registrazione per capire che Best non era abbastanza bravo per gli altri tre. In quel periodo, quella che passava per la migliore band di Liverpool erano i Rory Storm and the Hurricanes, in cui suonava Starr. I Beatles ne erano un po’ intimiditi: Starr era più grande e aveva avuto una vita complicata che lo aveva svezzato in fretta. «Era quello cattivo», ha detto una volta Harrison. Quando gli proposero di unirsi alla band, si presentò al primo concerto con una batteria sulla cui cassa c’era scritto il suo nome, invece che quello del gruppo. Ma era esattamente quello che serviva ai Beatles: «Da quel momento, tutto prese forma: i Beatles passarono a un altro livello», raccontò Harrison.

Starr era in larga parte un autodidatta, alla batteria. Da piccolo era mancino, ma la madre gli impose di diventare destrorso almeno nella scrittura: lui si adattò, ma la sinistra rimase la sua mano forte per tutto il resto, compreso suonare la batteria. Questa caratteristica distingueva il suo modo di suonare, come ha raccontato in un’intervista al talk show di Conan O’Brian: per abitudine suona una batteria per destrorsi, con il risultato che i passaggi tra un giro e l’altro – i fill, in gergo tecnico – da sinistra verso destra, i più comuni, gli riescono complicati e li suona un po’ sbilenchi. «Ma posso andare molto bene nell’altro senso».

Starr non era un virtuoso della batteria: non suonava assoli, non usava tempi strani, non amava passaggi particolarmente tecnici. Ma aveva uno stile tutto suo, costruito sul tocco e sull’istinto, su una padronanza straordinaria del suono dei piatti, del rullante e degli altri – pochi – pezzi della sua batteria. Sapeva far ballare la gente, sapeva suonare in modo delicato ma sapeva anche fare un gran baccano. Mise queste sue qualità al servizio dei Beatles, adeguandosi perfettamente alla spinta creativa degli altri e trovando accompagnamenti essenziali eppure mai ripetitivi, e perfettamente integrati col suono che la band stava costruendo.

All’inizio, comunque, dubitò di lui anche Martin, che per le registrazioni del primo singolo per la EMI gli affiancò per sicurezza un altro batterista. Questo rischiò di mandare in crisi Starr e gli equilibri della band, ma in poco tempo le tensioni si smorzarono. Sul palco, la sua batteria stava su un piedistallo: era diventato un membro effettivo della band, che nel giro di pochi mesi diventò popolarissima in tutto il Regno Unito. Il culto e l’isteria collettiva per i Beatles nacquero in quei mesi, e coinvolsero in fretta anche Starr: contrariamente a quanto molti pensano, il suo successo tra i fan era pari o quasi a quello degli altri membri della band.

Starr non fu mai considerato un grande batterista, anche perché nel giro di pochi anni in Inghilterra sarebbero emersi i talenti generazionali di John Bonham dei Led Zeppelin, di Keith Moon degli Who e di Ginger Baker dei Cream, che erano dei virtuosi propensi ad assoli e a spettacoli pirotecnici con le bacchette. Ma l’influenza di Starr fu del tutto paragonabile alla loro, specialmente sui batteristi pop e rock, per i quali è ancora oggi uno dei più grandi di sempre. Lo ha detto un sacco di gente, compreso Dave Grohl dei Nirvana: «Dai una definizione del miglior batterista al mondo. È quello che ha un’ottima tecnica, o quello che entra nella canzone con le sue emozioni? Ringo era il re delle emozioni».

La cosa che più mancava a Starr, rispetto agli altri Beatles, era la capacità di scrivere e comporre: ma il metro di paragone erano pur sempre tre tra i più grandi autori di canzoni della storia della musica. «Vorrei saper scrivere canzoni, come gli altri, e ci ho provato: ma non ci riesco. Posso mettere bene in fila le parole, ma quando penso a una melodia gli altri dicono sempre che suona come qualcos’altro, e quando me lo fanno notare capisco cosa intendono», disse lui stesso in un’intervista. Negli otto anni di attività coi Beatles scrisse soltanto due canzoni, “Don’t Pass Me By” e “Octopus’s Garden”.

Dopo lo scioglimento del gruppo, Starr fece un sacco di dischi da solista e di progetti con altri musicisti famosi, senza però produrre niente di memorabile, specialmente se paragonato a quanto fatto da McCartney e Lennon, e anche da Harrison. Rimase sempre insomma “l’ex batterista dei Beatles”, e questo contribuì a costruire la credenza che a fare grande la band fossero stati solo gli altri tre. Questa diceria si affermò abbastanza in fretta, tanto che nel 1983 il comico inglese Jasper Carrott disse di lui: «Ringo non è il miglior batterista del mondo. Non era nemmeno il miglior batterista dei Beatles». Una serie di fraintendimenti fecero sì che la battuta fu attribuita a lungo addirittura allo stesso Lennon, che invece non disse mai niente di simile. Anzi, in un’intervista disse: «Ringo è un gran bravo batterista. Lo è sempre stato. Non è bravo tecnicamente, ma penso che sia sottovalutato così come lo era Paul a suonare il basso».