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  • Sabato 6 giugno 2020

In America Latina l’epidemia da coronavirus è arrivata dopo, ma è arrivata

Nonostante ci sia stato il tempo di vedere cosa stava succedendo nel resto del mondo: perché è andata così?

Un operatore spruzza disinfettante all'esterno di un ospedale a Manacapuru, nello stato di Amazonas, in Brasile, martedì 2 giugno 2020. (AP Photo/ Felipe Dana)
Un operatore spruzza disinfettante all'esterno di un ospedale a Manacapuru, nello stato di Amazonas, in Brasile, martedì 2 giugno 2020. (AP Photo/ Felipe Dana)

Alla fine di maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva individuato l’America Latina come nuovo epicentro della pandemia da coronavirus. I paesi latinoamericani avevano superato sia l’Europa che gli Stati Uniti per numero di casi positivi accertati, e situazioni particolarmente gravi si vedevano in Brasile, Perù, Cile, Messico, Ecuador, El Salvador, Guatemala e Nicaragua, dove si parlava già di sistemi sanitari allo stremo e di mancanza di personale sanitario e letti di terapia intensiva. Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata.

In America Latina l’epidemia da coronavirus è arrivata alcune settimane dopo rispetto all’Europa e agli Stati Uniti. Il Washington Post ha scritto che molti nel continente pensavano di poterla scampare, magari per il clima più caldo, per la popolazione più giovane, o semplicemente perché c’era stato più tempo per prepararsi all’emergenza. Le cose però sono andate diversamente. Nonostante alcuni dei paesi più colpiti abbiano adottato approcci diversi – imponendo lockdown quasi totali dopo l’accertamento dei primi casi, come il Perù, introducendo poche restrizioni, come il Brasile, o chiudendo i propri confini, come l’Argentina – il risultato è stato simile in diverse zone del continente: moltissimi contagi, e moltissimi morti.

La situazione più grave sembra essere quella del Brasile, che a oggi è il secondo paese al mondo per numero di casi positivi accertati (e anche in Brasile, come in molti altri stati, i casi accertati sono quelli risultati positivi al tampone, che viene fatto quasi esclusivamente ai malati più gravi che finiscono in ospedale). Del Brasile si è parlato molto anche per le affermazioni e le decisioni del suo presidente, Jair Bolsonaro, che ha continuato a minimizzare la pericolosità del virus e a condannare le misure di quarantena e distanziamento fisico decise dai governatori e dai sindaci brasiliani.

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Il 4 giugno il Brasile ha registrato il maggior numero giornaliero di morti per coronavirus dall’inizio dell’epidemia: 1.473. La scorsa settimana l’Organizzazione Panamericana per la Salute (OPS), agenzia internazionale di sanità che lavora per migliorare la salute e gli standard di vita delle persone delle Americhe, ha pubblicato un documento in cui si invitava il Brasile a prolungare le quarantene imposte dai vari stati del paese. Al momento non è chiaro cosa decideranno di fare i governi locali, che comunque si sono mostrati molto più decisi di Bolsonaro nell’imporre le misure restrittive.

Un cimitero di Rio de Janeiro, 5 giugno 2020 (AP Photo/Leo Correa)

Oltre al Brasile, ci sono però altri paesi in situazioni molto critiche.

Il Messico è il secondo paese latinoamericano con il più alto numero di contagi accertati, dopo il Brasile: sono più di 100mila, mentre i morti sono quasi 12mila. Inizialmente il governo aveva sottovalutato l’epidemia. A inizio aprile il presidente messicano, Andrés Manuel López Obrador, parlava di una situazione sotto controllo e sosteneva che non bisognasse «esagerare»: tra le altre cose, invitava le persone a uscire e andare al ristorante, partecipava a incontri pubblici mantenendo numerosi contatti fisici con i presenti, e mostrava amuleti come antidoti al virus. Diceva che «l’onestà» era la miglior difesa.

Alla fine di aprile il governo messicano ha sospeso tutte le attività economiche non essenziali e ha chiesto alle persone di rimanere a casa e di praticare il distanziamento fisico. López Obrador ha comunque continuato a difendere le sue scelte iniziali, sostenendo che «la strategia [per combattere il virus] è stata quella giusta».

Gerasela Llanos prepara una bara dentro alla sua azienda a Lima, nel quartiere Juan de Lurigancho, 4 giugno 2020 (AP Photo/Rodrigo Abd)

In Perù, nonostante le misure restrittive siano state imposte prima rispetto a molti altri paesi latinoamericani, i casi accertati di contagio hanno superato i 180mila, mentre i morti dichiarati dalle autorità sono stati finora poco più di 5mila: un numero non molto credibile, visto che solo a maggio erano stati rilevati circa 14mila morti in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Una delle conseguenze dell’emergenza è stata che molti dei dieci milioni di abitanti di Lima hanno fatto ritorno nelle loro città di origine, spesso in campagna perché nella città non c’è più lavoro.

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Anche in Cile e in Ecuador la situazione è critica. Alla fine di maggio il presidente cileno Sebastian Piñera aveva detto che il sistema sanitario cileno era «molto vicino al limite», a causa di un notevole e rapido aumento dei casi accertati nei giorni precedenti. Il Cile presenta numeri complessivi più contenuti di molti altri paesi latinoamericani, ma il 3 giugno ha registrato il numero massimo di morti per coronavirus in un giorno solo, dall’inizio dell’epidemia: 87. Numeri molto più alti sono stati registrati dall’Ecuador, dove il sistema sanitario nazionale non ha retto all’ondata di pazienti di aprile, e dove si sono viste scene di cadaveri abbandonati per strada o sepolti in bare di cartone.

Cittadini boliviani fuori dal consolato boliviano di Santiago del Cile per chiedere di tornare nel loro paese, 2 giugno 2020 (AP Photo/Esteban Felix)

Non è semplice individuare chiaramente i motivi che hanno portato a una crisi di tali dimensioni in America Latina.

Uno di questi è stato molto probabilmente la difficoltà di far rispettare le regole di distanziamento fisico tra le persone, anche nei paesi in cui sono state introdotte le misure restrittive più rigide. Secondo il Washington Post, è successo per alcune caratteristiche connaturate a molte società latinoamericane: le disuguaglianze sociali, la scarsa fiducia nelle istituzioni, sistemi sanitari nazionali molto deboli, ampi strati della popolazione costretti a lavorare anche in situazioni di emergenza per poter sopravvivere, o a vivere nelle favelas in periferie urbane particolarmente sovraffollate.

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Luis Felipe López-Calva, direttore per l’America Latina del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ha detto: «La crisi sta interagendo con i problemi strutturali che l’America Latina ha da molto tempo e queste questioni strutturali stanno esacerbando l’effetto dello shock sanitario».

Perché le politiche di contenimento abbiano successo, sostengono diversi analisti, sono necessari sia il sostegno della popolazione alle misure adottate, sia un sistema di aiuto ai più poveri sufficientemente robusto. Entrambi sono elementi che mancano in diverse zone dell’America Latina, dove l’accesso agli aiuti è difficoltoso e i salari minimi sono bassissimi. Oggi, mostra uno studio pubblicato dal Washington Post, solo metà dei latinoamericani è a favore della democrazia, mentre la fiducia nei media, nelle istituzioni e nelle politiche adottate per contenere il coronavirus è crollata.