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  • Lunedì 25 maggio 2020

In Africa le cose vanno meglio del previsto

Il coronavirus si sta diffondendo lentamente, anche grazie agli sforzi di contenimento rapidi ed efficaci attuati da diversi paesi

(AP Photo/Jerome Delay)
(AP Photo/Jerome Delay)

La scorsa settimana la pandemia ha raggiunto tutta l’Africa: ognuno dei 54 paesi del continente ha comunicato di aver avuto casi di contagio sul suo territorio. Allo stesso tempo, il numero totale di persone che sono risultate positive al coronavirus ha superato i 100 mila. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, però, ci sono buone ragioni per essere ottimisti.

In Africa la pandemia «sembra seguire un percorso differente» rispetto al resto del mondo, ha scritto l’OMS nel suo ultimo rapporto: «Il numero dei casi non è cresciuto alla velocità esponenziale di altre regioni e, fino a questo momento, l’Africa non ha mostrato l’alta mortalità che si è vista in altre aree del mondo». Al momento i morti accertati causati da COVID-19 sono 3.100 in tutto il continente.

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Naturalmente sono dati che vanno presi con cautela, visto che pochi paesi africani dispongono delle stesse risorse dei paesi europei e dell’Asia Orientale per tenere traccia dei contagi, e delle morti (anche se ci sono notevoli eccezioni, come vedremo tra poco). Anche tenendo conto di queste prudenze, però, i numeri sono comunque decisamente inferiori a quanto le previsioni più fosche lasciavano intuire.

La stessa OMS aveva avvertito dei pericoli corsi dall’Africa a causa della nuova pandemia. Il continente più povero al mondo, scriveva l’OMS all’inizio di maggio, rischiava di vedere i suoi sistemi sanitari travolti da milioni di casi. Nello scenario peggiore l’epidemia in Africa avrebbe potuto causare fino a 190 mila morti e 50 milioni di contagi. Per il momento, invece, «la COVID-19 ha fatto un atterraggio morbido in Africa: le sono state risparmiate l’elevato numero di morti che hanno devastato altre regioni del mondo», ha detto Matshidiso Moeti, direttrice regionale per l’Africa dell’OMS.

Le ragioni sono probabilmente note. Il coronavirus è particolarmente pericoloso per le persone anziane, mentre l’Africa è un continente estremamente giovane: oltre il 60 per cento della sua popolazione ha meno di 25 anni. I paesi africani, inoltre, hanno tendenzialmente meno comunicazioni e scambi gli uni con gli altri e una densità di abitanti inferiore a quella europea o asiatica (con alcune notevoli eccezioni: la Nigeria, il più popoloso paese africano, ha una densità superiore a quella italiana).

La risposta africana al contagio, inoltre, è stata una delle più rapide al mondo. La consapevolezza di disporre di sistemi sanitari deboli ha spinto la maggior parte dei governi ad adottare misure di contenimento e quarantena, e a farlo spesso senza le esitazioni dei paesi più sviluppati. Nei paesi che avevano vissuto la recente epidemia di Ebola, poi, è stato più facile spiegare l’utilità dei dispositivi di protezione individuale. Oggi, con 100 mila casi registrati e poco più di 3 mila morti nell’intero continente, la maggior parte dei paesi africani si trova in lockdown oramai da più di un mese. Quando in Europa venne toccata la stessa soglia nel numero di contagiati, lo scorso 19 marzo, la quarantena era stata imposta soltanto in alcuni paesi.

Quasi tutti gli stati africani, coordinati dall’agenzia sanitaria dell’Unione Africana, hanno agito rapidamente e mettendo in campo misure significative. Alcuni sono riusciti anche ad adottare approcci flessibili e moderni, come e in alcuni casi meglio dei paesi europei. Il Washington Post ha ricordato l’esempio del Ghana, un paese con 30 milioni di abitanti nell’Africa Occidentale, dove il primo caso è stato registrato lo scorso 12 marzo. Da allora è stata messa in campo un’estesa opera di tracciamento dei contatti: le autorità sanitarie del paese hanno testato 161 mila persone, identificando circa 6 mila casi. Soltanto 32 persone risultano essere morte per COVID-19 nel paese.

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L’OMS sta studiando in particolare un metodo utilizzato in Ghana per velocizzare i test. Gruppi di dieci tamponi vengono testati tutti insieme: soltanto se il risultato è positivo i dieci tamponi vengono analizzati separatamente per identificare qual è quello infetto. Il metodo ha i suoi problemi – se i positivi sono molti, si rischia di dover riprocessare moltissimi campioni e quindi si perdono i benefici derivanti dal risparmio di tempo – ma ha aiutato molto un paese dove il numero di contagi è ancora basso. A circa tre mesi dell’inizio del contagio, il paese sta iniziando a eliminare le prime misure di quarantena.

In Senegal i medici stanno sviluppando un test che si può eseguire in dieci minuti e che costa un dollaro soltanto, e permetterà di scoprire sia se si è infetti che se si è stati contagiati in passato. Il Senegal aveva cominciato a prepararsi alla pandemia già lo scorso gennaio. Nelle settimane successive ha rapidamente chiuso i confini e iniziato una vasta opera di tracciamento dei contatti. Il governo ha promesso che ogni infetto o i suoi contatti avrebbe avuto un letto di ospedale e, per il momento, è riuscito a mantenere la sua promessa. In Senegal, dove abitano 16 milioni di persone, i morti per COVID-19 fino a questo momento risultano essere 30.

Secondo la giornalista del Guardian Afua Hirsch, il senso di superiorità di europei e americani – che ha impedito loro di prepararsi adeguatamente all’epidemia dopo averne visto le conseguenze in Cina e Corea del Sud – oggi gli impedisce di rendersi conto dei risultati che diversi paesi africani hanno raggiunto e ostacola l’apprendimento di utili lezioni su come combattere più efficacemente il virus.

Se per il momento l’Africa sembra aver reagito bene all’epidemia, questo non significa che sia arrivato il momento di «abbassare la guardia», come ha detto la dottoressa Matshidiso Moeti, direttrice della missione OMS in Africa. I sistemi sanitari africani rimangono fragili e incapaci di sopportare un eventuale improvviso aumento nel numero dei casi. Anche se in molti casi la popolazione del continente è giovane e vive dispersa su grandi aree, ci sono comunque zone altamente a rischio. Secondo un recente studio dell’ONU, il 54 per cento degli abitanti delle zone urbane dell’Africa sub-sahariana vive in baraccopoli sovrappopolate. Il 34 per cento di loro non ha accesso a servizi minimi di igiene, come acqua pulita con cui lavarsi le mani.

Inoltre, le misure di quarantena adottate rapidamente e che sembrano aver contribuito a rallentare la diffusione del virus non possono essere mantenute a lungo. Circa il 71 per cento degli abitanti dell’Africa è impiegato nella cosiddetta economia informale e quasi nessuno di loro ha i mezzi o la possibilità di lavorare da casa. Nei paesi in via di sviluppo i divieti agli spostamenti e l’obbligo di chiusura delle attività colpiscono i redditi e il benessere delle famiglie in modo ancora più profondo di quanto accada nel resto del mondo. Di fronte a una crisi economica che in Africa sembra destinata a eclissare le precedenti, le misure di quarantena stanno venendo ridotte quasi ovunque: e come in Europa le prossime settimane saranno fondamentali per scoprire se a questa decisione obbligata si accompagnerà la tanto temuta “seconda ondata di contagi” e se, anche questa volta, l’Africa riuscirà a gestirla.