C’è sempre un referendum da recuperare

Il 29 marzo avremmo dovuto votare sul numero dei parlamentari, ma l'epidemia ha fatto rinviare tutto: oggi si parla di votare tra settembre e ottobre

(ANSA / FABIO FRUSTACI)
(ANSA / FABIO FRUSTACI)

Lo scorso 29 marzo gli italiani avrebbero dovuto votare per confermare o respingere la riforma costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari, che ridurrà di circa un terzo il numero di deputati e senatori nel nostro paese. A causa dell’epidemia da coronavirus il referendum non solo è stato rinviato a data da destinarsi, ma è anche sparito dal dibattito politico, di cui fino ad alcuni mesi fa sembrava un punto centrale.

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Il governo non ha ancora deciso quando si voterà, ma è probabile che il referendum venga fatto coincidere con le altre elezioni rimandate a causa della pandemia: le comunali (tra le altre, Venezia, Agrigento e Nuoro) e le regionali (si deve votare in Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto). Riccardo Fraccaro, ministro per i Rapporti con il Parlamento del Movimento 5 Stelle, ha parlato poche settimane fa della possibilità di concentrare elezioni e referendum in una data da fissare tra settembre ed ottobre.

I termini della legge sui referendum costituzionali sono piuttosto ampi. Stabiliscono che un referendum deve essere indetto entro 240 giorni dal momento della sua ammissione (cosa che è avvenuta lo scorso gennaio). Una volta indetto, il referendum deve tenersi in una finestra di tempo tra 50 e 70 giorni. Senza un nuovo intervento del Parlamento, il referendum si potrà tenere al massimo entro il prossimo 22 novembre.

Non cambieranno invece il contenuto e le modalità di voto. Il referendum sul taglio dei parlamentari sarà il quarto referendum costituzionale nella storia della Repubblica Italiana (gli altri tre sono stati il referendum sul Titolo V del 2001, quello sulla riforma costituzionale del centrodestra nel 2006 e quello sulla riforma costituzionale voluta dal PD di Matteo Renzi nel 2016).

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Questo tipo di referendum serve a confermare l’approvazione di una riforma costituzionale che non ha ottenuto almeno due terzi dei voti in ciascuna camera. Chi vota “sì” chiede che la riforma sia confermata ed entri in vigore, chi vota “no” ne chiede invece l’abrogazione. Nei referendum costituzionali non si tiene conto del quorum, come nei normali referendum abrogativi. Indipendentemente dal numero di votanti, il risultato quindi viene sempre preso in considerazione.

Nel dettaglio, la riforma prevede di ridurre i seggi alla Camera da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200: una riduzione di circa un terzo. Di conseguenza saranno ridotti anche i parlamentari eletti all’estero: i deputati eletti dagli italiani all’estero passeranno da 12 a 8 e i senatori da 6 a 4. Verrà inoltre stabilito un tetto massimo al numero dei senatori a vita nominati dai presidenti della Repubblica: mai più di 5. Oggi l’Italia ha un numero di parlamentari per numero di abitanti simile a quello dei grandi paesi europei. Dopo la riforma diventerebbe invece uno dei paesi con il parlamento più ridotto e quindi meno rappresentativo della popolazione.

Il Movimento 5 Stelle è il partito che ha portato avanti e sostenuto la riforma come parte della sua lunga campagna cosiddetta “anti-casta”, ma in realtà quasi tutti i grandi partiti hanno mostrato interesse o simpatia per gli stessi temi (le ultime due riforme costituzionali proposte, e bocciate dagli elettori, prevedevano tra le altre cose anche il taglio del numero dei parlamentari). Di fatto, nessun grande partito si è schierato apertamente per il “no”, mentre il PD è l’unico aver votato almeno una volta contro la riforma, durante il passaggio della legge in Senato nell’estate del 2019.

Per quanto inizialmente contrario il PD ha cambiato idea lo scorso ottobre, dopo essere andato al governo con il Movimento 5 Stelle, e aver sottoscritto un’alleanza che prevede l’appoggio alla riforma. Forza Italia si è astenuta al primo voto e ha votato a favore durante il secondo. Lega e Fratelli d’Italia hanno votato Sì entrambe le volte. Nonostante questa apparente unanimità dei partiti nel sostenere la riforma, 71 senatori appartenente a varie formazioni hanno firmato per indire un referendum costituzionale. Inoltre sono contrari alla riforma diversi partiti, soprattutto i più piccoli, e numerosi singoli parlamentari.