L’impatto ambientale del ritorno del vinile

La musica ha avuto e continua ad avere un ruolo significativo nello sfruttamento della risorse ambientali: esistono delle soluzioni?

(Uwe Zucchi/picture-alliance/dpa/AP Images)
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Kyle Devine, docente al dipartimento di musicologia dell’Università di Oslo, ha scritto un libro intitolato “Decomposed” spiegando come la musica venga, a torto, considerata come la più immateriale delle arti. I modi di distribuirla e di ascoltarla hanno attraversato sicuramente una smaterializzazione, ma in realtà, dice, la musica ha avuto e continua ad avere un ruolo significativo nello sfruttamento delle risorse ambientali, e la dipendenza da queste risorse è problematica.

Nel suo libro, Devine racconta in particolare tre forme di materialità della musica quando, prima del 1950, i 78 giri erano fatti di gommalacca, una resina naturale ricavata dagli insetti; quando si passò al vinile e alla plastica, e quando questi materiali vennero rimpiazzati dai download digitali e dagli streaming. In ognuna di queste fasi, dice Devine, ci sono state o ci sono persone e processi apparentemente sottovalutati che sono invece centrali per ciò che la musica è, per come funziona e per le conseguenze che ha.

Sono ormai molti anni che si parla di “ritorno del vinile”, e se i dati ridimensionano parecchio questa affermazione, è anche vero che l’unico supporto alternativo allo streaming che continua a crescere sono gli LP. Nel Regno Unito è il dodicesimo anno consecutivo che aumentano le vendite di dischi in vinile (4,3 milioni nel 2019, 4,2 milioni nel 2018), mentre le vendite dei CD, così come i download digitali, si sono più che dimezzate negli ultimi cinque anni. Negli Stati Uniti, dice Devine, attualmente si spende tanto in vinile quanto in CD.

Berkeley, dicembre 2014 (AP Photo/Eric Risberg)

Nell’ultimo secolo i principi tecnologici alla base della produzione dei dischi in vinile non sono cambiati, e le macchine per la produzione sono vecchie di decenni. Il vinile è un polimero plastico sintetico: i granuli di PVC, simili a lenticchie, vengono incanalati in un macchinario, vengono scaldati, fusi e trasformati in dischetti simili a quelli dell’hockey, poi pressati e scaldati di nuovo. Oggi più della metà del cloruro di polivinile (PVC) utilizzato dai produttori di dischi statunitensi proviene da una società thailandese, la Chemicals Public Company Limited (TPC) con sede a Bangkok, e viene lavorato sulle rive del fiume Chao Phraya. Devine ha cercato di visitare la fabbrica senza riuscirci, ma ha intervistato uno dei dirigenti della società proprietaria della TPC, la SCG Chemicals, una delle maggiori compagnie petrolchimiche dell’Asia.

Il processo di produzione del PVC è complicato: si ottiene sintetizzando i componenti chimici, il materiale grezzo viene quindi mescolato con vari additivi, riscaldato per formare un composto di plastica fusa, passato attraverso una matrice e tagliato a pezzetti. Il rappresentante della SGC che Devine ha incontrato gli ha spiegato le tecnologie, gli alti livelli di competenza industriale e gli approfonditi controlli di qualità necessari per realizzare questo composto, ma ha evitato di rispondere alle domande sugli effetti dannosi della produzione di vinile. Il PVC contiene infatti sostanze cancerogene e la produzione genera acque reflue che la società, secondo Greenpeace, versa fin dagli anni Novanta nel fiume Chao Phraya.

Durante il periodo di massimo splendore del vinile, la situazione negli Stati Uniti non era diversa. Negli anni Settanta, racconta Devine, la Keysor-Century Corporation, a nord di Los Angeles, forniva all’industria discografica statunitense circa 20 milioni di chili di PVC all’anno. Nel 1977 la Keysor-Century venne messa sotto inchiesta dall’Agenzia per la protezione ambientale (EPA), e poi di nuovo all’inizio 2000 quando venne anche multata per più di 4 milioni di dollari per aver esposto i lavoratori a esalazioni tossiche, per aver rilasciato sostanze tossiche nell’aria e aver scaricato illegalmente acque reflue.

È impossibile sapere quanta parte dell’inquinamento sia direttamente legata alla produzione di dischi in vinile. Una cosa però è certa, dice Devine: gli LP, come le musicassette e i CD, sono derivati petroliferi che sono stati prodotti e distrutti in massa dalla metà del XX secolo. Durante i picchi di vendite negli Stati Uniti, l’industria discografica utilizzava quasi 60 milioni di chili di plastica all’anno. Utilizzando le medie attuali di emissioni equivalenti di gas serra per chilo di produzione di plastica, si potrebbe ipotizzare che siano stati emessi oltre 140 milioni di chilogrammi di CO2 ogni anno: solo negli Stati Uniti e per la produzione di musica. La musica, come praticamente tutto il resto, è coinvolta nel petro-capitalismo, dice Devine.

Granuli di PVC utilizzati per la produzione di vinili (Chris J Ratcliffe/Getty Images)

Devine si chiede dunque se utilizzare download digitali e streaming possa essere una soluzione. Ma dice che questo è un modo sbagliato di inquadrare il problema, dato che anche per questo tipo di ascolto servono dei supporti fisici. I file audio digitali non sono virtuali: si basano su infrastrutture di archiviazione, elaborazione e trasmissione dei dati che hanno emissioni di gas serra potenzialmente anche più elevate rispetto alle materie plastiche petrolchimiche utilizzate nella produzione di formati evidentemente più fisici come gli LP.

La quantità di energia richiesta per lo streaming di una singola canzone o di un album è trascurabile, e inferiore a quella necessaria per ottenere la stessa musica su un vinile, una cassetta o un CD, ma questo confronto non è utile. Se è vero che i singoli file audio digitali consumano meno energia rispetto ai formati che li hanno preceduti, questo singolo guadagno in termini di efficienza è superato infatti dagli aumenti dell’uso generale. Le nuove modalità di ascolto (e cioè l’accesso immediato a quantità illimitate di musica), sebbene abbiano portato le industrie discografiche a utilizzare molta meno plastica, stanno producendo una maggiore quantità di emissioni equivalenti di gas serra. Le stime più prudenti dicono che la quantità di tali emissioni è pari a 200 milioni di chili l’anno a partire dal 2015, mentre le stime più pessimistiche parlano di 350 milioni di chili all’anno: che è più del doppio delle emissioni equivalenti del settore di produzione discografica statunitense all’apice della produzione di vinili, musicassette o CD. I dispositivi necessari per accedere alla musica in streaming, poi, si basano sullo sfruttamento di risorse naturali e umane in tutto il mondo.

Una fase della produzione dei vinili alla Vinyl Factory di Hayes, Regno Unito, gennaio 2017 (Chris J Ratcliffe/Getty Images)

Devine dice che comunque c’è chi si sta occupando del problema. Un gruppo di otto aziende olandesi sta sperimentando modi per rendere più ecologico il vinile, registrando su un materiale riciclabile, non in PVC. Eppure non stanno avendo molto successo, perché la qualità del suono non è stata giudicata soddisfacente. Devine ha ascoltato un disco in “green vinyl” e, dice, «è vero che non suonava né sembrava un tipico LP. Il rumore di fondo non era quello a cui ero abituato, e talvolta c’era anche un suono intermittente, come se il disco stesso avesse l’acufene». Ma, aggiunge, «se questi sono il suono e la sensazione di qualcosa che è fatto con un materiale meno dannoso del PVC, allora queste caratteristiche non sono imperfezioni ma bellezze». Può essere sconvolgente, conclude, scoprire che qualcosa di bello come la musica ha a che fare con delle conseguenze ambientali così allarmanti, ma conoscerle può essere il primo passo per affrontarle e forse migliorarle.