Chi era Giorgio Almirante

Il leader politico di estrema destra che durante la guerra fu un collaborazionista dei nazisti e a cui il comune di Verona vuole dedicare una strada

(ANSA/OLDPIX)
(ANSA/OLDPIX)

Poche settimane fa il comune di Verona ha deciso di intitolare una via a uno storico leader della destra radicale italiana, Giorgio Almirante, morto nel 1988, ex dirigente del regime fascista e collaborazionista dei nazisti, divenuto nel dopoguerra fondatore del Movimento Sociale Italiano (MSI).

In Italia esistono già diverse vie e piazze Almirante, ma la notizia ha causato particolari polemiche poiché lo stesso consiglio comunale di Verona ha votato pochi giorni dopo per dare la cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Segre ha detto che le due scelte del comune di Verona sono incompatibili. «La città di Verona, democraticamente, faccia una scelta e decida ciò che vuole, ma non può fare due scelte che sono antitetiche l’una all’altra», ha scritto Segre.

Il dibattito su Almirante dura da decenni, in parte a causa della sua lunghissima carriera politica – fu parlamentare per quarant’anni, dal 1948 fino alla sua morte – ma soprattutto a causa della sua storia personale estremamente controversa. Durante il regime fascista, Almirante fu un importante dirigente del partito, autore di articoli razzisti e antisemiti; dopo la guerra non rinnegò mai la sua fede fascista, la sua ostilità alla democrazia e la sua ammirazione per Benito Mussolini.

Nato a Salsomaggiore in provincia di Parma nel 1914, Almirante divenne un convinto fascista fin da giovane. Iniziò a lavorare come giornalista e fu uno dei principali redattori de La difesa della Razza, il periodico che iniziò le sue pubblicazioni nel 1938 e che, insieme all’approvazione delle cosiddette “leggi razziali”, segnò la definitiva svolta antisemita e razzista del regime fascista.Uno dei suoi articoli più citati venne pubblicato il 5 maggio del 1942. «Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti», scriveva Almirante, «altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei». Per Almirante «non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue».

Alla caduta del regime fascista, nel 1943, Almirante entrò a far parte della Repubblica di Salò, il regime fantoccio che i nazisti instaurarono nell’Italia settentrionale. Grazie alle sue credenziali di giornalista fedele al regime venne nominato capo di gabinetto del ministero della Cultura popolare. In quel periodo Almirante firmò un manifesto distribuito nella provincia di Grosseto in cui veniva intimato agli sbandati dell’esercito italiano (che dopo l’armistizio dell’8 settembre si trovavano in una situazione di grande confusione) di arrendersi e consegnare le armi alle milizie fasciste o all’esercito tedesco, pena la fucilazione.

Quando il documento venne pubblicato dal quotidiano del Partito Comunista L’Unità, nel 1971, ne nacque una lunghissima battaglia legale. Almirante querelò i giornalisti che avevano pubblicato il manifesto, accusandoli di aver falsificato un documento, e per sette anni L’Unità, Il Manifesto e il leader neofascista si scontrarono in tribunale. Alla fine il procedimento dimostrò che il manifesto era autentico ed era stato effettivamente realizzato da Almirante in quanto capo di gabinetto del ministero della Cultura popolare. Almirante, però, rifiutò sempre l’etichetta di “fucilitatore” che i giornalisti di sinistra gli avevano attribuito, sostenendo di non aver mai compiuto o ordinato episodi di violenza.

Dopo la guerra Almirante divenne uno dei fondatori e poi segretario del MSI, il più importante partito neofascista italiano, che guidò fino alla sua morte (è il partito da cui poi nacque Alleanza Nazionale). Durante la sua lunghissima carriera politica non rinnegò mai la sua passata appartenenza al regime e la sua fede fascista. «La parola fascista ce l’ho scritta in fronte», disse in un’intervista. Fu sempre critico sulla democrazia («Democratico», disse in un’altra occasione, «è un aggettivo che non mi convince») e, dopo il colpo di stato militare in Cile nel 1973, in un discorso alla Camera auspicò che anche in Italia potesse accadere qualcosa di simile. Era un feroce anticomunista e non nascose mai che piuttosto che una loro vittoria alle elezioni riteneva che sarebbe stata meglio una dittatura militare.

L’unico aspetto della sua precedente carriera su cui fece marcia indietro fu il suo sostegno al razzismo e all’antisemitismo. Per tutta la sua carriera politica gli venne rinfacciato il suo lavoro a La difesa della razza, ma in quasi ogni occasione Almirante prese le distanze da quanto aveva scritto tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta. In una tribuna elettorale del 1967, per esempio, Almirante disse che non aveva «alcuna difficoltà» a respingere il razzismo e che, altrettanto, non aveva «alcuna difficoltà» a inserire il Diario di Anna Frank nella biblioteca del suo partito.

Per queste sue posizioni considerate troppo morbide, Almirante fu criticato tra gli altri dal filosofo ed estremista Julius Evola. Ma nonostante fosse percepito come un “revisionista” dalla destra più estrema e razzista, Almirante non arrivò mai a condannare il regime fascista per le leggi razziali e le persecuzioni degli ebrei e sostenne sempre che le azioni che furono compiute all’epoca erano comprensibili e giustificabili alla luce del contesto storico di quei tempi (la condanna arrivò soltanto quindici anni dopo la sua morte con il suo successore, Gianfranco Fini, che definì il fascismo «male assoluto»).

Almirante accompagnò questi atteggiamenti all’apparenza moderati con un comportamento sobrio e responsabile nella sua attività politica, una tattica che venne chiamata “fascismo in doppiopetto” per indicare come l’ideologia violenta e radicale del fascismo assumesse in Almirante tratti rispettabili ed accettabili nel dibattito pubblico dell’epoca. Tra gli altri episodi, il più famoso fu probabilmente la sua visita alla camera ardente del segretario del PCI Enrico Berlinguer (una visita che fu ricambiata dai dirigenti comunisti quando, nel 1988, fu la salma di Almirante a essere esposta dopo la sua morte). Nonostante questi sui atteggiamenti concilianti, Almirante e il suo partito furono spesso accusati di offrire collaborazione e copertura alla destra extraparlamentare, responsabile di violenza, uccisioni e attentanti. Un episodio famoso è quello degli scontri di Valle Giulia a Roma nel 1968 in cui Almirante (ritratto in una celebre foto con giovani neofascisti armati di bastoni) partecipò e secondo molte testimonianze guidò un’aggressione contro l’occupazione dell’università da parte di studenti di sinistra.

Secondo i suoi difensori la strategia di Almirante portò alla “costituzionalizzazione” dell’estrema destra, evitando che milioni di voti e migliaia di militanti sostenessero partiti e movimenti ancora più estremisti. Per i critici, invece, Almirante aveva soltanto mascherato gli aspetti esteriori di un’ideologia violenta e antidemocratica che, anche grazie a lui, non è stata mai del tutto estirpata dal dibattito pubblico italiano, spesso proteggendo direttamente scelte e atti violenti dei movimenti neofascisti. Negli ultimi anni, e in particolare dopo la sua morte nel 1988, il ruolo di Almirante è stato per molti versi assorbito nella storia dell’Italia democratica, come spesso avviene con le figure del passato. Politici di tutti gli schieramenti, compreso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, hanno partecipato alle commemorazioni della sua figura e ne hanno lodato l’attività politica.