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  • Mercoledì 25 dicembre 2019

L’anno delle elezioni statunitensi

Una guida per districarsi in anticipo ai prossimi mesi di primarie, convention e dibattiti

(AP Photo/John Amis)
(AP Photo/John Amis)

Negli Stati Uniti – ma in generale nelle repubbliche presidenziali – un presidente viene rimosso dal suo incarico soltanto se si dimette, se muore, oppure se viene considerato colpevole di crimini gravissimi da parte del Congresso (eventualità assai remota, come stiamo osservando in questi giorni con Donald Trump): e anche in quel caso non si ritorna a votare ma gli subentra il suo vice. Una delle conseguenze più concrete di questo sistema è che si vota ogni quattro anni, sempre. La cadenza regolare delle elezioni concentra tutti i passaggi più rilevanti nei mesi precedenti al voto: il 2020 sarà quindi l’anno delle primarie del Partito Democratico, delle convention dei due partiti, dei dibattiti fra i due candidati, e infine del voto vero e proprio.

Il grande assente dall’elenco degli appuntamenti importanti sono le primarie dei Repubblicani, che si terranno ma il cui risultato è scontato. Trump è stato sfidato da due Repubblicani virtualmente sconosciuti – tanto che diverse sezioni statali del partito hanno già fatto sapere che sosterranno il presidente uscente – e questo descrive molto bene «il controllo totale che il presidente ha ottenuto del suo partito», come ha scritto Politico.

All’inizio del suo mandato Trump era un corpo estraneo al partito, che era ancora gestito da Repubblicani con posizioni più tradizionali – conservatori sui diritti civili, liberali in economia, relativamente disponibili a trattare con i Democratici, anche se sempre meno – e aveva prodotto una nuova classe dirigente che sembrava pronta a prendere il controllo del partito: gente come lo speaker della Camera Paul Ryan, il senatore Marco Rubio, i governatori Scott Walker e Chris Christie. Quest’anno nessuno di loro si è candidato alle primarie per sfidare Trump: il primo si è ritirato dalla politica, il terzo non è stato rieletto e il secondo e il quarto si sono avvicinati moltissimo a Trump, così come ha fatto la stragrande maggioranza degli elettori Repubblicani.

All’elettorato del partito sono piaciute un sacco di cose che ha fatto Trump in questi anni: dalla nomina di centinaia di giudici saldamente conservatori, all’enorme taglio delle tasse alle imprese approvato due anni fa, fino ad arrivare alla proposta di costruire un muro al confine con il Messico. Le prime due proposte hanno rassicurato rispettivamente la componente religiosa e ultraliberale dei Repubblicani, mentre l’ultima ha pagato con quella più estremista e identitaria. La sua popolarità, inoltre, non è stata minimamente scalfita dagli scandali e dalle gaffe che lo hanno coinvolto su base praticamente giornaliera: e dire che negli ultimi due anni si è scoperto, fra le altre cose, che ha evaso le tasse per decenni, pagato varie persone per non rivelare le sue relazioni extraconiugali, fatto pressioni per chiudere un’indagine federale sul suo conto, oltre ad aver stretto rapporti con alcuni dei leader autoritari più pericolosi del mondo. In un dibattito politico sempre più polarizzato, Trump è al contempo uno dei presidenti più impopolari di sempre – non piace al 53 per cento dell’elettorato – sia uno dei più apprezzati dagli elettori del proprio partito: il suo tasso di popolarità fra i Repubblicani è stabilmente intorno al 90 per cento.

Trump è rimasto piuttosto popolare anche negli swing states – cioè gli stati popolosi in cui il consenso fra Repubblicani e Democratici è praticamente alla pari – che nel 2016 gli consentirono di battere a sorpresa Hillary Clinton: Florida, Arizona, Ohio, North Carolina, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Insomma, Trump può vincere di nuovo, eccome.

– Leggi anche: Le ragioni per cui Trump potrà vincere anche nel 2020

L’altro pezzo della storia è che da mesi il Partito Democratico sta vivendo una campagna elettorale piuttosto caotica. Per molto tempo i candidati sono stati più di 20 e oggi rimangono 15. Almeno due candidati di primo piano – Kamala Harris e Beto O’Rourke – si sono già ritirati, mentre altri stanno cercando di guadagnare spazio investendo valanghe di soldi – come il miliardario Michael Bloomberg – o attaccando il partito e tutti gli altri candidati, come Tulsi Gabbard.

Le primarie vere e proprie inizieranno a febbraio, ma con così tanti candidati ancora in ballo esiste il rischio concreto che in estate si arrivi alla convention del partito, cioè l’evento in cui viene ufficializzato il candidato presidente, senza che nessuno di loro controlli la maggioranza assoluta dei delegati. Sarebbe la cosiddetta brokered convention, temuta perché di fatto darebbe l’immagine di un partito diviso e litigioso a pochi mesi dal voto.

– Leggi anche: Mancano meno di due mesi alle primarie dei Democratici

Al momento i candidati messi meglio sembrano quattro: l’ex vicepresidente Joe Biden, i senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren e il sindaco di South Bend (Indiana), Pete Buttigieg. A meno di sorprese – peraltro ancora possibili – molto si deciderà già nelle prime tappe delle primarie. Si voterà il 3 febbraio in Iowa, l’11 in New Hampshire, il 22 in Nevada e soprattutto il 29 in South Carolina, uno stato con un elettorato composto prevalentemente da afro-americani che potrebbe premiare un candidato diverso dai primi tre. Il cosiddetto Super Tuesday, la data in cui voteranno 14 stati contemporaneamente, è previsto invece per il 3 marzo.

Le primarie si concluderanno a giugno. Dal 13 al 16 luglio si terrà la convention dei Democratici, mentre quella dei Repubblicani è stata fissata fra il 24 e il 27 agosto. Entrambe si terranno in due swing state piuttosto importanti per il 2020: quella dei Democratici nel Wisconsin, uno stato vinto da Trump nel 2016 ma che negli ultimi trent’anni è stato spesso vinto da candidati Democratici, e quella dei Repubblicani nel North Carolina, dove nelle ultime tre elezioni Repubblicani e Democratici sono arrivati praticamente pari.

La campagna elettorale per le presidenziali inizierà dopo l’estate e culminerà nei dibattiti fra i due candidati. I dibattiti tradizionalmente sono tre – più uno fra i vice – e si tengono fra la fine di settembre e ottobre. Le elezioni si terranno in tutti gli Stati Uniti martedì 3 novembre.