Lo strano futuro del petrolio
È una delle più grandi industrie del mondo, ma è destinata a ridimensionarsi molto nel prossimo futuro: eppure, la produzione continua ad aumentare e nel settore stanno arrivando nuovi investimenti
Alla fine di ottobre, lo scrittore e attivista americano Jeremy Rifkin era in Italia per presentare il suo ultimo libro, Un Green New Deal Globale, nel quale afferma che l’industria dei combustibili fossili è destinata a collassare entro il 2028 in quella che, secondo Rifkin, sarà l’esplosione della «più grande bolla della storia». Nonostante siano in molti a prevedere come lui un collasso dell’industria petrolifera e di quella del carbone sotto la pressione delle energie rinnovabili e della nuova consapevolezza ambientale, nel brevissimo termine sembra che le cose andranno in realtà nella direzione opposta.
Nei prossimi due anni, tanto la domanda quanto la produzione di petrolio, il principale combustibile fossile responsabile di circa un terzo delle emissioni inquinanti, sono destinate ad aumentare, anche grazie all’entrata in funzione di una serie di nuovi giacimenti e all’espansione di alcuni di quelli già esistenti. Paesi dove un tempo non si produceva petrolio, come la Guyana, sono infatti destinati ad aggiungere centinaia di migliaia di barili di petrolio alla produzione giornaliera mondiale. Altri, come Brasile, Canada e Norvegia, vedranno la loro produzione riprendere vigore dopo anni di stagnazione.
Secondo alcune stime riportate dal New York Times, nel 2020 questi quattro paesi aggiungeranno un milione di barili di petrolio agli 80 milioni di barili che si producono ogni giorno, e altri due milioni nel 2021. Questa capacità aggiuntiva arriverà da paesi politicamente molto stabili o comunque isolati dai principali focolai di instabilità (che si trovano quasi tutti in Medio Oriente). Questo significa che la loro fornitura di petrolio sarà assicurata e slegata dalle tensioni internazionali. A questo bisogna aggiungere che la domanda di petrolio sembra destinata a calare se non nell’immediato, almeno nel medio termine, a causa sia della più o meno determinata “decarbonizzazione”, l’abbandono dell’utilizzo delle fonti di energia fossili come il petrolio, sia dei segnali di crisi e il rischio di una nuova recessione globale.
Messi insieme tutti questi fattori indicano una probabile ulteriore diminuzione del prezzo del petrolio nel prossimo futuro. Il petrolio sembra destinato a non tornare più oltre i 100 dollari al barile che aveva raggiunto prima della crisi (oggi è intorno ai 60 dollari al barile). Se questa è una buona notizia per quei paesi che importano petrolio (Cina, Giappone, gran parte dell’Europa, compresa l’Italia), il New York Times ricorda che invece non è affatto una buona notizia per il futuro della conversione energetica. Carburante a basso prezzo, infatti, significa un incentivo minore a passare ad altre fonti energetiche.
Può sorprendere, quindi, che tra i paesi che saranno al centro di questo aumento di produzione e quindi di probabile calo o contenimento dei prezzi ci siano paesi come Canada e Norvegia, dove la consapevolezza della crisi climatica è in genere ritenuta molto forte. In Norvegia, in particolare, il grande fondo sovrano aveva annunciato qualche anno fa la sua intenzione di smobilitare miliardi e miliardi di euro di investimenti in energie fossili, attirandosi l’ammirazione degli ambientalisti di tutto il mondo.
Allo stesso tempo però, Equinor, la società petrolifera norvegese che alimenta il fondo con i suoi utili, ha proseguito le pratiche avviate in passato per sfruttare una serie di nuovo giacimenti nel Mare del Nord. A chi ha fatto notare l’apparente contraddizione, i rappresentanti di Equinor hanno risposto che gli accordi sul clima di Parigi stabiliscono chiaramente che il mondo avrà ancora bisogno di petrolio per un bel po’ di tempo (e nel frattempo, per compensare, hanno aumentato gli investimenti in impianti di energia eolica).
Come nota il New York Times, gli investimenti energetici hanno una loro inerzia: sono grandi, costosi, si decidono parecchi anni prima di essere completati e producono ritorni molto significativi. Una volta avviati, insomma, sono molto difficili da fermare, anche in Canada e Norvegia.
Una storia simile è stata raccontata dall’Economist, dove un lungo speciale è dedicato alla quotazione in borsa di Aramco, la compagnia petrolifera saudita che dopo il collocamento potrebbe diventare la più capitalizzata al mondo, battendo persino giganti come Apple e Google. La quotazione di Aramco fa parte del più ampio “Vision 2030”, un piano di riforme lanciato dell’attuale principe ereditario saudita, Mohamed bin Salman (spesso abbreviato in MbS). L’obiettivo del piano è diversificare l’economia saudita basata al momento quasi esclusivamente sul petrolio.
Ma si tratta di un obiettivo difficilissimo e molto costoso. Per raggiungerlo, l’Arabia Saudita avrà – paradossalmente – bisogno proprio dei proventi del petrolio di cui vuole liberarsi, proventi che però oggi sembrano essere messi in discussione dall’arrivo sul mercato dei nuovi produttori e dall’abbassamento del costo del petrolio (sono anni oramai che l’Arabia Saudita e gli altri produttori limitano la loro produzione nel tentativo di tenere alti i prezzi).
Il futuro del petrolio sembra quindi una gara di resistenza. Mano a mano che la domanda di petrolio inizierà a stabilizzarsi e poi a calare, i prezzi faranno lo stesso e una doppia pressione inizierà a schiacciare i produttori. Da un lato quella dei prezzi: i giacimenti dove è complicato e costoso estrarre petrolio, come i nuovi giacimenti aperti negli ultimi anni negli Stati Uniti o alcuni di quelli nelle zone più remote della Russia, saranno gradualmente messi fuori mercato. Allo stesso tempo, la pressione ambientale spingerà fuori dal mercato le estrazioni più inquinanti. Il petrolio di scisto e quello estratto tramite fracking, ad esempio, hanno un impatto ambientale particolarmente elevato e saranno probabilmente i primi a trovarsi in seria difficoltà.
L’Economist scrive che questa “selezione naturale” non sarà un passaggio indolore: quella dei combustibili fossili è un’industria con un valore di 16 mila miliardi di dollari e circa 10 milioni di impiegati. Più sarà veloce la transizione (secondo Rifkin mancano appena nove anni alla sua conclusione) meno tempo ci sarà per adeguarsi alle sue conseguenze. E non è un problema che riguarda solo un pugno di capitalisti e finanzieri. L’Economist ricorda che ci sono 26 paesi che ricavano più del 5 per cento del loro PIL (la media è il 18 per cento) dall’esportazione del petrolio. In Venezuela abbiamo visto a cosa può portare una grave crisi del settore petrolifero. Nell’instabile Medio Oriente una situazione simile potrebbe essere persino più grave.
In questo scenario però, l’Arabia Saudita può contare su due vantaggi. Il suo petrolio è tra i più facili al mondo da estrarre, con un costo di appena tre dollari a barile. Ed è ancora, comparativamente, uno dei meno inquinanti. Secondo l’Economist, quello che l’Arabia Saudita sta facendo è prepararsi a diventare l’ultimo produttore di petrolio al mondo. Quello che, quando tutti gli altri saranno messi fuori mercato, sarà ancora in grado di rifornire un’industria fossile sempre più ridotta.
L’Arabia Saudita, però, deve scontare anche tensioni di altro tipo. Quelle geopolitiche, con la sua rivalità con il vicino Iran (che, poche settimane fa, ha attaccato e danneggiato gravemente un importante stabilimento saudita, danneggiando la produzione per settimane), ma anche quelle interne, con una popolazione giovane, in buona parte disoccupata e potenzialmente difficile da controllare politicamente. Queste sono proprio due delle ragioni che hanno spinto il governo saudita a quotare Aramco: raccogliere il denaro con cui preparare il paese a una complicata transizione economica ed energetica. Insomma, conclude l’Economist, se è vero che probabilmente l’età dell’oro dei petrolio e dei combustibili fossili è oramai terminata, la loro capacità di creare instabilità e caos ci accompagnerà ancora per decenni.