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  • Mercoledì 6 novembre 2019

La storia di un architetto che una volta era molto famoso

Quella di Tomaso Buzzi, inventore delle Terrazze Martini e progettista di una grande villa sulla spiaggia di Sabaudia, raccontata in "Outsiders 2", una raccolta di storie di artisti poco convenzionali

Veduta della Scarzuola di Tomaso Buzzi, in Umbria (Giunti)
Veduta della Scarzuola di Tomaso Buzzi, in Umbria (Giunti)

Nella storia dell’arte, come in quella della letteratura, ci sono moltissimi personaggi che si definivano artisti e in tanti casi venivano considerati tali dai propri contemporanei, ma poi sono stati dimenticati, oppure hanno ottenuto un piccolo riconoscimento tardivo, restando però noti solo a una piccola nicchia. Alfredo Accatino, autore televisivo e scrittore, ha raccolto le storie di 83 personaggi di questo genere in due libri pubblicati da Giunti, Outsiders, del 2017, e Outsiders 2, uscito a settembre. In mezzo ci sono persone anche note che forse non metteremmo nella categoria degli artisti, come Bettie Page, altre che tennero segreta la propria produzione creativa per essere scoperti solo dopo la morte, come Vivian Maier e Henry Darger, e artisti cosiddetti “underground”.

Vissuti nel Novecento e in 25 paesi diversi, gli artisti di Outsiders 2 sono perlopiù sconosciuti, anche se magari qualcuno si ricorda di aver visto un’opera dell’artista Dada Hannah Höch in un museo di Berlino, oppure durante una visita turistica a Milano ha sentito nominare l’architetto Tomaso Buzzi. Pubblichiamo il capitolo del libro che parla proprio di Buzzi, che tra gli anni Trenta e Cinquanta era apprezzatissimo in Italia e il cui stile oggi è lontano dalla sensibilità contemporanea. È sua, tra le altre cose, la grande villa con le colonne da tempio greco sulla spiaggia di Sabaudia, vicino al Circeo. Accatino racconta la sua vita, e quella degli altri artisti, mescolando testimonianze e fonti scritte, con un tono personale e lontano da quello formale dei manuali di storia dell’arte.

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Sabaudia (Latina) è democratica, basta il ticket del parcheggio e ti senti un re. E mi piace, sopra ogni cosa, raggiungere il tratto di spiaggia libera davanti alla grande villa con colonne, vagamente palladiana e del tutto incongruente, che si eleva come una sconcia erezione tra le dune, la cui scalinata di tufo finisce nel nulla. Per arrivarci, devi fare un breve tratto a piedi, ma quando distenderai il telo sulla sabbia, potrai dire anche tu: «Cribbio… è ferragosto e siamo quasi soli».

Una villa sfacciata, scomoda per scelta progettuale perché non immaginata per il piacere “mollo” dei vacanzieri, ma come autocelebrazione dalla contessa Nathalie Volpi di Misurata, moglie di Giuseppe, fondatore del Festival di Venezia. Terminata nel 1958, set naturale per film, da Scipione l’Africano a Divorzio all’Italiana. Ogni anno in vendita per cifre che oscillano dai 20 ai 30 milioni di euro, mai acquistata.

Pochi sanno che il suo autore, oggi dimenticato, era una vera e propria archistar, uno status symbol per i committenti. Si chiamava Tomaso Buzzi, ed è stato uno dei più sorprendenti architetti italiani del Novecento. Con questi “gadget” per straricchi, come i progetti per le dimore di casa Agnelli a Villar Perosa o Villa Necchi Campiglio, oggi dimora-museo a Milano del Fai, è riuscito a pagarsi i propri castelli in aria.

Una delle stanze di Villa Necchi Campiglio, a Milano, riarredata da Tomaso Buzzi alla fine degli anni Trenta, modificando il precedente arredamento di Piero Portaluppi (Wikimedia Commons)

Perché come diceva lui stesso, dopo aver lavorato la prima parte della vita per dare soddisfazione al corpo, la seconda occorreva dedicarla all’anima. E la sua anima ha un nome: La Scarzuola di Montegabbione in Umbria, convento fondato in onore di san Francesco che qui, nel 1218, costruì una capanna con una pianta palustre chiamata “scarza”. Prima Buzzi lo restaura, poi tra il 1958 e il 1978 lo trasforma in una città ideale e utopica, costruita come una scenografia in continua evoluzione, secondo il gusto del Wunderkammer. Una “città teatrale” (e i teatri sono addirittura sette) che non ospiterà nessuna rappresentazione e si snoda in un percorso a spirale dalle denominazioni impegnative: Barca delle anime, Balena di pietra, Torre della disperazione, Scala della vita, Tempio di Eros, Pozzo della meditazione, Teatro delle api… Una “fabbrica” dal sapore rinascimentale, proseguita sino a oggi grazie all’attività indefessa del nipote acquisito Marco Solari che la ereditò nel 1981, continuando a erigerla seguendo i progetti e i dettami del prozio, abbandonando per questa missione una vita normale dalle parti di Milano.

Un tipo singolare, Marco, che ride sempre mentre fa da guida, alternando spiegazioni dotte a parolacce, citazioni misogine e pesanti doppi sensi studiati ad arte per scandalizzare i visitatori più delicati, sottolineando come la struttura sia costruita intorno alla Sacra vagina, la Vulva sovrana che si staglia tra le architetture, simbolo di vita e di passaggio. C’è anche la Grande madre, una gigantessa di pietra senza testa dai seni felliniani, Madre Terra, polena, guardiana di due porte: quella della Scienza e della Tecnica e quella dell’Arte e della Fantasia. Dice ancora Marco: «Ogni cosa qui è memoria del passato, assemblato in maniera diversa, perché il passato è il trampolino per creare il futuro».

Il palco di uno dei teatri della Scarzuola (Wikimedia Commons)

E anche Buzzi immaginava che alla sua morte il luogo avrebbe continuato a trasformarsi, magari in una rovina invasa da erbacce, da studiare e riscoprire. Appassionato sostenitore del “ruinismo”, visione secondo la quale le opere devono essere lasciate in balìa del tempo, per essere plasmate liberamente dalla natura, affermava: «I palazzi cambiano proprietà, vengono modificati o distrutti, le collezioni disperse, dilapidate. Solo le rovine rimangono: Villa Adriana, Villa d’Este, Bomarzo, o le abbazie, come San Galgano». Le radici sono quelle dell’eclettismo, ma è un mishmash compulsivo di citazioni, dal manierismo al Palladio, da Coppedé a Bomarzo. Se osservi il Teatro centrale ricorda il Teatro olimpico di Vicenza, con un grande vascello a bloccare la scena. Ma poi ritrovi Bosch e Arcimboldo, Escher, Borromini e Piranesi, con un gusto da bizzarro “architetto antiquario” che rilegge e dà forma e volume al Polifilo di Francesco Colonna, autore misterioso che nel 1499 descrive una città vista in sogno, composta da piramidi e obelischi, fontane, templi in rovina. E Tomaso lo fa, perché può permettersi di non abitarci. Perché alcuni edifici sono solo strutture scenografiche senza corpo, erette nel tempo da una quarantina di operai che gli mandano gli aggiornamenti in foto mentre lui è all’estero a erigere consolati e ville, ordinando per posta la distruzione di manufatti appena terminati o l’erezione di nuovi edifici.

Per questo in paese lo consideravano un po’ matto (generoso, ma matto), e i suoi amici mondani ci ridevano sopra. Mentre lui risponde: «Quando sono con voi sono vestito e in cravatta; quando sono alla Scarzuola, sono nudo, e questo non potete sopportarlo».

Tomaso Buzzi nasce a Sondrio nel 1900 da famiglia benestante. Dopo la laurea in Architettura presso il Regio istituto tecnico, oggi Politecnico di Milano, entra nel 1927 a far parte dell’Associazione per la diffusione nella casa delle moderne arti figurative Il Labirinto con Paolo Venini, Gio Ponti, Carla Visconti di Modrone, Emilio Lancia e Pietro Chiesa. Direttore artistico e designer della Venini & C., eccellenza di Murano, a soli trent’anni diventa l’architetto più amato dalla borghesia. Il più ricco. Il più “colto”, secondo quello che pensava di lui Federico Zeri, tanto da seguire il restauro di Villa Maser del Palladio.

Nel volgere di poche stagioni crea e arreda le ville dei Pirelli, dei Marzotto, degli industriali del boom economico, da Borletti a Invernizzi, a Hollywood la villa del regista George Cukor, e si inventa le famose Terrazze Martini, segno distintivo del successo sociale dei nuovi ricchi. Pubblica giovanissimo su Domus, ma è più a suo agio su Vogue e Harper’s Bazaar.

Grandissimo disegnatore, insegna con entusiasmo Disegno dal vero al Politecnico, maestro di Gae Aulenti, contribuendo all’organizzazione di manifestazioni nazionali e internazionali come la Triennale di Milano. Ha relazioni strette con il gruppo del Novecento milanese (Muzio, Cabiati, De Finetti) e una lunga collaborazione con Gio Ponti, rifuggendo ogni legame con il fascismo, che disprezza. Progetta mobili, ceramiche, merletti, lampade, orologi, insomma, ogni oggetto d’arredo. Ed esagera, come quando nel 1929 si diverte a creare per l’industriale Felice Riva, in via Borgonuovo a Milano, una grande piscina sotterranea che può trasformarsi in salone per le feste e in teatro. Vive girando le località alla moda, invitato alle feste di quelli che contano, ma scrive: «Pur vivendo in mezzo alla gente del bel mondo quasi come uno di loro, e lavorando per i committenti in modo serio e professionale, in realtà io vivo una vita di sogno, segreta; in mezzo alle mie carte, i miei disegni, le mie pitture, le mie sculture».

È alla fine degli anni Cinquanta che inizia il suo percorso di espiazione/iniziazione alla Scarzuola, complesso che ha forti valenze esoteriche, a metà strada tra parco giochi e acropoli sapienziale, che ospitò le visite e i suggerimenti di Salvador Dalí e Leonor Fini. Uno spazio che divide, tanto che è divertente spulciare i commenti su Tripadvisor, dove accanto a «Wow!», trovi totali stroncature: «Posto lontano dal mondo. Costruzioni lego, fiabesco, ma puerile […] un pasticcio tra mostri draghi e santi, irreale utopistico, finto. Guida fuori tema un po’ volgare ed egocentrica. Un gioco per facoltosi». Come dice il nipote: «Unico single, tra i grandi architetti, tutti sposati, Buzzi era l’unico che poteva permettersi di cazzeggiare».

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