Che aria tira per le grandi piattaforme

Non è il loro momento migliore, diciamo: tra indagini, regole e qualche rallentamento dei successi in borsa

(HBO)
(HBO)

Da tempo le grandi aziende di internet producono enormi ricavi e continuano a espandersi velocemente, rafforzando il loro potere. Ma molte cose sono cambiate, soprattutto negli ultimi anni: allo scadere del decennio che le ha viste al centro dei cambiamenti di buona parte delle nostre abitudini e più in generale delle nostre società, Google, Amazon, Facebook e le altre grandi piattaforme devono affrontare come mai prima le attenzioni dei governi, della politica, del potere giudiziario e dei media, che criticano le loro dimensioni e il potere che hanno raggiunto. Il dibattito intorno alla loro stessa esistenza condizionerà un pezzo importante dell’economia mondiale e potrà avere conseguenze sulle nostre abitudini e sul modo in cui utilizziamo Internet ogni giorno.

Per anni le grandi società tecnologiche si sono potute ingrandire grazie alla sostanziale mancanza di regole da parte del governo degli Stati Uniti. Si riteneva che un numero eccessivo di leggi e regolamenti potesse danneggiare la loro crescita, compromettendo un settore ancora relativamente giovane e dinamico per la concorrenza. A distanza di anni, quell’approccio sembra convincere sempre meno sia il potere politico sia quello giudiziario negli Stati Uniti, dopo una più precoce crescita di timori e di interventi in Europa, inevitabilmente poco efficace.

Inchieste e indagini
Google, Facebook e Amazon, per citare tre delle aziende più grandi, sono diventate così enormi e dominanti da rendere praticamente impossibile la concorrenza da parte di altre società nei settori più redditizi online come quello dei motori di ricerca, dei social network, del commercio elettronico e della gestione della pubblicità. Per questo nell’ultimo paio di anni è aumentato il consenso tra Democratici e Repubblicani statunitensi – parliamo di aziende quasi sempre americane – circa la necessità di esaminare con più attenzione il settore alla ricerca di eventuali pratiche che impediscono la libera concorrenza.

La Federal Trade Commission (FTC), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di concorrenza, ha avviato verifiche su Facebook per quanto riguarda la sua posizione sul mercato e il modo in cui gestisce la privacy degli utenti. Due commissioni della Camera stanno lavorando su concorrenza, privacy, acquisizioni e progetti per le valute digitali sempre legati a Facebook. La FTC è inoltre impegnata nelle indagini preliminari su Amazon per la concorrenza e su Google per la tutela della privacy. Il Dipartimento di giustizia sta lavorando su Google alla ricerca di eventuali pratiche lesive della concorrenza, mentre la commissione Giustizia della Camera si sta occupando di concorrenza per quanto riguarda Google, Amazon e Apple.

Analisi di questo tipo, che possono poi portare a indagini formali vere e proprie, sono complicate da portare avanti perché richiedono la collaborazione tra Democratici e Repubblicani, che hanno diversi interessi legati alle aziende tecnologiche (di principio o per banali motivi di presenza di quelle aziende negli stati da loro rappresentati). Le grandi aziende come Google e Facebook fanno inoltre pressioni a Washington, per far valere le loro ragioni e provare a condizionare l’attività dei parlamentari.

Mentre le indagini svolte dal Congresso danno alle aziende qualche margine di manovra in più per modificarne l’andamento, quelle che riguardano il ramo giudiziario subiscono generalmente minori interferenze. I procuratori generali di 50 stati e territori degli Stati Uniti hanno avviato a settembre un’indagine antitrust nei confronti di Google, concentrata soprattutto sulle pratiche applicate dall’azienda nel settore della pubblicità online. Queste iniziative potrebbero proseguire ed espandersi in altri ambiti, anche nel caso in cui quelle del Congresso dovessero rivelarsi inconcludenti.

Politica e “Big Tech”
Il nuovo corso di indagini e verifiche nei confronti delle grandi aziende tecnologiche segnerà probabilmente parte della campagna elettorale per le presidenziali statunitensi del 2020. Nel frattempo, i candidati più radicali alle primarie dei Democratici hanno fatto numerose dichiarazioni su Google e Facebook, sostenendo che abbiano raggiunto grandezze e poteri eccessivi. La candidata Elizabeth Warren, data tra i favoriti, sostiene che Facebook debba essere divisa in aziende più piccole, separandola per esempio da Instagram, e che Google dovrebbe separarsi dal suo YouTube.

Mark Zuckerberg, il CEO di Facebook, ha detto in più occasioni che una separazione da Instagram danneggerebbe gravemente la sua azienda, e sta cercando di persuadere i Democratici più moderati per evitare questa eventualità. Facebook sta inoltre lavorando per integrare il più possibile i sistemi per scambiarsi i messaggi del suo social network con quelli di Instagram e di WhatsApp, altra sua applicazione che potrebbe causare qualche problema antitrust. Un sistema interconnesso, dice l’azienda, dovrebbe rendere più pratico e sicuro lo scambio di messaggi tra gli utenti, ma secondo molti osservatori renderebbe soprattutto inscindibili le varie attività dell’azienda, rendendo più difficile la separazione di sue attività in società più piccole e indipendenti.

I Repubblicani, tradizionalmente più restii a normare il mercato, sembrano meno interessati a spezzettare Facebook, Google e gli altri, ma mantengono comunque un approccio estremamente critico nei confronti delle loro attività. Accusano da tempo le piattaforme di essere più vicine ai Democratici e di dar loro maggiore spazio e rilevanza online.

Schiacciate tra gli interessi dei due partiti, le società faticano a trovare il giusto equilibrio per condurre le loro attività di influenza. A complicare ulteriormente il quadro c’è inoltre il fatto che la politica e il governo degli Stati Uniti non sono le uniche forze a mettere sotto pressione le grandi piattaforme e le aziende tecnologiche.

Inchieste dei media
Le interferenze russe nelle presidenziali del 2016, con la circolazione di una grande quantità di notizie false online per screditare gli oppositori di Donald Trump, hanno indotto i media statunitensi (e non solo) a occuparsi con crescente attenzione dei social network e più in generale delle grandi piattaforme di Internet.

Un’inchiesta del Wall Street Journal ha per esempio sollevato molti dubbi sul modo in cui Amazon gestisce il proprio motore interno per la ricerca dei prodotti. L’articolo sostiene che Amazon organizzi i risultati delle ricerche in modo da mantenere ai primi posti prodotti che rendono di più, in termini di ricavi, all’azienda, rendendoli quindi più visibili e accessibili rispetto ad altri. Amazon ha respinto queste accuse, sostenendo di mostrare semplicemente i prodotti in base a quanto sono richiesti e acquistati dai suoi utenti, a prescindere da chi siano i produttori (la società vende diversi suoi marchi tramite il portale).

Il New York Times ha invece pubblicato un’interessante inchiesta sull’App Store, il servizio di Apple per acquistare e scaricare le applicazioni da installare sugli iPhone e sugli iPad. Secondo il giornale, Apple avrebbe messo per mesi ai primi posti le proprie app nei risultati delle ricerche, in modo da renderle più evidenti e incentivarne l’uso rispetto ad applicazioni simili prodotte da sviluppatori terzi. In questo modo Apple avrebbe favorito la diffusione di alcuni suoi servizi in abbonamento, come Apple Music per la musica, a scapito di concorrenti come Spotify. L’azienda ha ammesso che gli algoritmi utilizzati tendevano in alcuni casi a mettere in maggiore evidenza le sue app, sostenendo di averli cambiati per dare più risalto alle applicazioni degli altri sviluppatori.

Nel complesso, tutti i grandi giornali statunitensi negli ultimi tre anni hanno dedicato una crescente attenzione alle grandi aziende tecnologiche, occupandosi soprattutto dei social network e del loro ruolo nel cambiare (nel bene e nel male) le nostre società. Le inchieste su Facebook hanno permesso di scoprire gravi casi di violazione della privacy degli utenti, come nella vicenda di Cambridge Analytica, o l’impiego di soluzioni per condizionare le scelte degli iscritti sempre in termini di privacy, con politiche per lo meno in contraddizione con quanto richiesto dalle leggi sulla tutela dei dati personali, a cominciare dal nuovo regolamento dell’Unione Europea in materia (GDPR).

Da ameno un anno molti giornali e siti di notizie statunitensi hanno esteso le loro redazioni aprendo sezioni dedicate ai temi della tecnologia, con le loro ripercussioni sulla società, la politica e l’economia. Tra queste CNN, NBC e BuzzFeed hanno assunto giornalisti esperti del settore, mentre altri giornali hanno rivisto la loro organizzazione interna per seguire meglio le grandi piattaforme e le loro attività. Le inchieste uscite negli ultimi mesi sono il risultato di questi cambiamenti e segnano un modo nuovo di raccontare le innovazioni e le ripercussioni che hanno per la società, con un approccio molto più scettico e distante dal positivismo che per lungo tempo ha accompagnato le storie intorno alla Silicon Valley.

Nuove attenzioni da parte dei media stanno portando le grandi piattaforme a fare maggiori sforzi sia in termini di pubbliche relazioni, sia nel modo in cui vengono pensati e annunciati i nuovi prodotti. Apple, per esempio, da un paio di anni ha aumentato le garanzie in termini di tutela della privacy per i propri utenti, presentandosi come un’alternativa più affidabile rispetto a Google e al suo Android, dove parte dei servizi è invece fornita gratuitamente grazie alla pubblicità (e ai sistemi per tracciare le attività degli utenti).

Unicorni
Ulteriori pressioni nei confronti delle grandi piattaforme e più in generale del settore tecnologico arrivano dagli investitori, il cui approccio è sensibilmente cambiato nell’ultimo anno. Con la prospettiva di una probabile nuova crisi economica e una maggiore attenzione ai flussi di cassa, i fondi di investimento sono diventati più cauti nei confronti delle startup statunitensi. Gli “unicorni”, cioè le aziende promettenti e con una valutazione sopra al miliardo di dollari, sono osservate con maggior scetticismo, anche alla luce di come è andato l’ingresso in borsa (IPO) di alcune di loro.

L’IPO più attesa dell’anno era quella di Uber, società dalla storia piuttosto controversa e che è arrivata a quotarsi in borsa dopo numerosi scandali, legati sia alla sua gestione interna sia a casi di cronaca che hanno riguardato gli autisti del suo servizio simile ai taxi. Uber si è quotata in borsa a maggio e ha perso quasi l’11 per cento del valore delle proprie azioni in una giornata, un record negativo per la storia delle IPO negli Stati Uniti. Qualche settimana dopo, l’azienda ha pubblicato i propri dati trimestrali annunciando perdite per un miliardo di dollari.

Uber continua a perdere enormi quantità di denaro e c’è grande scetticismo sul fatto che possa rendere redditizio il proprio modello di business nei prossimi anni. L’IPO più attesa del 2019 ha deluso, ma secondo diversi analisti è stata utile per riportare alla realtà molti investitori e avere un approccio più sobrio nei confronti degli “unicorni”.

Altre startup, meno affermate di Uber, hanno rivisto i loro piani rimandando l’ingresso in borsa. Il caso più eclatante delle ultime settimane è stato quello di WeWork, società che ha provato a vendersi come innovativa e tecnologica, ma che nella realtà dei fatti affitta banalmente locali per chi è alla ricerca di spazi di lavoro. Dopo diversi scandali il suo CEO si è dovuto dimettere e la quotazione in borsa è stata rinviata all’ultimo, facendo ulteriormente aumentare lo scetticismo da parte degli investitori.

Dietro a WeWork c’era anche SoftBank, la grande holding giapponese che negli ultimi anni ha investito svariati miliardi di dollari nelle startup. SoftBank detiene l’80 per cento circa di WeWork e ha investito oltre 9,4 miliardi di dollari nell’azienda, che potrebbero rivelarsi il suo peggior investimento. SoftBank ha un capitale enorme, ma negli ultimi anni ha investito in numerose startup che ora sono considerate a rischio. Anche per questo motivo altri fondi d’investimento più piccoli hanno rivisto le loro strategie, razionalizzando le loro attività ed esponendosi meno sul mercato.

Concorrenza
Non è chiaro quali potranno essere le conseguenze di questo cambiamento per le grandi piattaforme, che a differenza di molti “unicorni” hanno i conti a posto e continuano a produrre enormi profitti ogni trimestre. Microsoft ha un valore di mercato intorno ai 1.100 miliardi di dollari, seguita dal miliardo di dollari di Apple e dagli 855 miliardi di dollari di Amazon. Alphabet, la holding che controlla Google, ha un valore di 831 miliardi di dollari, mentre Facebook supera di poco i 500 miliardi di dollari. Le loro prestazioni sul mercato e i loro flussi di cassa non sono per ora in discussione, ma potrebbero risentire dell’approccio più cauto con cui gli investitori sono alla ricerca della “next big thing”, la piccola startup che un giorno diventerà grande come Google o Facebook.

Il problema è che l’attuale panorama non sembra essere molto favorevole per fare emergere nuove aziende, e gli esempi non mancano. Snap, la società che produce Snapchat, si è quotata in borsa nel marzo del 2017 e da allora il valore delle sue azioni si è dimezzato. L’azienda ha avuto qualche problema di gestione interno, ma soprattutto ha faticato a reggere la stretta concorrenza di Facebook, che ha imitato molte delle funzionalità di Snapchat all’interno di Instagram. Le modifiche hanno consentito a Facebook di far crescere molto rapidamente Instagram, eliminando qualsiasi incentivo da parte degli utenti a lasciarla per andare a cercare qualcosa di diverso su Snapchat.

Molti analisti si chiedono se le dimensioni enormi raggiunte da Google, Facebook e gli altri non costituiscano ormai un ostacolo insormontabile per le aziende che vorrebbero fare concorrenza, e se questo non comporti una riduzione dell’offerta e la possibilità stessa di fare innovazione più velocemente nel settore tecnologico. Il tema è sentito soprattutto fuori dagli Stati Uniti, a cominciare dall’Europa, dove salvo rarissimi casi (Spotify, Skype) le startup tecnologiche non riescono a diventare competitive con le grandi piattaforme statunitensi.

E in Europa?
Nell’Unione Europea finora è stato seguito un approccio su due fronti: da un lato incentivare la nascita di nuove startup, con agevolazioni e incentivi fiscali, dall’altro punire severamente le società (per lo più statunitensi) che violano le norme sulla libera concorrenza. Sotto la spinta della commissaria europea per la Concorrenza, Margrethe Vestager, la Commissione europea ha inflitto multe da svariati miliardi di dollari a Google e Apple, con altre sanzioni da centinaia di milioni di dollari per Amazon e per il produttore di microchip statunitense Qualcomm. Vestager, che ha ricevuto il rinnovo del proprio incarico nella nuova Commissione europea, sta portando avanti ulteriori indagini per verificare potenziali pratiche lesive della concorrenza da parte delle grandi piattaforme.

Le norme presenti in Europa rendono più semplice la produzione di sanzioni nei confronti di Facebook, Google e gli altri, ma secondo diversi osservatori complicano anche la vita alle startup, che spesso non hanno le risorse necessarie per mantenersi in regola e orientarsi nella burocrazia. La recente entrata in vigore delle nuove regole sulla privacy (GDPR) ha richiesto un notevole impegno da parte delle grandi piattaforme, che si potevano comunque permettere di spendere molto per mettersi in regola, mentre ha lasciato in difficoltà le aziende più piccole attive online e in qualsiasi settore.

In rare occasioni i governi si sono dovuti confrontare con società così grandi e potenti, con una presenza sovranazionale e capacità di controllo senza precedenti. Queste aziende controllano una quantità gigantesca di denaro e, nel bene e nel male, determinano l’andamento di intere economie, dando lavoro a migliaia di persone e spesso senza avere un’idea precisa delle conseguenze delle loro attività. I servizi che offrono sono per lo più gratuiti ed efficienti, cosa che li rende molto popolari tra miliardi di persone, per le quali è ormai inimmaginabile pensare a una casella di posta elettronica a pagamento.

Seppure con difficoltà, in passato i governi sono riusciti a smontare e ad arginare i monopoli che si erano formati in diversi settori, rendendo più equilibrata la competizione tra le aziende. Molti analisti si chiedono però se quegli stessi modelli possano essere applicati oggi a società così ricche e potenti, e soprattutto così popolari tra i loro clienti. La mancanza di collaborazione tra i partiti politici, che in ultima istanza determinano nei Parlamenti le leggi cui devono sottostare le aziende, e la diffusione del populismo potrebbero indebolire gli sforzi per tenere sotto controllo le grandi piattaforme, che hanno ampi poteri e risorse per superare eventuali decisioni dei governi. Molto dipenderà dagli Stati Uniti e dalla loro volontà di normare un settore che per opportunità, e motivi ideologici, finora è stato lasciato sostanzialmente libero di autogovernarsi.