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  • Sabato 26 ottobre 2019

Cosa vuole fare Elizabeth Warren al capitalismo

L'Economist spiega cosa sappiamo del programma economico della senatrice che sta diventando sempre più favorita alle primarie Democratiche americane

(AP Photo/Elise Amendola)
(AP Photo/Elise Amendola)

Stando agli ultimi sondaggi la senatrice Elizabeth Warren, candidata alle primarie presidenziali del Partito Democratico, sta andando forte e ha oramai raggiunto un gradimento pari a quello di Joe Biden, fino a poco tempo fa l’indiscusso favorito. Ex professoressa di Harvard specializzata nello studio delle bancarotte individuali, Warren è considerata una dei candidati più radicali tra quelli delle primarie Democratiche: soltanto il senatore Bernie Sanders è ritenuto più a sinistra di lei. Sanders si definisce un “socialista democratico”, mentre Warren, pur avendo un programma radicale, dice di essere una convinta capitalista e di credere nei benefici di un mercato regolato.

Questa settimana, il settimanale Economist – che tendenzialmente ha uno sguardo critico sulle figure radicali – ha analizzato il programma economico di Warren e le conseguenze che potrebbe avere sullo stato del capitalismo americano. L’Economist inizia elencando l’attuale situazione degli Stati Uniti e i problemi del paese sui quali Warren intende focalizzare la sua attenzione: l’aumento delle diseguaglianze negli ultimi trent’anni, i bassi salari, le difficoltà nell’accesso a servizi essenziali come cure mediche e lo strapotere delle grandi società arrivato a danneggiare la competizione e a creare veri e propri oligopoli.

Il settimanale passa poi ad analizzare come Warren voglia fronteggiare questi problemi. La prima misura, e la più facile da adottare, sarà l’abolizione dei tagli fiscali ai redditi più alti e alle grandi società decisi da Donald Trump. Warren intende poi introdurre una nuova imposta del 7 per cento sui profitti che superano i 100 milioni di dollari. Questa tassa si applicherà sui profitti dichiarati dalle società prima che vengano applicati tutti gli sconti e le altre scappatoie fiscali che, come si dice in gergo, abbattono l’imponibile, cioè riducono la quantità di reddito su cui si applica l’aliquota fiscale (l’Economist nota che, grazie a una legislazione molto favorevole alle società, tra queste due grandezze c’è spesso una differenza molto ampia).

Anche gli individui più ricchi saranno presi di mira dal suo piano. Secondo i calcoli del settimanale, il 2 per cento dei contribuenti più ricchi pagherà sui propri redditi il 15 per cento in più di tasse. Warren vuole anche introdurre nuove imposte sulla ricchezza, le famose “patrimoniali”. In particolare punta a introdurre un tassa del 2 per cento sui patrimoni superiori ai 50 milioni di dollari e una del 3 per cento su quelli che superano il miliardo. Grazie alla globalizzazione, spostare le proprie ricchezze è divenuto sempre più facile per chi ha a disposizione molti soldi: l’Economist quindi è un po’ scettico sulla possibilità che queste imposte riescano effettivamente a produrre un gettito significativo.

Con il denaro ottenuto tramite queste imposte, Warren intende finanziare un vasto piano di interventi sociali. Il settimanale cita solo alcune delle sue proposte: assegni e nuovi servizi per gli anziani, istruzione universitaria e asili nido gratuiti. Il capo economista dell’agenza di rating Moody’s Mark Zandi, incaricato da Warren di esaminarne il programma, dice che i numeri tornano: la senatrice promette di spendere tanto quanto incasserà dalle sue misure.

L’unico punto su cui Zandi ha dei dubbi è la riforma sanitaria di Warren, sulla quale non gli è ancora stato chiesto di effettuare conteggi. Si tratta dell’intervento di spesa più importante del programma di Warren e la novità con l’impatto potenzialmente maggiore. La sua proposta è il cosiddetto “Medicare for all”, proposta per primo dal suo rivale Sanders e sostenuta da Warren in maniera, secondo alcuni, non del tutto convinta.

Il “Medicare for all” in sostanza porterebbe alla nazionalizzazione del sistema di assicurazioni sanitarie private, un’industria che attualmente vale 530 miliardi di dollari l’anno. Lo scopo è quello di fornire una copertura sanitaria gratuita per i più poveri ed estesa in maniera universale, anche nei confronti di quegli americani che attualmente godono soltanto dei trattamenti minimi. Il problema del piano è che è estremamente costoso. L’Economist ricorda che uno dei pochi metodi per renderlo sostenibile è farne pagare una parte anche alla classe media, cosa che in parte avvenne con la riforma sanitaria di Obama, e che fu rinfacciata a lungo all’ex presidente. Warren non ha ancora precisato come intenda procedere, ma ha assicurato che presto fornirà nuovi dettagli sulle coperture che intende trovare.

L’Economist passa quindi ad analizzare quello che è considerato il pezzo forte del programma di Warren: il suo piano per colpire le grandi società industriali e finanziarie. Warren ad esempio vuole obbligare i fondi di private equity (cioè quei fondi che acquistano società non quotate in borsa) a farsi carico dei debiti e delle pensioni delle società che acquisiscono. Warren vuole anche aumentare le tasse sui guadagni dei manager dei fondi di private equity, che attualmente sono tassati come rendite da capitale, con un’aliquota al 23,8 per cento. Warren vuole che invece siano tassati come redditi ordinari, con un’aliquota fino al 37 per cento. Secondo l’Economist, queste misure potrebbero addirittura mettere fine all’industria del private equity.

Warren punta anche a separare l’attività delle banche che raccolgono depositi e concedono prestiti dalle altre attività più rischiose e speculative. Ha promesso di disfare alcune delle principali fusioni societarie degli ultimi anni, che hanno prodotto società accusate di essere troppo potenti ed egemoniche. A questo proposito, la sua promessa più famosa è quella di obbligare Facebook a vendere WhatsApp, ma Warren ha anche detto che intende obbligare il grande gruppo farmaceutico Bayer a vendere Monsanto, principale società del settore degli ogm. Anche Google e Amazon saranno colpite duramente, ha assicurato.

Infine, Warren vuole democratizzare le grandi industrie, obbligando quelle che raggiungono una certa dimensione a riservare il 40 per cento dei posti nei loro consigli d’amministrazione a rappresentanti dei lavoratori; vuole introdurre un salario minimo di 15 dollari all’ora entro cinque anni, un congedo parentale pagato più lungo e maggiore facilità per i lavoratori di iscriversi ai sindacati.

L’Economist scrive che tutte queste misure potrebbero avere effetti positivi, ma che non sono soluzioni definitive. Le banche possono fallire anche se mantengono separate le attività tradizionali da quelle più speculative, mentre dare più potere ai lavoratori può portare a stipendi più alti il che a sua volta può condurre ad altre «complicazioni». Per esempio, dice l’Economist citando l’economista italiano Luigi Zingales, in una multinazionale con sede negli Stati Uniti i lavoratori statunitensi avrebbero molto più potere all’interno dell’azienda dei loro colleghi che fanno lo stesso lavoro per la stessa società ma in altre parti del mondo.

Quello che però agli autori dell’articolo davvero non piace è la parte del programma in cui Warren mette in dubbio la bontà del commercio internazionale. Ad esempio, la senatrice ha già annunciato che intende creare un’agenzia di ricerca pubblica che svilupperà prodotti destinati a essere fabbricati sul suolo americano. Warren promette maggiore controllo politico sui cambi del dollaro, così da favorire le esportazioni. E vuole che nuovi comitati di consumatori e comunità locali possano dire la loro sull’approvazione di nuovi trattati commerciali, il che, secondo il settimanale, significa rischiare di non fare più accordi commerciali in futuro.

Secondo l’Economist, è qui che la professione di fede “capitalista” di Warren si dimostra contraddittoria. Da un lato, infatti, la senatrice promette di rompere oligopoli industriali per aumentare la competizione, ma dall’altro – quando si parla di politiche monetarie e commerciali – Warren sembra divenire una «convenzionale protezionista». In questo, accusa, non sarebbe troppo dissimile da Donald Trump.

L’Economist elenca poi una serie di altre preoccupazioni molto comuni agli ambienti pro-business: l’aumento delle tasse sui ricchi potrebbe spingere questi ultimi a lavorare di meno, a fare meno investimenti e quindi, in ultima analisi, potrebbe danneggiare la crescita economica. Così come lo stesso effetto potrebbe essere prodotto dallo smantellamento dell’industria del private equity o di quella del fracking, una tecnologia per l’estrazione di gas e petrolio da tempo criticata dagli ambientalisti, e che Warren intende proibire.

L’Economist ammette che le diseguaglianze nel paese si ridurrebbero, se il programma di Warren venisse messo in atto, ma ricorda che c’è un limite ai risultati che si possono ottenere tassando i più ricchi. Molto quindi dipenderà dal successo che avranno le misure per migliorare la situazione degli americani con i redditi più bassi, un compito più complicato che il semplice aumentare le imposte ai più ricchi.

Gran parte dei risultati del suo piano, in ogni caso, dipenderà da quanto del suo programma Warren riuscirebbe effettivamente a implementarne se dovesse vincere le primarie e poi l’elezione presidenziale del 2020. Secondo l’Economist, il fatto che Warren sia tra le più radicali esponenti di un partito ancora in larga parte centrista significa che il suo programma finirà per essere annacquato. Ma questo, conclude il settimanale, non deve lasciare tranquilli manager, azionisti e milionari americani. Il successo che il programma di Warren riscuote tra gli elettori Democratici è la dimostrazione che gli argomenti radicali e le promesse di riforma non sono più l’eccezione e che presto potrebbero diventare la regola.