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  • Venerdì 25 ottobre 2019

Le mogli e i figli dei miliziani dell’ISIS

Migliaia di loro, soprattutto bambini, vivono senz'acqua ed elettricità in un campo profughi in Siria, dove la situazione è sempre più complicata

(AP Photo/Maya Alleruzzo, File )
(AP Photo/Maya Alleruzzo, File )

Nelle ultime settimane diversi giornalisti hanno avuto accesso al campo profughi di Al Hol, nel nordest della Siria. Quello di Al Hol è un campo molto particolare: ospita circa 70mila persone, tra cui molte mogli ed ex mogli di combattenti dello Stato Islamico (o ISIS), e i loro figli. Sono persone catturate e detenute a partire dal 2015, quando l’ISIS cominciò a perdere territori in Siria e Iraq, e che da allora vivono nel campo in condizioni molto precarie.

L’esistenza e i problemi di Al Hol sono noti da tempo alle organizzazioni internazionali che operano in Siria, ma del campo si è tornati a parlare dopo l’inizio dell’operazione turca nel nordest della Siria.

Attualmente il campo è gestito dai miliziani delle Forze Democratiche Siriane (SDF), la coalizione anti-ISIS composta da curdi e arabi: il problema è che le SDF stanno progressivamente lasciando pezzi di territori nel nordest della Siria a causa dell’operazione militare turca e a seguito delle tregue negoziate dalla Turchia prima con gli Stati Uniti e poi con la Russia. Il timore è che un eventuale passaggio di mano del campo – dalle SDF alle forze del regime di Assad, o a quelle alleate della Turchia – possa mettere a rischio la sicurezza delle migliaia di persone che ci vivono.

Nel campo non ci sono acqua corrente o elettricità, e diverse persone sopravvivono grazie agli aiuti umanitari distribuiti da alcune grandi organizzazioni internazionali.

«Quasi ogni bambino che ho incontrato era magro fino all’osso, con la pancia gonfia, una tosse profonda e lo sguardo vacuo. Molti trasportavano taniche d’acque più grosse di loro sotto il sole cocente», ha raccontato sul Washington Post Letta Tyler, una ricercatrice dell’ong Human Rights Watch che aveva visitato il campo di Al Hol a giugno. Secondo l’ong americana International Rescue Committee, fra dicembre 2018 e settembre 2019 ad Al Hol sono morti circa 340 bambini, la maggior parte per malattie curabili come la diarrea, oppure per malnutrizione.

Un bambino che lavora come facchino fotografato nel mercato del campo, 31 marzo 2019 (AP Photo/Maya Alleruzzo)

Il campo è diviso in due parti: in una sezione, quella più affollata, abitano le donne e i bambini che provengono da Iraq e Siria, i due paesi dove l’ISIS nel suo momento di massima espansione era riuscito a ritagliarsi un territorio molto esteso. Nell’altra sezione, quella che ha attirato maggiori attenzioni dalla stampa internazionale, vivono invece circa 11mila donne e bambini legati ai foreign fighters, cioè ai combattenti dell’ISIS originari di paesi stranieri, fra cui molti stati europei.

Nella sezione riservata agli stranieri, ci sono donne che provengono da una cinquantina di paesi diversi. Molte di loro hanno subito violenze o negli anni sono state cedute a miliziani dell’ISIS, gruppo che predica l’inferiorità della donna e la sua riduzione in schiavitù. In tante hanno partorito negli ultimi anni, alcune anche diverse volte. Si stima che due terzi degli abitanti della sezione del campo per stranieri abbiano meno di 12 anni.

(AP Photo/Maya Alleruzzo)

Il fatto che nel campo ci siano migliaia di donne che provengono dall’estero, spesso molto giovani e con parenti e amici alla loro ricerca, ha costretto diversi paesi occidentali a valutare se rimpatriarle, e a chiedersi come considerare la loro posizione. Alcune donne detenute sono state semplicemente costrette dai loro mariti o compagni a unirsi all’ISIS; altre lo hanno fatto per convinzione personale, e in mezzo a questi estremi ci sono moltissime sfumature.

Di recente il podcast giornaliero del New York Times, The Daily, ha raccontato la storia di Mariam Dabboussy, una donna australiana di 28 anni di cui suo padre aveva perso le tracce nel 2015. Quando ancora viveva in Australia, Dabboussy aveva sposato un ragazzo di una famiglia che praticava una dottrina dell’Islam piuttosto conservatrice. Nel corso degli anni, la donna si era progressivamente allontanata da suo padre, che l’aveva cresciuta quasi da solo, ed era diventata molto legata alla famiglia di suo marito.

Dopo avere avuto un figlio, la coppia aveva iniziato a viaggiare e visitare paesi prevalentemente arabi. Dabboussy ha raccontato che nel 2015, durante un viaggio in Turchia, suo marito l’aveva costretta con l’inganno a superare il confine con la Siria, e solo dopo qualche tempo la donna aveva capito che erano finiti in un territorio sotto il controllo dell’ISIS. Nel frattempo Dabboussy aveva interrotto ogni contatto col padre.

Dabboussy lo ricontattò dopo più di un anno e mezzo, nel 2017, e gli raccontò che suo marito era morto e che era stata costretta a risposarsi due volte e ad avere altri due figli. Pochi mesi dopo il primo contatto, la donna sparì per un altro po’ di tempo e quando ricomparve raccontò di essere finita ad Al Hol. Da allora suo padre, Kamalle Dabboussy, sta portando avanti una campagna di pressione sul governo australiano per spingerlo a riportare in Australia sua figlia Mariam e le altre donne australiane del campo, insieme ai loro figli. In tutto si parla di circa 65 persone.

Mariam Dabboussy ha raccontato più volte al padre di essersi pentita di aver seguito suo marito, lasciando intendere però di non avere avuto scelta.

Diverse altre donne, intervistate di recente da un giornalista del New York Times, hanno espresso un rimorso simile. Altre ancora rimangono piuttosto radicalizzate. Quando il New York Times ha intervistato alcune donne in fila per ottenere aiuti umanitari nella sezione riservata a chi proviene dall’Iraq e dalla Siria, alcune hanno esplicitamente inneggiato all’ISIS auspicando che possa recuperare i territori persi. «Lo Stato Islamico non smetterà mai di esistere», esclama una donna nel video girato dal New York Times.

Nel podcast del New York Times, Kamalle Dabboussy sostiene che la soluzione più logica per sua figlia e le altre donne australiane sia quella di rimpatriarle e indagarle per capire quanto siano state coinvolte e radicalizzate dallo Stato Islamico. Il governo australiano, però, non ha ancora preso una decisione definitiva. Oltre alle difficoltà logistiche di rimpatriare decine di persone da una zona di guerra, il governo, conservatore, ha citato il timore che le donne di Al Hol possano diventare un problema per la sicurezza nazionale. «Hanno combattuto in nome di un’organizzazione malvagia, e per queste cose ci sono conseguenze», ha fatto sapere il ministro dell’Interno australiano Peter Dutton.

Questo è lo stesso problema che stanno affrontando diversi paesi europei, anche se alcuni nelle ultime settimane si sono mostrati più disponibili ad accogliere donne e bambini da Al Hol e da due campi simili che si trovano in Siria.

Il Regno Unito sta seriamente considerando di rimpatriare circa 30 minori non accompagnati di nazionalità britannica che si trovano nel campo di Al Hol: secondo una valutazione di funzionari curdi e britannici riportata dal Guardian, la soluzione più semplice sarebbe quella di trasferirli ad Ebil, nel Kurdistan Iracheno, e da lì riportarli nel Regno Unito in aereo. Un funzionario del governo spagnolo ha confermato al Paìs che due donne e 13 minori spagnoli che vivono in un campo simile verranno trasferiti in Turchia e poi rimpatriati, mentre per i 6-7 cittadini spagnoli di Al Hol bisognerà decidere se farli passare dalla Siria o dal Kurdistan Iracheno.

I piani di diversi governi europei sono però stati complicati dall’invasione turca, che ha costretto i curdi siriani e le SDF ad accettare di ritirarsi da una zona profonda circa 30 chilometri e negoziare una specie di protezione col regime siriano di Bashar al Assad.

Mariam Dabboussy ha raccontato a suo padre che molte donne straniere sono spaventate dalla prospettiva che le forze di Assad, note per la loro brutalità, prendano il controllo del campo. Secondo un funzionario curdo sentito dal Paìs, i comandanti delle SDF hanno dovuto trasferire al fronte diversi soldati che gestivano il campo, col risultato che delle 800 guardie ne sono rimaste solo 300. La scorsa settimana circa 100 persone fra donne e bambini hanno provato a scappare, ma sono state catturate dalle forze curde.