Il MoMA è diventato troppo grande?

Il critico d'arte del New York Times ha recensito i lavori di rinnovamento e ampliamento del famoso museo di New York, di cui non è convintissimo

I lavori al MoMA, 11 giugno 2019
(Christina Horsten/picture-alliance/dpa/AP Images)
I lavori al MoMA, 11 giugno 2019 (Christina Horsten/picture-alliance/dpa/AP Images)

Il 21 ottobre riaprirà, dopo quattro mesi di chiusura, il Museum of Modern Art di New York, poi diventato famoso come MoMA, il museo più importante al mondo dedicato all’arte moderna e contemporanea. Si tratta dell’ultima fase di un progetto di rinnovamento iniziato cinque anni fa e costato 450 milioni di dollari, realizzato dallo studio di architetti Diller Scofidio + Renfro in collaborazione con lo studio Gensler, e che amplierà il museo di quasi 3700 metri quadrati di spazio espositivo in più. Il nuovo MoMA potrà così mostrare 2.400 opere contemporaneamente, circa più di mille rispetto a prima.

Diller Scofidio + Renfro

Da quando venne fondato nel 1929 da Abby Aldrich Rockefeller, moglie del finanziere John D. Rockefeller Jr. e dalle sue due amiche Lillie Bliss e Mary Quinn Sullivan, il museo dovette aspettare dieci anni per trovare spazio nella sua sede attuale, sulla 53ª Strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, e da allora ha conosciuto molti lavori di rinnovamento e ampliamento, che rispondevano alla crescita della sua rilevanza, all’afflusso del pubblico e ai nuovi modi di allestire l’arte. Quando venne inaugurato, nel 1939, era un edificio rettangolare a sei piani disegnato dagli architetti modernisti Philip L. Goodwin e Edward Durell Stone, ricoperto in vetro e pannelli di marmo: svettava come simbolo dell’arte moderna che voleva custodire e far conoscere tra le case in pietra calcarea e le villette a schiera di quello che allora era un quartiere residenziale.

Da subito iniziò a espandersi e, come scrive il critico d’arte del New York Times Micheal Kimmelman, «il museo ha inghiottito proprietà, cospirato con i costruttori, eretto grattacieli, demolito edifici sulla sua strada, ne ha costruiti di nuovi e poi a volte li ha buttati giù per fare spazio a un nuovo restauro». Negli anni Cinquanta e Sessanta il MoMA affidò una prima espansione a Philip Johnson, negli anni Ottanta a Cesar Pelli e poi nel 2004 a Yoshio Taniguchi. Tra le conseguenze di questi ampliamenti ci fu anche la crescita di pubblico: negli anni Settanta il MoMA era visitato da circa un milione di persone all’anno, che divennero due dopo l’intervento del 2001-2004 di Taniguchi e tre nel 2010; con il nuovo se ne aspettano tre milioni e mezzo.

Diller Scofidio + Renfro

Il nuovo MoMA dedicherà sempre tre piani alla collezione permanente e alle esposizioni temporanee, avrà più spazi per le performance dal vivo, la musica e la danza, tra cui uno al piano terra che sarà visibile all’esterno come fosse la vetrina di un negozio. L’allargamento sarà reso possibile soprattutto dall’incorporazione di parte degli spazi dell’ex American Folk Art Museum, ormai chiuso e spostato nell’Upper West Side di New York. La scalinata Bauhaus verrà estesa dal piano terra al secondo e terzo piano; al primo piano sarà aggiunta una nuova lobby con due gallerie a ingresso libero (ci sono per esempio otto dipinti del kenyano Michael Armitage) mentre al sesto ci sarà un ristorante con terrazza che prenderà il posto di quello all’entrata del quinto piano, dove «l’odore degli scampi e della vellutata di asparagi si mescolava ai quadri di Seurat e di Cézanne», come scrive il New York Times. Verrà ridisegnata anche la libreria mentre un negozio per i regali sarà spostato al primo piano sotto terra.

Probabilmente la cosa più difficile del progetto è stata tenere insieme in modo coerente i tanti pezzi ereditati dai lavori precedenti: le gallerie, l’edificio originario degli anni Trenta, la lobby aggiunta da Taniguchi, il giardino di Johnson. Come tutti gli interventi anche questo riceverà elogi e critiche, e una la fa proprio Kimmelman del New York Times, particolarmente scettico su un ulteriore ampliamento del museo. Una delle ragioni dell’ampliamento è la necessità di diradare il pubblico e consentire una visita meno asfittica ma è anche vero che più spazio richiama più spettatori. Era già successo con l’intervento di Pelli che «aveva trasformato il MoMA in una sorta di centro commerciale di provincia, senza risolvere il problema dello spazio», cosa che secondo Kimmelman non avviene neanche questa volta. A suo avviso anziché raddoppiare la sede nel centro di Manhattan, una soluzione sarebbe stata decentrare il MoMA costruendo altre succursali, per esempio a Brooklyn, nel Queens o nel West Side: «ora New York ha molti centri diversi. Il MoMA sarebbe potuto rinascere o avrebbe potuto alterare il clima culturale della città». (Oltre alla sede a Manhattan il MoMA ne ha un’altra nel Queens, il MoMA PS1, da quando, nel 2000, si affiancò al Centro di Arte Contemporanea PS1 durante la chiusura per i lavori di Taniguchi; espone però arte contemporanea). Il MoMA poi è sempre stato il genere di museo dove si poteva vedere tutto con una sola visita ma ora – il che può essere un bene o un male – non sarà più così.

Kimmelman è piuttosto critico anche con il progetto in sé: «Sembra di entrare in un negozio di Apple. Tutto è frizzante e disegnato in modo intelligente. La scritta “Hello. Again” è dipinta su un lungo muro bianco come fosse uno slogan di Apple. Dalla biglietteria, ci sono segnali che ti indicano le opere esposte nell’edificio di Taniguchi a est e quelle nelle gallerie a ovest, dove c’è un groviglio di ascensori e di scale». Il progetto è «raffinato e pragmatico. Ma emargina il giardino, il che è un peccato. Il giardino è il cuore storico del MoMA; forse è per questa ragione che tutta questa intelligenza, questa destrezza e l’evidente desiderio di rendere il posto più amichevole non mi sembra abbiano risposto al problema dell’ambientazione del museo», conclude Kimmerman.

Altri critici sono più indulgenti e sottolineano soprattutto un altro aspetto, ovvero il ripensamento del modo in cui verranno esposte le opere: non saranno più suddivise per periodi e movimenti (come il Cubismo o l’Impressionismo) ma per associazioni e grandi temi (Rispondere alla guerra, la Città come palcoscenico), e l’osservatore potrà muoversi ed esplorarle in modo molto più libero che in precedenza. Verrà anche dato più spazio ad artisti poco conosciuti (come le donne, i latinoamericani, gli asiatici e gli afroamericani) e a forme artistiche meno rappresentate, mentre la selezione nelle gallerie cambierà più frequentemente, variando il 30 per cento delle opere esposte ogni anno. «Figure un tempo secondarie ora sono diventate di primaria importanza», ha spiegato la curatrice capo Ann Temkin al sito Artnet News ed entro il 2022 il museo ha in programma di mostrare un intero piano di opere completamente nuove. Le opere più visitate saranno comunque sempre esposte: tra queste Le Ninfee di Claude Monet, le lattine di zuppa Campbell di Andy Warhol e Notte stellata di Van Gogh. Per finire il MoMA aprirà un’ora prima, alle 10 di mattina, e ogni primo giovedì del mese chiuderà alle 21; il costo del biglietto sarà di 25 dollari.

Secondo il sito Artsy, tra le cose più interessanti del nuovo MoMA c’è la giustapposizione del quadro di Pablo Picasso Les demoiselles d’Avignon, del 1907, e di un quadro di 60 anni dopo dipinto dall’artista americana Faith Ringgold, American People Series #20: Die. La violenza sottile che emerge dal lavoro di Picasso, che raffigura cinque prostitute nude e con maschere africane al posto del volto, si palesa nel quadro di Ringgold che vi si ispira, e che ritrae uomini e donne bianchi e neri dopo una sparatoria e un accoltellamento. Artsy cita la scelta come modello esemplare della nuova organizzazione, che vuole azzerare le gerarchie e accostare opere con significati, gusti, stili che si richiamano. Sono piaciuti anche il Marie-Josée and Henry Kravis Studio, uno spazio al quarto piano con pavimento e pareti nere e una grossa finestra che dà sui grattacieli, che ospiterà opere sperimentali e performance; e il Paula and James Crown Creativity Lab, al secondo piano che ospiterà corsi d’arte per tutte le età.

Faith Ringgold con American People Series #20: Die al National Museum of Women in the Arts a Washington DC, nel 2013
(AP Photo/Jacquelyn Martin)