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  • Mercoledì 26 giugno 2019

La Sea Watch 3 è arrivata a Lampedusa

Contro le indicazioni del governo, dopo due settimane al largo con a bordo 42 persone: Salvini ha ribadito che continuerà a vietare lo sbarco

Nel primo pomeriggio di oggi la nave Sea Watch 3 è entrata in acque italiane, dopo due settimane di attesa al largo di Lampedusa con a bordo 42 persone soccorse nel Mediterraneo in condizioni di salute sempre più precarie. L’equipaggio della nave lo ha deciso nonostante il divieto del governo italiano, che da giorni aveva ordinato alla nave di non avvicinarsi alle acque territoriali italiane. La Sea Watch 3 ora è ferma a poca distanza dal porto di Lampedusa. Intorno alle 18, la comandante della nave Carola Rackete ha fatto sapere che le autorità italiane sono salite a bordo per controllare documenti dell’equipaggio e della nave. Nel corso della serata non ci sono stati altri aggiornamenti.

Nel pomeriggio in varie occasioni il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva ribadito che avrebbe continuato a vietare alla nave di sbarcare a Lampedusa. In un video diffuso dal suo account Facebook pieno di informazioni false e forzature sulla vicenda, Salvini aveva detto di essersi «rotto le palle» di doversi occupare delle ong che soccorrono persone nel Mediterraneo, e invitato a trovare una soluzione l’Unione Europea, i Paesi Bassi (lo stato di bandiera della nave) e la Germania, il paese di provenienza della ong Sea Watch. In serata a Lampedusa è arrivata invece una delegazione del Partito Democratico.

Attualmente in base alle norme contenute nel “decreto sicurezza bis”, entrando in acque italiane senza autorizzazione il capitano della Sea Watch 3 e la ong rischiano migliaia di euro di multa.

Il 12 giugno la Sea Watch 3 aveva soccorso 52 migranti a largo della Libia e si era rifiutata di obbedire alla richiesta del governo italiano di riportarli a Tripoli, in Libia, perché – come gran parte della comunità internazionale – non lo considera un “porto sicuro” (in Libia è letteralmente in corso una guerra civile, e i migranti vengono detenuti, picchiati e torturati). L’Italia non aveva dato alla Sea Watch 3 il permesso di sbarcare e da due settimane la nave si trovava a largo di Lampedusa, poco oltre la linea di demarcazione delle acque territoriali italiane.

Nel corso di queste due settimane dalla Sea Watch 3 erano state fatte sbarcare donne, bambini e persone con gravi problemi di salute: ma 42 persone restavano ancora a bordo in condizioni sempre più complicate di salute fisica e mentale. Negli stessi giorni, secondo i dati del ministero degli Interni, circa 312 persone erano invece sbarcate in Italia, arrivate con l’aiuto di trafficanti o con piccole imbarcazioni. Da qualche giorno, dopo che erano falliti i tentativi di trovare un accordo con le autorità italiane, Sea Watch aveva parlato della possibilità di violare il divieto di ingresso e oggi, su Twitter, ha scritto di averlo fatto «non per provocazione ma per necessità, per responsabilità».

In un video diffuso il 24 giugno da Sea Watch, un richiedente asilo che si trova a bordo della nave raccontava: «Non ce la facciamo più. Siamo come in prigione, ci manca tutto, non possiamo fare niente, non possiamo camminare né muoverci perché la barca è piccola mentre noi siamo tanti. Non c’è spazio». Sullo sfondo si vedeva un gruppo di persone sedute una accanto all’altra sul ponte della nave, riparate da un tendone (in questi giorni a Lampedusa le temperature massime superano i 30 gradi).

Le persone salvate dalla Sea Watch 3 erano partite via mare dalla Libia, un paese dove è in corso una guerra e dove, nel mezzo di una quasi totale instabilità militare e politica, i migranti sono vittime di abusi e violenze. Diverse inchieste giornalistiche e rapporti delle Nazioni Unite hanno documentato le cose terribili che succedono nei centri libici per i migranti, spesso gestiti dalle stesse bande criminali che guadagnano anche con il traffico di persone verso l’Europa. Riportare in Libia le persone salvate nel Mediterraneo come chiesto dal governo italiano avrebbe quindi messo a rischio la loro vita, oltre che violato le regole del diritto marittimo che impone alle imbarcazioni che soccorrono persone in mare di raggiungere il porto sicuro più vicino.