Intanto la Sea Watch 3 è ancora lì

Con a bordo 42 persone in condizioni sempre più precarie, e col caldo di questi giorni al largo di Lampedusa: lo stallo non è stato sbloccato nemmeno dalla Corte europea dei diritti dell'uomo

(ANSA / ETTORE FERRARI)
(ANSA / ETTORE FERRARI)

Sono passate quasi due settimane da quando le persone a bordo della nave Sea Watch 3 della ong tedesca Sea Watch sono state soccorse al largo delle coste della Libia, il 12 giugno. Dal giorno successivo, la nave è ferma al limite delle acque territoriali italiane: il governo italiano non ha dato alla nave la disponibilità dei propri porti invocando il cosiddetto «decreto sicurezza bis», approvato a fine maggio. Da allora la situazione è in stallo: diversi sindaci tedeschi si sono detti disponibili ad accogliere i 42 richiedenti asilo rimasti a bordo, se solo l’Italia accettasse di farli sbarcare, ma il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha ribadito che per quanto lo riguarda «la Sea Watch in Italia non arriva, può restare in mare fino a Natale e Capodanno».

La situazione non si è sbloccata nemmeno dopo che alcuni richiedenti asilo hanno fatto ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per chiedere all’Italia di farli sbarcare. Una regola interna della Corte prevede infatti che una persona possa fare richiesta di decisioni e misure provvisorie in casi particolarmente urgenti. Martedì la Corte ha respinto il ricorso presentato dai richiedenti asilo: nelle motivazioni, piuttosto scarne, si legge che la Corte ha deciso di respingere il ricorso ma ha incoraggiato il governo italiano a fornire «tutta l’assistenza necessaria» alle persone a bordo in condizioni di vulnerabilità. La Corte ha anche ricordato che le misure urgenti sono previste soltanto per i casi in cui le persone coinvolte rischiano di subire «danni irreparabili».

Dieci giorni fa sono stati fatti scendere dalla nave donne, bambini e uomini in gravi condizioni di salute, ma nel frattempo anche la condizione delle altre persone a bordo è notevolmente peggiorata, soprattutto dal punto di vista psicologico (la maggior parte di loro è reduce da lunghi periodi di prigionia e tortura nei centri di detenzione libici, dove i diritti umani sono sistematicamente violati). In un’intervista a Repubblica data lunedì pomeriggio, la capitana della nave Carola Rackete ha spiegato che «i migranti sono disperati. Qualcuno minaccia lo sciopero della fame, altri dicono di volersi buttare in mare o tagliarsi la pelle».

In un video diffuso da Sea Watch, un richiedente asilo racconta: «Non ce la facciamo più. Siamo come in prigione, ci manca tutto, non possiamo fare niente, non possiamo camminare né muoverci perché la barca è piccola mentre noi siamo tanti. Non c’è spazio». Sullo sfondo si vede un gruppo di persone sedute una accanto all’altra sul ponte della nave, riparate da un tendone (in questi giorni a Lampedusa le temperature massime superano i 30 gradi).

Negli ultimi giorni, sulla terraferma, non si è mosso quasi nulla. Il governo italiano continua a negare la disponibilità dei propri porti, senza compromessi. In una delle ultime dichiarazioni sul tema, Salvini ha detto: «In tredici giorni se davvero avessero avuto a cuore la salute di chi è a bordo sarebbero potuti andare e tornare dall’Olanda. È un problema che non riguarda l’Italia, noi abbiamo fatto sbarcare malati, neonati e donne incinte, non esiste che un paese come il nostro si faccia dettare le scelte in materia di immigrazione da una ong pagata da chissà chi per fare chissà cosa. È una nave olandese di una ong tedesca, ci pensino ad Amsterdam o a Berlino».

La posizione di Salvini contiene diverse imprecisioni e falsità. Le imbarcazioni che soccorrono persone in mare sono obbligate dal diritto marittimo a raggiungere il porto sicuro più vicino – sotto diversi punti di vista, fra cui anche quello del rispetto dei diritti umani – dato che dirigersi verso porti lontani diversi giorni di navigazione mette in pericolo la salute e la sicurezza dei naufraghi. I governi di bandiera delle navi delle ong, come del resto tutti i tipi di nave, non hanno obblighi particolari nei confronti delle navi stesse, né tantomeno dei passeggeri. È falso, inoltre, sostenere che Sea Watch sia pagata «da chissà chi»: come molte altre ong, Sea Watch ha reso pubblico il proprio bilancio e la lista dei suoi donatori.

Nonostante la ong abbia dalla propria il diritto internazionale, si tiene appena alla larga dalle acque italiane per via del cosiddetto «decreto sicurezza bis», che sebbene sia ritenuto da diverse fonti potenzialmente incostituzionale, al momento prevede multe da migliaia di euro per le navi che entrano nelle acque italiane nonostante un divieto esplicito del ministero dell’Interno.