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  • Venerdì 22 giugno 2018

Qual è il problema con la nave Lifeline?

Il governo italiano sostiene che batta bandiera olandese “illegalmente” e non vuole che porti in Italia i migranti che ha soccorso, ma le cose sono ben più complicate

Da qualche giorno la nave dell’ong tedesca Lifeline è al centro di un nuovo caso politico fra Italia e Europa, simile a quello che pochi giorni fa era capitato all’Aquarius. Nel corso di alcune operazioni al largo della Libia la nave ha soccorso 229 migranti, ma il governo italiano non intende rendere disponibili i suoi porti – spiegando che l’Italia non può essere l’unico paese ad accogliere queste navi – e ha addirittura minacciato di sequestrarla, cosa che secondo il diritto internazionale non avrebbe titolo per fare. Stando alle ultime notizie, stamattina la nave si trova nelle acque di Malta: il governo italiano e la capitaneria di porto avrebbero chiesto al governo maltese di accoglierla nei suoi porti e di arrestare il suo equipaggio.

Il governo italiano contesta a Lifeline – e alla nave Seefuchs di Sea Eye, un’altra ong tedesca che sta continuando a lavorare nei pressi della Libia – sostanzialmente due cose: che intenda portare i migranti che ha soccorso in Italia, e che batta bandiera olandese nonostante sia di un’associazione tedesca. Partiamo dalla seconda cosa, ma prima facciamo un passo indietro.

Perché le ong battono bandiere esotiche?

Ogni stato concede la sua bandiera a una nave privata a patto che fra la stato e la nave esista un «legame sostanziale», come prevede l’articolo 91 della Convenzione ONU sui diritti del mare (PDF) entrata in vigore nel 1994. In questo modo la nave e il suo equipaggio accettano la giurisdizione dello stato di cui battono bandiera. Ma il diritto internazionale non contiene indicazioni su cosa sia esattamente un legame sostanziale, e ognuno si regola come crede. Alcuni paesi, come i Paesi Bassi, offrono alle navi regimi fiscali e burocratici molto morbidi. È lo stesso principio che sta dietro ai paradisi fiscali: un paese abbassa volontariamente i suoi standard fiscali e legislativi per attirare più investitori (e quindi più soldi). Le ong si registrano in posti del genere per questi motivi: pagare meno tasse e avere meno noie possibili dai paesi in cui operano, anche per ragioni di libertà di azione.

Come spiega uno studio di Caterina Montebello, che ha insegnato Diritto della navigazione all’Università di Palermo, il criterio del “legame sostanziale” è stato introdotto per incoraggiare gli stati a «un’attuazione più effettiva degli obblighi» dello stato stesso nei confronti della nave, e non per «stabilire criteri in base ai quali altri Stati possano contestare la validità di registrazione di una nave nello Stato di bandiera». In altre parole: qualsiasi nave può fare richiesta per battere legittimamente bandiera di un certo stato, per pagare meno tasse o mettersi al riparo da eventuali persecuzioni. Gli stati sono liberi di decidere i criteri con cui concedere la loro bandiera, ma si impegnano a occuparsi effettivamente delle loro navi: quindi sanzionarle se violano le loro leggi e il diritto marittimo internazionale, oppure proteggerle da eventuali soprusi.

Il Belize e le Isole Marshall, cioè i due stati di cui battevano bandiera le navi di MOAS, una delle più note ong che soccorreva i migranti fra il 2014 e 2017, offrivano probabilmente regimi fiscali e burocratici molto convenienti. I due paesi però non avevano certamente la forza e le risorse per  “proteggere” le navi della ong, che operavano a migliaia di chilometri di distanza. MOAS ha interrotto le operazioni di soccorso nel 2017, citando i rischi per la sicurezza che il suo equipaggio correva nei pressi della Libia.

Torniamo al caso di oggi
Nel caso della Lifeline e di Sea Eye, i Paesi Bassi hanno scelto una terza opzione fra sanzionarle e proteggerle: si sono tirati fuori sostenendo che le navi non risultano nei loro registri. La rappresentanza dei Paesi Bassi all’Unione Europea ha scritto su Twitter che la Lifeline e la Seefuchs non sono registrate nel paese, e che «non stanno navigando battendo bandiera olandese secondo la responsabilità statale prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare».

Tutte e due le ong, però, hanno diffuso documenti in lingua olandese che sembrano provare un legame di qualche tipo coi Paesi Bassi.

Potrebbero aver ragione sia le autorità olandesi sia le due ong: Lifeline, contattata da Reuters, ha spiegato che la sua nave era troppo piccola per poter essere iscritta nel registro “ufficiale” olandese, suggerendo che esista un altro registro per imbarcazioni più piccole.

Ok, ma perché allora portano i migranti in Italia?
La bandiera battuta da una certa nave non c’entra nulla con il porto dove sbarcare un gruppo di persone soccorse in mare, al contrario di quanto ha suggerito il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini.

Le ong che soccorrono i migranti seguono la cosiddetta convenzione di Amburgo del 1979 e altre norme sul soccorso marittimo, che prevedono che gli sbarchi di persone soccorse in mare debbano avvenire nel primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani.

La Tunisia è un paese relativamente sicuro ma non è attrezzato per garantire i bisogni dei migranti, e a giudizio degli operatori delle ong non ha una legislazione completa sulla protezione internazionale. Malta ha la metà degli abitanti di Genova e il quintultimo PIL dell’Unione Europea, e si occupa già dei migranti che riesce a gestire. Grecia, Francia e Spagna sono troppo lontane dalle coste libiche: per non parlare dei Paesi Bassi, a cui appartiene la bandiera che battono Lifeline e Seefuchs. È per questo che le ong trasportano in Italia, e solo in Italia, tutte le persone che soccorrono nei pressi della Libia: i porti italiani sono semplicemente i più vicini e sicuri.