Come bere più caffè

Basta scegliere quello decaffeinato, che è meno dannoso per la salute e ormai indistinguibile

(Spencer Platt/Getty Images)
(Spencer Platt/Getty Images)

«Il gusto non ha bisogno di caffeina» era lo slogan di uno spot degli anni Novanta di Hag, la marca di caffè decaffeinato più famosa al mondo: raccontava un assaggio di caffè al buio, dove il protagonista, critico verso il decaffeinato, beveva involontariamente un espresso Hag decantandone il sapore. All’epoca il caffè decaffeinato doveva liberarsi dallo stigma di essere meno buono, un ripiego per chi aveva problemi di salute o di insonnia, e le aziende che lo vendevano cercavano di rinnovarne l’immagine puntando sul gusto (uno slogan più recente di Hag è per esempio “Solo il piacere del caffè”).


Anche oggi, nonostante viviamo in un’epoca particolarmente salutista – come mostra il fiorire di pubblicità contro l’olio di palma, la demonizzazione del glutine, la caccia al superfood di turno e il proliferare di chips di broccoli – il consumo di caffè decaffeinato è decisamente contenuto rispetto al totale: secondo dati Nielsen (che però escludono cialde e capsule, il settore maggiormente in crescita), nel 2018 in Italia ne sono state consumate 5.560 tonnellate, pari al 5,8 per cento del totale, per un valore di 54 milioni di euro, il 7,2 per cento del totale; di questi il 42,2 per cento è decaffeinato Hag, con 2.345 tonnellate che coprono il 42,7 per cento del mercato, seguito da Lavazza con 1.664 tonnellate e il 29,7 per cento del mercato. In Italia ogni anno viene decaffeinato circa il 7 per cento degli oltre 9 milioni di sacchi di caffè da 60 chili.

Questi numeri piuttosto contenuti sono probabilmente dovuti ai pregiudizi sul sapore e sulla tossicità del caffè deca, e anche – come scrive il sito Vox – a una cultura che esalta il caffè in quanto concentrato di caffeina, rappresentata in illustrazioni su Instagram, meme e magliette come una sostanza salvifica in grado di risvegliare, dare energia e distendere i nervi. In realtà il modo migliore per bere più caffè, è berlo decaffeinato.

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Da dove viene il caffè decaffeinato
Il caffè decaffeinato è caffè privato della caffeina, un alcaloide presente anche nelle piante di cacao, tè, mate e guaranà e dalle bevande ottenute, che venne isolato per la prima volta nel 1819 dal chimico tedesco Friedlieb Ferdinand Runge. Secondo l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) non se ne dovrebbero superare i 400 mg al giorno, circa 5 tazze di espresso: oltre quella soglia si sviluppa una dipendenza e si rischia di incorrere in nervosismo, insonnia, ansia, mal di testa e palpitazioni cardiache. Il decaffeinato non è completamente privo di caffeina: secondo le direttive europee la dose residua non deve superare lo 0,1 per cento, contro l’1,2-1,5 per cento presente nell’arabica e il 2-4 per cento della robusta; una tazza di caffè decaffeinato ne contiene di media 2-3 milligrammi contro gli 80-120 di un caffè normale.

Il caffè decaffeinato venne brevettato e poi commercializzato nel 1906 da un venditore di caffè di Brema, il tedesco Ludwig Roselius. Pare che Roselius attribuisse la morte del padre, avvenuta nel 1902, all’eccessiva assunzione di caffè (lavorava nel settore e pare fosse un assaggiatore), e che per questo si mise a cercare un modo per estrarre la caffeina. Un altro pezzo della leggenda racconta che lo scoprì per caso, nel 1905, quando gli arrivò via nave una spedizione di chicchi imbevuti di acqua di mare. Roselius provò a tostarli ugualmente e scoprì che il sapore era leggermente più salato ma che la caffeina era scomparsa: era stata rimossa dall’acqua. Così brevettò un metodo che prevedeva di immergere i chicchi in acqua salata e poi di metterli a bagno nel benzene, un solvente che avrebbe sciolto la caffeina, e che per molto tempo rimase il metodo standard. L’anno successivo fondò la Kaffee Handels Aktien Gesellschaft, ora nota come Hag, che divenne la principale azienda di caffè decaffeinato al mondo.

Il successo arrivò tra gli anni Venti e Trenta nel Novecento grazie all’attenzione per il benessere e per l’esercizio fisico della Repubblica di Weimar, pullulante di diete pre-moderne che rifiutavano lo zucchero raffinato, l’alcol, il tabacco, la carne e gli stimolanti come la caffeina. Roselius sfruttò la moda vendendo il suo caffè come un’alternativa salutare in grado di proteggere il cuore e i nervi, anche se il metodo che aveva brevettato manteneva tracce di benzene che si rivelò poi tossico, e che venne abbandonato. Ai tempi però non si sapeva ancora e la pretesa salubrità del caffè decaffeinato lo rese popolare tra i nazisti, salutisti e fustigatori di cibi viziosi e dannosi: la caffeina venne bollata come un veleno mentre si serviva regolarmente caffè decaffeinato come previsto della politica ufficiale.

Il caffè deca si diffuse rapidamente fuori dalla Germania. In Francia Hag aprì la filiale Sanka (da sans caféine, cioè senza caffeina), che venne acquistata nel 1932 dalla società statunitense General Foods. Negli Stati Uniti il caffè decaffeinato ebbe successo dopo la Seconda guerra mondiale e il suo consumo quadruplicò dal 1960 al 1980: nel 1984 il New York Times scriveva che rappresentava il 20 per cento del totale ed era l’unico settore in crescita dell’industria del caffè.

Il sonno è un sintomo di privazione di caffeina (Tristan Fewings/Getty Images)

Come si elimina la caffeina
Oggi il metodo di Roselius è stato abbandonato e sostituito da altri che prevedono solventi non dannosi per la salute. Demus, fondata a Trieste nel 1962, è una delle tre aziende italiane che si occupano dell’estrazione della caffeina dal chicco verde e ha un brevetto che prevede anche l’eliminazione della cera esterna dei chicchi (cosa che li rende più digeribili), di alcuni aromi negativi e della Ocratossina A, una sostanza tossica.

La caffeina viene estratta dai chicchi ancora verdi del caffè, quindi non tostati. Il processo prevede solventi diversi ma segue più o meno le stesse tappe: i chicchi vengono gonfiati con acqua e vapore acqueo per distanziare le strutture cellulari; un solvente cattura la caffeina; il solvente viene rimosso e recuperato per essere riutilizzato; il caffè viene asciugato e infine confezionato e analizzato per assicurarsi della sua qualità.

Uno dei migliori risultati è dato dall’anidride carbonica supercritica, che usa le alte temperature, è molto costoso e ad alto dispendio energetico; in alternativa c’è l’anidride carbonica liquida, a temperature più basse, meno costosa ma che richiede più tempo. Un altro solvente usato è l’acetato di etile; individua bene la caffeina ma si infiamma facilmente e ha un odore di frutta che altera lievemente il sapore. Uno dei più utilizzati e perfezionati dall’industria è il diclorometano, una sostanza organica molto volatile – evapora a 40 gradi centigradi – in grado di catturare perfettamente la caffeina; viene eliminata attraverso il vapore ed eventualmente nella tostatura. Per finire, il metodo ad acqua prevede che i chicchi siano immersi in un infuso di acqua e caffè, dove rilasciano la caffeina per diffusione. La caffeina naturale estratta, spiega Massimiliano Fabian, amministratore delegato di Demus, viene re-impiegata nel settore alimentare, come nelle bevande energetiche, nei cosmetici (creme anti-cellulite o dei prodotti per il viso), nel settore chimico-farmaceutico e ultimamente anche in quello tessile.

Oltre a non essere dannosi, questi metodi non alterano – tranne quello con l’acetato di etile – il sapore del prodotto: la caffeina è priva di sapore e una volta scoperto il modo migliore di estrarla, il caffè è praticamente indistinguibile da quello non trattato, contrariamente a quanto accadeva in passato. Un tempo il metodo di estrazione era meno raffinato e la tostatura non era studiata appositamente ma era la stessa dei chicchi non trattati; inoltre si partiva spesso da caffè di qualità inferiore perché rivolto a un mercato più ristretto. Per finire, il caffè decaffeinato si deteriora prima di quello intero: era più facile lasciare la confezione aperta troppo tempo finendo per bere caffè rancido e vecchio, un inconveniente risolto, spiega Fabian, dalla diffusione delle capsule monodose.