Le imposte sull’inquinamento danneggiano i più poveri?

La risposta è "dipende": una "carbon tax" fatta bene può essere utile per tutti, e ci sono casi che lo dimostrano

Un manifestante dei "gilet gialli" alle proteste di sabato 8 dicembre a Parigi, Francia (ABDUL ABEISSA/AFP/Getty Images)
Un manifestante dei "gilet gialli" alle proteste di sabato 8 dicembre a Parigi, Francia (ABDUL ABEISSA/AFP/Getty Images)

Da circa un mese i cosiddetti “gilet gialli” organizzano grandi manifestazioni di piazza a Parigi e in altre città della Francia per protestare contro il presidente Emmanuel Macron. Le proteste sono state innescate – anche se poi sono diventate molte altre cose – da un aumento delle imposte sul carburante previsto in Francia per il 2019, aumento già deciso dal precedente governo e che Macron intendeva rispettare nell’ambito dei programmi per ridurre l’inquinamento. In seguito alle manifestazioni – anche violente, e che hanno causato danni per milioni di euro – il governo francese ha rinunciato ad aumentare le imposte, accogliendo di fatto le richieste dei “gilet gialli”.

Il fatto che le proteste fossero nate per via del previsto aumento delle imposte per i carburanti ha dimostrato quanto siano delicate e complesse le scelte politiche per arginare il riscaldamento globale, riducendo le emissioni inquinanti. Il tema non riguarda solamente la Francia, ma tutti i paesi più sviluppati e in misura diversa quelli economicamente ancora arretrati: tassare più pesantemente la benzina e gli altri carburanti fossili è ritenuto dagli esperti un passaggio irrinunciabile per disincentivare l’impiego di risorse molto inquinanti, ma trovare il giusto equilibrio per non penalizzare soprattutto i più poveri non è semplice e può portare a un grande malcontento. Il tema è enorme ed è alla base della più grande sfida che l’umanità abbia mai dovuto affrontare, che comporta già e comporterà per tutti esborsi ben più cari di un aumento del prezzo della benzina: mantenere il riscaldamento globale entro limiti tollerabili, trovando una soluzione a un problema che in buona parte si è creata da sola.

Il caso della Francia
Nel 2014 il presidente François Hollande aveva fatto approvare un pacchetto di provvedimenti per tutelare l’ambiente, ridurre l’inquinamento e rispettare i vincoli internazionali sulle emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas responsabile dell’effetto serra. Tra le regole era compreso un meccanismo di aumento progressivo delle imposte sul carburante, con l’obiettivo di disincentivare l’uso dei motori tradizionali e passare a sistemi più ecologici, come le automobili elettriche. Il 60 per cento circa del prezzo di un litro di benzina in Francia è costituito da imposte di vario tipo, quindi alla prospettiva di assistere a un ulteriore aumento nel 2019, sono iniziate le prime proteste sfociate poi in quelle più o meno organizzate dei “gilet gialli”.

Diversi analisti e osservatori hanno fatto notare come la scelta dell’aumento, ora ritirata, fosse stata gestita male dal governo sia in termini di comunicazione sia di politica economica. Senza strumenti correttivi e di compensazione, l’imposta avrebbe in primo luogo penalizzato gli abitanti delle piccole città e delle zone rurali, dove i trasporti pubblici sono meno efficienti e non ci sono alternative all’utilizzo dell’automobile. Nelle stesse aree gli effetti della crisi economica si fanno sentire ancora oggi, con difficoltà che sarebbero state ulteriormente acuite da un aumento cospicuo dei prezzi della benzina.

Per come era stata pensata ed è stata gestita in questi anni, l’imposta sul carburante non ha inoltre portato a un impiego diretto dei fondi ottenuti per investire in sistemi di trasporto meno inquinanti, o comunque per ridurre le emissioni di CO2. Quest’anno il governo dovrebbe ottenere dall’imposta già esistente circa 34 miliardi di euro, ma si stima che meno di un quarto di questa cifra sarà impiegata per assistere i meno abbienti a passare a sistemi di trasporto meno inquinanti. Macron ha parlato spesso, in campagna elettorale e dopo l’elezione, della necessità di investire più denaro in veicoli meno inquinanti, ma nei fatti non ha realizzato molto e di certo non sfruttando gli introiti derivanti dalle imposte sul carburante.

Chi non si sarebbe potuto permettere di rinunciare alla propria automobile, o di spendere denaro per investire in un veicolo meno inquinante, si è sentito ulteriormente penalizzato rispetto ai più ricchi, se non discriminato. Il fatto che di recente Macron abbia fatto approvare una legge che ha abbassato le tasse ai più ricchi non ha certo aiutato, portando alle proteste di queste settimane e a un suo ulteriore crollo di popolarità.

La percezione del torto subìto
La vicenda francese dimostra quanto sia necessario studiare politiche più ampie ed elaborate di un semplice aumento delle imposte sui combustibili fossili. Il rischio è che decisioni irrinunciabili per ridurre l’inquinamento atmosferico siano vissute come un torto da parte della popolazione, che può finire con una sottovalutazione dei pericoli legati al riscaldamento globale. Movimenti e leader populisti trovano in questa percezione distorta delle occasioni per fare propaganda, sfruttando il malcontento per loro tornaconto elettorale.

Non è un caso che le proteste in Francia siano state cavalcate e sfruttate dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per usare toni sprezzanti contro Macron e per far passare il messaggio che le decisioni contenute nell’accordo di Parigi – il trattato internazionale sul clima più importante degli ultimi anni – siano sbagliate e penalizzino i più poveri. Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo e non ha problemi a dichiararsi favorevole a un incremento dell’utilizzo di combustibili fossili, nonostante la comunità scientifica abbia ormai dimostrato come il loro impiego sia stato determinante nell’accelerare il riscaldamento globale.

Più le persone penseranno di subire un torto per una cosa che nemmeno riescono a capire, perché gli è stata spiegata poco o male, più nutriranno risentimento verso i loro governi e si avvicineranno a chi promette loro un’alternativa molto più pericolosa ma apparentemente anche molto più comoda, cioè lasciare tutto com’è e non intervenire sul consumo dei combustibili.

Il governo italiano e la sua “ecotassa”
La settimana scorsa si è discusso molto in Italia di una proposta portata avanti dal Movimento 5 Stelle, e compresa nella legge di bilancio, per imporre una nuova imposta sulle automobili proporzionale alle emissioni di anidride carbonica che producono. La legge di bilancio, approvata alla Camera e in attesa dell’approvazione in Senato, prevede che per chi acquista un’auto tra il 2019 e il 2021 ci sia un’imposta aggiuntiva se il veicolo supera i 110 grammi di emissioni di CO2 al chilometro. L’imposta parte da 150 euro e arriva a 3mila euro nel caso in cui emetta più di 250 grammi di CO2 per chilometro percorso.

Lo stesso governo nei giorni scorsi è sembrato essere diviso sul nuovo provvedimento, che potrebbe subire importanti modifiche durante l’esame della legge di bilancio in Senato. Il problema è che l’imposta potrebbe riguardare quasi la metà dei veicoli in vendita, e con una sproporzione rispetto al bonus previsto per chi acquista veicoli con emissioni entro i 90 grammi di CO2 per chilometro percorso.

Il giusto equilibrio
Ormai da decenni scienziati ed economisti si confrontano su quali politiche si debbano adottare per ridurre l’inquinamento, senza danneggiare la crescita economica e senza sfavorire i più poveri. È un tema ampiamente dibattuto e che ha portato a sperimentare diverse soluzioni, con alterni successi.

Sul piano delle imposte sulle emissioni, uno dei casi più rilevanti e promettenti riguarda la British Columbia, la provincia più occidentale del Canada. Una decina di anni fa il governo locale introdusse una “carbon tax”, con un principio molto semplice: tassare qualsiasi combustibile fossile utilizzato per il riscaldamento, i trasporti e la produzione di energia elettrica, ma con un meccanismo di ridistribuzione degli interi proventi derivanti da queste imposte, in modo da bilanciare l’aumento dei prezzi dei carburanti.

Dopo l’introduzione della carbon tax, non solo è aumentato il prezzo della benzina, ma anche quello di molti altri beni: le aziende che realizzano i loro prodotti attraverso processi inquinanti hanno scaricato sui consumatori i maggiori costi, con un consistente aumento dei prezzi. Il principio della redistribuzione ha però permesso di controbilanciare le cose: nei primi tre anni il governo ha dato indietro circa 1,8 miliardi di dollari alla popolazione, attraverso una serie di cospicui tagli delle tasse.

Il sistema non solo ha permesso di mantenere un certo equilibrio, ma ha anche consentito ai più virtuosi di ricavarci qualcosa. Chi ha ridotto l’utilizzo dei combustibili ha potuto beneficiare lo stesso di un taglio fiscale, a fronte di una spesa ridotta. L’idea è che in questo modo si incentivi il passaggio a sistemi più sostenibili con maggiori possibilità economiche rispetto ai classici piani di sussidi sperimentati dai governi.

L’imposta era partita con una cifra pari a 10 dollari per ogni tonnellata di anidride carbonica prodotta, ma già nel 2012 era stata portata a 30 dollari per tonnellata. A conti fatti, il calo di emissioni equivale a quelle prodotte da circa 750mila automobili in tutta la British Columbia. Il consumo dei combustibili fossili è diminuito del 17 per cento, tra il 2008 e il 2012. Il temuto impatto negativo sull’economia non c’è stato e la British Columbia ha continuato a crescere più delle altre province del Canada.

Appurati i vantaggi e l’efficacia del sistema di compensazione, la carbon tax ha ricevuto una crescente approvazione da parte degli abitanti della British Columbia. Nel 2012 il tasso di approvazione per la misura era intorno al 64 per cento, mentre nel 2016 aveva raggiunto il 70 per cento. Gli aumenti progressivi degli ultimi anni sono quasi passati inosservati, e il governo locale confida di portare senza problemi l’imposta a 50 dollari per tonnellata nel 2021, come previsto dai piani. Una proposta per dirottare parte dei fondi verso la costruzione di infrastrutture e trasporti più sostenibili, riducendo la redistribuzione diretta, sta portando a qualche malcontento proprio perché tradirebbe la logica dell’iniziativa.

Tasse sulle emissioni
Buona parte degli economisti concorda sul fatto che l’adozione di “carbon tax” con sistemi di redistribuzione possa essere la strategia ideale per ridurre le emissioni, evitare discriminazioni e accompagnare il difficile e costoso passaggio verso fonti di energia più pulite. Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, sta cercando di incentivare le altre province a seguire l’esempio virtuoso della British Columbia, ma deve comunque fare i conti con diverse resistenze. Gli interessi legati ai combustibili fossili sono enormi e su di essi si basano intere economie, difficili da smantellare e riconvertire soprattutto dove ci sono redditizie attività estrattive.

Anche negli Stati Uniti ci sono forti resistenze nell’adottare una carbon tax, e da ben prima che si insediasse Trump. Gli Stati Uniti sono il secondo più grande produttore di CO2 al mondo, ma solo 10 suoi stati hanno autonomamente deciso di adottare un sistema di controllo delle emissioni (“cap and trade”) che prevede un massimo di anidride carbonica da produrre in un anno, con la possibilità di scambiare l’eccesso con gli altri partecipanti. Da presidente Barack Obama cercò di estendere il sistema e farlo adottare a livello nazionale, ma fallì per la mancanza di un consenso sufficiente al Congresso, dove le compagnie petrolifere hanno grandissima influenza, e non solo sui parlamentari Repubblicani.

Un anno fa il governo cinese ha annunciato un piano per ridurre le emissioni delle sue centrali che bruciano combustibili fossili per produrre energia elettrica. Il meccanismo prevede un massimo di emissioni per ogni centrale: chi si mantiene al di sotto del limite, adottando filtri e sistemi per ridurre l’impatto ambientale, può vendere le quote non utilizzate ad altri impianti meno virtuosi. Il sistema, che sarà progressivamente esteso ad altre realtà produttive, dovrebbe permettere di tenere meglio sotto controllo il livello delle emissioni, che comunque in Cina continua a essere molto alto.

Un meccanismo di quote e scambio è attivo anche nell’Unione Europea nell’ambito dell’Emissions Trading System, ormai attivo da più di 10 anni. Partito bene, il sistema aveva rapidamente portato all’emissione di permessi da scambiarsi a prezzi troppo bassi, che non permettevano di fatto di raggiungere un taglio soddisfacente delle emissioni. Le cose dovrebbero cambiare in seguito a una riforma del meccanismo, decisa in queste settimane dalle autorità europee.

Non c’è tempo da perdere
L’ultimo rapporto speciale pubblicato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), a inizio ottobre, ha prospettato un futuro molto difficile per il nostro pianeta, con il rischio ormai concreto di conseguenze catastrofiche in assenza di scelte radicali per ridurre le emissioni. Il senso di emergenza è stato ripetuto alla recente conferenza sul clima COP24, che si è tenuta in Polonia la settimana scorsa, ma l’impressione generale è che nonostante la serietà del problema non ci siano le condizioni politiche per attuare le misure indicate dall’IPCC.

Dai primi anni Settanta a oggi le emissioni annuali di gas serra sono sostanzialmente raddoppiate. Le emissioni di CO2 a livello globale sono rimaste sostanzialmente ferme tra il 2014 e il 2016, per poi riprendere a crescere a livelli molto sostenuti. La temperatura globale è aumenta di circa 1 °C nell’ultimo secolo, e siamo diretti verso un aumento di 1,5 °C, il limite massimo indicato dall’accordo di Parigi, e diversi modelli non escludono che si raggiunga un aumento di 3 °C nella seconda metà di questo secolo, con effetti disastrosi per interi ecosistemi ed eventi climatici sempre più estremi.