L’economia australiana cresce da 27 anni
È dal 1991 che non va in recessione – come nessun altro paese sviluppato al mondo – grazie ai tagli alla spesa, all'immigrazione e alla Cina
L’ultima volta che il PIL dell’Australia non è cresciuto esisteva ancora l’Unione Sovietica e in Italia ancora non era scoppiato il caso politico-giudiziario noto come “Tangentopoli”. Era il 1991: da allora l’economia australiana non è più andata in recessione – cioè non ha più avuto due trimestri consecutivi con il PIL in calo – nemmeno durante la grande crisi globale del 2008, un record che non ha eguali in nessun altro paese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Per ventisette anni consecutivi il PIL australiano è cresciuto con un tasso medio del 3,2 per cento, resistendo a crisi economiche e politiche e, secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Ufficio di statistica australiano, nel secondo trimestre del 2018 è cresciuto ancora dello 0,9 per cento rispetto al trimestre precedente e del 3,4 per cento rispetto allo scorso anno.
L’influenza della Cina
Le cause di questa crescita costante sono diverse, ma uno dei contributi è stato dato dalla vicinanza con la Cina, il principale compratore di materie prime australiane, in particolare di ferro e gas naturali di cui l’Australia è ricchissima. Ma la vicinanza con la Cina ha aiutato anche un altro settore fondamentale dell’economia del paese, il turismo. Nell’ultimo anno i turisti cinesi in Australia sono stati 1,4 milioni, superando per la prima volta il numero dei turisti provenienti dalla Nuova Zelanda, e ci si aspetta che nei prossimi dieci anni aumentino ancora di più.
La vicinanza con la Cina è stata però ovviamente un fattore casuale e fortunato, di cui l’Australia ha beneficiato un po’ passivamente. Cosa è successo allora di preciso dopo il 1991 per far invertire la rotta dell’economia australiana? In sostanza due cose: l’immigrazione e i tagli alla spesa pubblica.
Immigrazione e riforme del welfare
Negli ultimi mesi in Italia il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha detto più volte che sull’immigrazione il suo modello è l’Australia, facendo riferimento al cosiddetto “No Way”, un sistema di respingimento dei clandestini molto duro introdotto nel 2013 dal governo del conservatore Tony Abbott. Ma in Australia, oltre agli immigrati irregolari che vengono respinti in mare, ogni anno ne arrivano regolarmente moltissimi grazie a procedure chiare, accessibili e trasparenti, e sono proprio questi, come racconta l’Economist, che hanno contribuito in maniera decisiva alla crescita dell’economia australiana.
Oggi il 29 per cento degli australiani è nato all’estero, e metà della popolazione è composta da immigrati o da figli di immigrati. La prima grande ondata migratoria è arrivata dall’Asia negli anni Settanta, quando l’allora governo conservatore decise di accogliere molti rifugiati vietnamiti in fuga dalla guerra. Oggi, esclusi i paesi del Commonwealth, gli immigrati arrivano soprattutto da Cina, sud-est asiatico e India, e nel corso degli anni sono diventati fondamentali per l’economia del paese, cosa riconosciuta sia dai partiti di governo che da quelli di opposizione.
L’altro fattore che ha determinato la crescita del PIL sono le riforme che fin dal 1991 i governi australiani hanno attuato per diminuire la spesa pubblica, in particolare per quanto riguarda pensioni e assistenza sanitaria. Circa trent’anni fa il partito Laburista al governo decise di riformare il sistema pensionistico, rendendo obbligatorio per i lavoratori affidarsi a fondi di investimento privati e lasciando una parte di pensione pubblica solo per chi non ha abbastanza risparmi.
Per quanto riguarda il sistema sanitario nazionale, l’Australia ha optato per un ibrido tra pubblico e privato: l’assistenza di base è garantita a tutti, ma per chi vuole cure più specifiche è previsto il pagamento di una somma aggiuntiva, e i cittadini sono incoraggiati a stipulare delle assicurazioni per evitare costi troppo alti. Come per le pensioni, dunque, la spesa statale per la sanità è solo una piccola parte e incide sul PIL del paese solo per il 6 per cento, molto meno del 14 per cento degli Stati Uniti, dell’8 del Regno Unito o del 9 della Francia e dell’Italia.
Va proprio tutto bene?
Tutto sembra andare per il meglio per l’Australia e la Reserve Bank of Australia prevede che il PIL crescerà ancora nel 2019, raggiungendo il 3,5 per cento. Nonostante questo, però, le preoccupazioni non mancano e gli economisti temono soprattutto che l’economia australiana sia troppo dipendente da quella cinese, e che una grande crisi dell’economia cinese – che già sta soffrendo a causa dei dazi imposti dagli Stati Uniti – possa far crollare tutto il sistema delle esportazioni.
C’è poi un problema che riguarda gli aborigeni, che abitano il paese da circa 40mila anni e che oggi costituiscono il 3 per cento della popolazione, ma che vengono quotidianamente discriminati e vivono spesso ai margini della società, senza possibilità di contribuire alla forza lavoro del paese.
E poi c’è la politica, che è uno dei temi più discussi quando si parla di Australia. Se infatti dal 1983 al 2007 a governare il paese sono stati solo tre primi ministri, in seguito è iniziato un periodo di grande instabilità politica e da allora nessun primo ministro ha concluso il suo mandato di tre anni. In dieci anni se ne sono avvicendati sei, le crisi di governo sono all’ordine del giorno e la breve vita dei governi impedisce che si facciano grandi riforme, dopo quelle fatte trent’anni fa.