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  • Martedì 6 novembre 2018

Che fine ha fatto la “web tax” europea?

La tassa sulle multinazionali americane che si occupano di tecnologia è ferma da un po' al Consiglio dell'UE, e la sua approvazione non è scontata

(ALAIN JOCARD/AFP/Getty Images)
(ALAIN JOCARD/AFP/Getty Images)

Martedì i ministri dell’Economia dell’Unione Europea si sono trovati per discutere per la prima volta la proposta della Commissione Europea di creare una tassa europea sui guadagni delle grande aziende di internet, soprattutto Google, Amazon, Facebook e Apple, che secondo i loro critici al momento pagano troppe poche tasse in Europa. A sei mesi dal caso Cambridge Analytica, alcuni stati europei intendono sfruttare l’approvazione di questa norma come prova del loro impegno prima delle elezioni europee del maggio 2019; ma la sua approvazione non è scontata, e qualcuno – come l’Italia – nel frattempo potrebbe decidere di introdurre una legge nazionale senza aspettare la legislazione europea.

A marzo scorso la Commissione Europea aveva presentato un piano per creare una tassa europea sui guadagni delle aziende con un fatturato globale superiore ai 750 milioni di euro un fatturato generato nell’UE pari almeno a 50 milioni di euro. La nuova imposta – qui potete leggerne i dettagli – prevederebbe un’aliquota del 3 per cento da pagare sul fatturato, che dovrebbe generare 5 miliardi di euro di entrate aggiuntive. L’imposta è stata soprannominata “web tax” perché riguarderebbe soprattutto le grandi aziende statunitensi che operano online e che al momento hanno trovato delle scorciatoie per non pagare le tasse nei paesi dove vendono i loro servizi.

Dato che il loro business è sostanzialmente “immateriale” (non hanno bisogno di grandi capannoni con migliaia di operai, ma possono vendere i loro servizi in tutto il mondo) per loro è relativamente facile aggirare il fisco nazionale: per esempio registrando i loro guadagni in un paese dove le imposte sono basse, ma portando avanti di fatto i loro affari nei paesi con le imposte più alte. Tutte le imprese possono usare simili strumenti di “elusione fiscale” più o meno legittimi, che in un certo senso fanno anche parte dell’economia di mercato; ma per le imprese digitali è immensamente più facile, e qualcuno sostiene che la soluzione sia impedire loro di usare le scorciatoie che vengono garantite ad altri.

Politici ed esperti sostengono da tempo che l’elusione fiscale, specialmente quella delle grandi società digitali, sia un problema da risolvere. Secondo uno studio del Parlamento Europeo, le società come Google, Facebook ed Apple riescono ogni anno a non versare al fisco europeo circa 70 miliardi di euro. La Commissione Europea ha stimato che le grandi società del digitale paghino in media il 9,5 per cento di tasse sui loro profitti, contro una media del 23,3 per cento pagata dalle altre società.

La nuova imposta, se dovesse entrare in vigore, sarà applicata nell’attesa di una soluzione a lungo termine al problema: un nuovo meccanismo fiscale che obblighi le grandi società del digitale a registrare i profitti e pagare le tasse nel paese dove questi sono effettivamente generati e non in paesi terzi, scelti per la loro bassa imposizione fiscale. Questa seconda misura – ancora più complicata da mettere a punto – sostituirà l’imposta sul fatturato al 3 per cento, ma siamo ancora lontanissimi da un’eventualità del genere.

Al momento l’imposta del 3 per cento sul fatturato è in discussione al Consiglio dell’UE. Fra i paesi che spingono per la sua approvazione c’è soprattutto la Francia: il presidente francese Emmanuel Macron aveva pensato di usare la tassa durante la campagna elettorale in vista di maggio, scrive Politico. Dopo gli scandali che hanno coinvolto Facebook, i cittadini europei sono sempre meno propensi a fidarsi delle grandi aziende  americane di tecnologia per quanto riguarda la gestione dei loro dati personali, e promuovere una tassazione più severa potrebbe avere un discreto ritorno elettorale.

Il fronte contrario alla “web tax” europea, invece, è formato soprattutto dall’Irlanda, dalla Svezia, dall’Estonia e dalla Repubblica Ceca. Grazie ad alcuni privilegi fiscali molto controversi, l’Irlanda ospita le sedi europee di diverse multinazionali statunitensi tra cui Google, Facebook e Twitter, e si oppone da tempo a criteri più stringenti. Gli altri paesi, più semplicemente, temono che l’imposta possa danneggiare le imprese e scoraggiarle da nuovi investimenti in Europa.

Anche la Germania, fra l’altro, è preoccupata per il suo settore automobilistico e altri settori produttivi nazionali che a seconda di come sarà scritta la legge potrebbero rientrare nei criteri della nuova tassazione. Gli irlandesi e gli olandesi preferirebbero aspettare che si raggiunga un accordo più ampio a livello internazionale piuttosto che forzare la mano delle singole aziende. In questi mesi circa 120 paesi, compresi gli Stati Uniti, stanno lavorando con l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) a un accordo internazionale per regolamentare a livello globale la tassazione delle multinazionali che operano prevalentemente online.

Italia, Spagna e Regno Unito hanno fatto sapere che se non dovesse passare una norma a livello europeo provvederanno a introdurne una a livello nazionale. Anche la Francia potrebbe decidere di agire in questo modo, ma per ora Macron spera di poter arrivare ad un accordo in Consiglio UE entro la fine dell’anno. Interpellato a proposito, anche il ministro dell’Economia italiano Giovanni Tria ha detto di sostenere la proposta di una “web tax” a livello europeo, ma «se non dovessimo trovare un’intesa entro fine anno, l’Italia introdurrà una tassa a livello nazionale». La norma per far pagare più tasse in Italia alle grandi società digitali è già stata approvata dal precedente governo di centro sinistra, ma al momento è congelata.